Questioni bioetiche e diritto ebraico, Giuntina 2019
Il presente contributo rappresenta la riproduzione in forma scritta della relazione che Rav Riccardo Di Segni ha presentato al convegno “Questioni bioetiche e diritto ebraico”.
Grazie per l’invito a partecipare a questo importante convegno e anche delle parole introduttive. In questa relazione vorrei portare una testimonianza sull’impatto che la bioetica ebraica ha sia all’interno della comunità ebraica che al suo esterno. Parlando dell’interno, quando si parla di bioetica c’è anche un problema pratico: ma tutti questi ragionamenti e riflessioni come vengono trasmessi e utilizzati dal pubblico? Qui si crea una dinamica nella quale un membro della comunità, il cui rapporto con la tradizione può essere estremamente intenso o estremamente labile, che, sottoposto un determinato problema conflittuale, chiede delle indicazioni. Indicazioni che qualche volta la persona richiede per pura curiosità, altre volte chiede come suggerimento e altre volte ancora chiede proprio come istruzione pratica di comportamento, alla quale, rispettando l’autorità cui si rivolge, si atterrà rigorosamente. Quest’ultima eventualità diciamo che è un po’ più rara, però il dialogo della comunità con la ricerca di queste notizie è sempre più intenso.
Come sapete, la parola ‘bioetica’ è una parola nuova nel vocabolario. Nell’ebraico tradizionale si è parlato molto più spesso di refuà wahalakhà, “medicina e regola da seguire”, cioè tutte le situazioni nelle quali l’osservanza della legge entra non in conflitto, ma in discussione con problemi medici. E da questo punto di vista, se la bioetica è disciplina nuova, almeno per il titolo, la discussione tra medicina e halakhà è una cosa estremamente antica.
Nel campo pratico, alcuni esempi di problemi che vengono posti. Uno, come ha spiegato il professor Steinberg, è che esistono dei problemi rituali che sono specifici dell’ebraismo: quelli dell’osservanza del sabato, per esempio; un altro è quello di una pratica che è presente in tanti altri mondi religiosi, ma che nell’ebraismo assume forme particolari di rigore e di severità: i digiuni in determinate occasioni dell’anno. La domanda molto frequente è se il malato debba fare digiuno. In questo caso sono necessarie competenze abbastanza allargate, perché bisogna mettere insieme a quella rabbinica la competenza medica sulla gravità della malattia o sulla necessità di prendere determinati farmaci, che comporterebbero comunque anche l’assunzione di acqua o di cibi, e la situazione generale del paziente, misurata con le norme della tradizione. Un altro caso particolare in questo senso è: una donna incinta deve fare il digiuno del giorno del Kippur? Malgrado ci sia una tradizione antichissima di codificazione, su questo argomento continuano a essere prodotte nuove riflessioni e normative rabbiniche. Come a dire che c’è una sensibilità continua e aggiornata alla luce delle conoscenze attuali e dei nuovi dati: per esempio, una statistica su parti anticipati in conseguenza del digiuno. Un tempo non si potevano fare queste statistiche, oggi si possono fare e queste vengono riportate sul tavolo dei decisori e vengono discusse. Questi sono tipi di domande che mi fanno molto frequentemente.
Altre domande molto più drammatiche riguardano problemi di gravidanza: per esempio, una donna incinta, in piena salute, che scopre dalle analisi di essere stata infettata da un virus potenzialmente nocivo per il feto, come un citomegalovirus, chiede che deve fare. Ecco, in questi casi non è che c’è una risposta tranciante. La stessa halakhà, come ha spiegato il professor Steinberg, non è decisiva perché c’è un ventaglio di opinioni. In questo caso, il compito del rabbino è quello di documentarsi anche dal punto di vista scientifico, valutare l’entità del rischio e proporre alle persone una decisione in base all’entità del rischio. In un caso recente che mi è capitato, la possibilità che ci fossero danni al feto era dell’ordine del 5%, cosa che non autorizzerebbe un intervento di interruzione di gravidanza, ma questo divieto va messo con il condizionale in un colloquio sereno ed è una modalità di accompagnamento alla decisione.
Un altro grande problema che viene sollevato, tra l’altro con drammaticità e urgenza, è quello del paziente terminale, in fin di vita, legato a delle macchine, in cui gli anestesisti dicono: “Non c’è speranza di vita, bisogna staccare il respiratore automatico, bisogna interrompere la somministrazione di dopamina nella fleboclisi”. E allora, in questi casi, come ci si comporta? È il momento di un colloquio molto penoso, drammatico, con la famiglia e anche qua non si possono dare soluzioni trancianti, ma dei suggerimenti che derivano in parte dalle conoscenze tecniche, in parte importante dalla conoscenza di quello che gli ultimi decisori hanno detto, e in altra parte anche dalla conoscenza della legislazione attuale, perché non ci si può muovere in questi ambiti se non si conosce che cosa dice la legge italiana su come si gestiscono questi problemi. Questo per dire qual è il “fronte interno”, il dilemma bioetico dentro la comunità.
Ma la bioetica ebraica entra anche in dialogo con altri sistemi. Esiste una grande curiosità, nel mondo in generale e – questo convegno lo dimostra – nel mondo giuridico e nel mondo accademico, su quali siano le opinioni dei diversi mondi sulle scelte bioetiche. E in particolare esiste una vera curiosità sulla posizione ebraica su tanti argomenti.
Posso riferire in merito sulla mia esperienza in una sede autorevole di confronto interdisciplinare e ideologico, il Comitato nazionale per la bioetica (CNB), del quale faccio parte da molti anni. Nelle sue discussioni che portano alla produzione di pareri e mozioni, talora si arriva all’unanimità, altre volte i punti di partenza sono molto lontani e si cerca di arrivare ad un minimo comune, e poi chi non è d’accordo o vota in minoranza o esprime dissenso. Come si colloca un ebreo, rappresentante della bioetica ebraica in questi ambiti? Su questo vorrei portare degli esempi, cominciando da un tema molto controverso dentro e fuori dalla comunità scientifica, quello della medicina omeopatica. Recentemente il CNB ha discusso il decreto sull’etichettatura dei medicinali omeopatici, in particolare sull’obbligo originario di stampare questa frase: “medicinale omeopatico senza indicazioni terapeutiche approvate”; come per dire: è una medicina, però non è chiaro a che cosa serva, in modo che il consumatore sappia di che si tratta. Il CNB, però, accettando la posizione scientifica accreditata, che nega il valore terapeutico delle sostanze omeopatiche, ha ritenuto che la dizione proposta non fosse sufficiente e ha chiesto che la nuova etichettatura sia molto più severa e che invece di dire “medicinale” si dica “preparato”: “preparato omeopatico di efficacia non convalidata scientificamente e senza indicazioni terapeutiche approvate”.
Ma che cosa c’entra la bioetica ebraica in tutta questa storia? Quando mi è stato chiesto “ma voi che ne pensate”, ho raccontato quello che scriveva il compianto rav Abraham Blumenkrantz nella sua autorevole guida alle regole sulla festa di Pesach, la Pasqua ebraica. Una delle domande più comuni che un malato fa a un rabbino è: “Devo assumere una determinata medicina e questa medicina potrebbe contenere degli alimenti proibiti. Che posso fare?”. La regola è particolarmente rigorosa quando si tratta della Pasqua, in cui vige la proibizione di tutti i lieviti. Come ragiona un rabbino in questi casi? Deve distinguere tra la gravità della malattia, la modalità di assunzione del farmaco, la presenza di sostanze proibite in maniera rilevante o meno e così via: tutta una serie di distinzioni in base alle quali si arriva alla conclusione. Ma il rabbino Blumenkrantz cosa dice della medicina omeopatica? Che quando si tratta di un preparato omeopatico, la Pasqua o le regole della corretta alimentazione rituale non c’entrano per niente. La cosa è proibita, dice lui, perché si entra nell’ambito di un’altra proibizione biblica, quella della magia. Perché la magia? Perché prendere una sostanza e scioglierla oltre al limite di diluizione del numero di Avogadro, significa che questa sostanza non esiste più e che quindi stiamo facendo semplicemente un atto magico e non un atto razionale. E gli ebrei, per quanto siano fedeli di una religione, sono tenuti a comportarsi razionalmente e la magia è proibita. Sulla base di questi ragionamenti mi sono trovato perfettamente d’accordo sulla mozione del CNB. Ma ho sollevato anche un altro problema, con una sorta di “accanimento”, direbbero i bioeticisti. La norma precedente diceva che nell’etichetta del medicinale omeopatico deve essere riportata la denominazione scientifica del ceppo, cioè della sostanza che viene usata nel preparato e la sua diluizione. Un normale consumatore che legge l’etichetta, sa cos’è l’ apis mellifera oppure il natrium muriaticum? Di solito no, ma l’apis mellifera è l’ape, quella che fa il miele, e il natrium muriaticum, che viene venduto in una boccettina di pochi grammi a 25 euro, altro non è che il sale comune da cucina, portato a diluizioni estreme. Quindi il CNB ha chiesto che il nome, la denominazione scientifica del componente, sia accompagnata dalla sua traduzione italiana, in modo che l’acquirente sia consapevole di ciò che compra. Qual è il prin cipio etico, ebraico, biblico? Semplicemente che non bisogna ingannare le persone! Un altro esempio, ben più complesso, è il famoso caso del Pertini. L’Ospedale Pertini di Roma è un ospedale nel quale si fa la terapia dell’infertilità. Il laboratorio del Pertini ha gestito contemporaneamente due coppie sterili, chiamiamole A e B. Dalla coppia A è stato prelevato il seme del marito che ha fecondato ovuli della donna, che hanno cominciato a svilupparsi allo stadio di blastocisti; la blastocisti deve essere entro poche ore inserita nell’utero della donna che desidera la gravidanza. Ma è successo che le blastocisti ottenute dalla coppia A sono state inserite erroneamente nel grembo della donna della coppia B, che ha cominciato brillantemente una gra vidanza gemellare. Durante questa gravidanza, si è scoperto che lei stava crescendo embrioni che non erano biologicamente né del marito né di lei. Di qui si è scatenato il problema giuridico “questi bambini, quando escono, di chi sono?”. Su questo argomento c’è stato un appassionato dibattito nel CNB, contemporaneamente alla discussione che investiva l’intera società. Tra l’altro mettendo in evidenza che la legge italiana originaria che regola le questioni di maternità e paternità è del 1942 e che la madre è quella che partorisce il figlio. La questione è collegata a quella della maternità surrogata ed è argomento che sollecita un’ampia riflessione bioetica ebraica attuale; il problema principale è: in una gravidanza in cui l’ovulo viene dato dalla donna A e l’utero è di una donna B e talora c’è anche una committente C, a chi attribuire la maternità? Abbiamo una maternità genetica ovulare, una maternità uterina o di parto e una maternità di committenza: tre madri in gioco e in possibile conflitto. Nel caso del Pertini avevamo due madri soltanto. Il problema è molto importante nella legge ebraica, perché nella legge ebraica, dal punto di vista identitario, è ebreo colui che nasce da madre ebrea, ma oggi che la madre può essere divisa in due parti – nel senso dell’ovulo e dell’utero, chi è la madre? I Maestri che hanno affrontato l’argomento si sono divisi su due posizioni: c’è chi sostiene la maternità ovulare, c’è chi sostiene la maternità uterina. Nel caso del Pertini come ci si comporta? Qui c’è un problema metodologico molto interessante, quello di come arrivare alla conclusione. E come ha spiegato il professor Steinberg, alla conclusione di questi argomenti ci si arriva portando e ragionando sulla casistica precedente che non è detto che sia decisiva, e le possibilità di ragionamento sono tali che ciascun decisore può arrivare a una conclusione differente.
Per fare un esempio di questa casistica – è uno dei tanti, possibili esempi di fonti antiche alle quali ci si riferisce – ho portato il caso, presente nella halakhà antica, di un’alluvione. A seguito di un’alluvione un albero da frutto che cresce nel campo del proprietario A viene sradicato dal terreno dove sta e viene trascinato nel terreno del proprietario B, dove attecchisce e comincia a produrre frutti. L’albero era di A, il terreno di B. La frutta prodotta, di chi è? Su questo caso, già le fonti fanno una distinzione: se l’albero è stato sradicato con tutte le zolle di terra che circondavano le radici, questo appartiene di più al primo proprietario, ma se invece è soltanto l’albero da frutto che è stato sradicato, la frutta appartiene più al secondo proprietario che lo ha nutrito con la sua terra e ha consentito, grazie alla sua terra, la produzione della frutta; al massimo il secondo proprietario deve pagare al primo proprietario l’affitto dell’albero e non la frutta.
Ora se trasportiamo questo discorso alla gravidanza e, invece dell’albero, pensiamo a una blastocisti, a un embrione fecondato che viene inserito nell’utero di un’altra donna, questo utero potrebbe essere come il terreno del secondo proprietario con le conseguenti deduzioni. Come ragionano i decisori sulla base di questo esempio? Dicono: “Ma siamo sicuri che la casistica vegetale e agricola possa essere rapportata alla casistica biologica umana? Siamo sicuri che quello che è un mero problema commerciale ed economico (la proprietà della frutta) possa essere riferito all’identità personale, l’identificazione della maternità?”. Questi accostamenti sono sempre molto difficili, richiedono perizie e sottigliezze. Ma quello che è importante è il metodo. Oggi ci troviamo, grazie agli sviluppi tecnologici, ad affrontare dei problemi che nell’antichità non erano neppure pensabili, ma farlo sulla scorta della nostra tradizione è fondamentale, perché consente alle nostre conclusioni di avere autorità, autorevolezza, fondamento ed è una cosa fondamentale nella struttura della nostra società.
In questa discussione ho portato alla riflessione del CNB un’altra fonte: non la casistica sull’albero, ma un antico esempio giuridico a tutti noto, che però di solito non viene messo in evidenza per questi aspetti. Ed è il famoso giudizio di Salomone. Si tratta di due donne – nel caso specifico, anche se non lo si dice mai, erano due prostitute –, che dormivano insieme ciascuna con il suo bambino. Una mattina una delle due si sveglia e il suo bambino è morto, per cui prende quello dell’altra e dice: “Il bambino è mio”. Le due litigano e arrivano al giudizio davanti al re Salomone, il quale dice, per provocarle (non c’erano i test genetici!): “Visto che non vi mettete d’accordo, io prendo una spada, lo divido in due e fate mezzo per uno”. Allora una madre, quella vera, dice: “No, per carità, io voglio che questo bambino sia vivo e dallo a chi vuoi purché viva”. L’altra, che non era la madre, dice sì, è giusto che sia diviso in due, e in questa maniera si chiarisce la verità.
Ma un aspetto rilevante di questo giudizio è che, in realtà, la preoccupazione del sapientissimo re Salomone era che questo bambino venisse affidato a una madre che lo tutelasse. Non era importante solo chi fosse la madre, ma anche la tutela del bambino. Rispetto alla tutela del bambino, tutto il resto passa in secondo piano. Quindi, quando un giudice deve affidare un bambino a qualcuno, la sua preoccupazione primaria quale dovrebbe essere, secondo l’insegnamento del re Salomone e, quindi, della bioetica biblica ebraica? Quello di affidare il bambino alle persone che possono accudirlo nel migliore dei modi possibili. Un principio condiviso dal CNB, che mentre afferma che sulla definizione della madre ci sono delle divisioni in campo bioetico e giuridico, sottolinea che la questione della tutela del bambino è un’esigenza primaria.
Sempre a proposito di maternità surrogata, sappiamo che in Italia è proibita e questo dà luogo a un turismo fecondativo, per cui le persone che non riescono a ottenere gravidanze in Italia si rivolgono altrove. Ci sono organizzazioni che se ne occupano e vi sono banche di ovuli, di seme maschile e madri con uteri disponibili. Quando nasce il bambino, lo si porta nel paese del committente.
In Israele c’è una legge che disciplina l’argomento, ma sono tali i paletti messi da questa legge – benché sia molto più facilitante della legge italiana – che un paio d’anni fa, quando c’è stato il terremoto in Nepal, c’è stata subito una spedizione israeliana che ha portato dal Nepal in Israele donne incinte e bambini, perché coppie o singoli senza figli in Israele si erano rivolti all’organizzazione nepalese che faceva queste cose. Perché in Nepal sì e non altrove? Perché sia il Nepal che gli Stati Uniti consentono le procedure di maternità surrogata, ma il prezzo degli Stati Uniti si aggira intorno ai 250.000 dollari e quello del Nepal intorno agli 80.000 dollari.
Nella prospettiva che l’Italia faccia una legge su questo argomento, si tratta di problema molto delicato dal punto di vista etico. A parte la questione di chi possano essere i committenti legittimi – se deve essere una coppia legalmente formata, se può essere una coppia omosessuale, se può essere un single uomo o donna –, un altro problema è quello della mercificazione del corpo umano: è lecito pagare una prestazione del genere? Nel dibattito su questo argomento, il Comitato CNB ha detto in maniera molto decisiva: “La maternità surrogata è un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio, sottoposto come un oggetto a un atto di cessione. Il Comitato ritiene che tale ipotesi di commercializzazione di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali che emergono da tutte le dichiarazioni fatte in precedenza”. Quindi, una posizione molto forte e negativa, perché si tratta di commercializzazione del corpo femminile e anche di commercializzazione del bambino.
Nell’ambito di questa discussione qualcuno ha detto: “Eh, ma questa cosa sta già nella Bibbia, perché la matriarca Rachele ha fatto la stessa cosa”. La storia biblica è questa: Rachele, la moglie del terzo patriarca, Giacobbe, non aveva figli e allora, nell’insistenza di questa richiesta, dice al marito: “Prenditi la mia schiava, mettila incinta in modo che io possa avere un figlio per me”. Questa richiesta di Rachele si può intendere nel senso che, quando nasce il bambino, me lo prendo io oppure che, assistendo al parto, accudendo la partoriente, che è una mia schiava, io posso avere da lei il dono della fecondità. Tutto questo porta a dire in modo semplicistico che la maternità surrogata è già presente nella storia della matriarca Rachele. In realtà, non è presente soltanto nella storia della matriarca Rachele, ma lo è già nella storia della matriarca Sara, due generazioni prima. Anche lei ha lo stesso problema, non riesce ad avere figli e quindi propone al marito Abramo: “Adesso unisciti con la mia serva, Agar, mettila incinta, in modo che io possa essere ‘costruita’ da lei”.
È la stessa cosa? Si può semplificare? Vi sono delle analogie – il desiderio della gravidanza e un’altra persona che interviene –, ma anche delle differenze. Una delle differenze ovvie è che qua si sta parlando di modi naturali di procreazione, che sono ben differenti dalla provetta spedita per posta, quindi siamo già in un altro ambito. L’altra questione è la presenza e persistenza fastidiosa della donna che è rimasta incinta e che, nel caso di Sara e Agar, scatena una situazione conflittuale micidiale, per cui Sara a un certo punto caccia via Agar e il figlio. Quindi questo figlio non se lo prende lei, ma rimane della madre, a differenza della maternità surrogata, in cui c’è un contratto di affitto dell’utero e poi un’altra persona si prende il figlio. Nella Genesi invece questo figlio rimane della madre e viene cacciato via insieme a lei. Un famoso commentatore medievale, Nachmanide, nella Spagna del XIII secolo faceva notare che il figlio di Agar che viene cacciato via è Ishmael, cioè Ismaele, il padre della nazione araba e musulmana, e quello che nascerà da Sara è Isacco, che è il padre del popolo ebraico; Nachmanide diceva che noi, come ebrei, stiamo ancora scontando la severità, se non la cattiveria, della matriarca Sara, perché i discendenti di Ismaele ce la fanno pagare. Un discorso molto attuale. Anche la storia di Rachele ha un seguito. Non sappiamo precisamente cosa succede, ma il bambino rimane dentro casa e non è il figlio di Rachele. Quindi, a differenza della maternità surrogata, queste storie bi bliche sono un meccanismo per promuovere la fecondità, ma non per dare e sottrarre un bambino a chi l’ha cresciuto in grembo.
Il punto interessante e paradossale di questo confronto, è che molti sostenitori della maternità surrogata utilizzano il modello biblico per giustificare qualche cosa che ritengono molto progressista. Ma il modello biblico ha un ulteriore problema. Le donne che sono state utilizzate per questa procedura erano delle schiave, quindi è stato fatto un abuso sul corpo delle persone. Il tema della schiavitù nella antica società ebraica è complesso. Nella Bibbia la schiavitù era ammessa, benché con modalità ben differenti dai sistemi antichi di schiavitù. C’erano meccanismi di tutela, e uno di questi era che gli schiavi ci sono per lavorare, ma non sono oggetti sessuali. Nell’antichità, gli schiavi erano giocattoli sessuali, a totale disposizione dei padroni e senza differenze di sesso, mentre secondo la tradizione legislativa ebraica dal punto di vista sessuale erano intoccabili. Nelle due storie bibliche citate, invece, c’è un superamento di questo fatto: probabilmente presupponeva il consenso delle donne, ma perché avere figli dal padrone poi significava un upgrade della loro condizione. Difatti, sia Agar che Bila dalla situazione di schiava passano alla situazione di concubina o di moglie. Il paradosso è oggi che per sostenere una posizione progressista che rompe gli schemi tradizionali si cerca un sostegno su casi di donne ridotte in schiavitù. Anche questo è un esempio interessante per dire quanto sia complessa la discussione bioetica e quanto sia utile e, in alcuni casi, veramente decisiva la riflessione ebraica su certi temi.