Riccardo Di Segni
Oltre la notte: memoria della Shoah e diritti umani: in occasione degli 80 anni di Elie Wiesel (Firenze: Giuntina, 2009), pp 21-31
1Questo testo, privo di note scientifiche, è la trascrizione della conferenza introduttiva alla Giornata di Studi, rivista e corretta dall’Autore.
Prima di tutto, grazie ad Amos per questa sua introduzione e grazie agli organizzatori del convegno che mi hanno dato la possibilità di tornare a Venezia. Mi auguro di poter essere chiaro e pacato come Amos ha detto, vediamo se ci riesco. L’argomento di questa conversazione è quello dei diritti umani, in una sorta di carrellata storica di riflessione sul ruolo dell’ebraismo nella promozione, dei diritti umani. Il problema è molto complesso, si presta a semplificazioni e retoriche da vari punti di vista e bisogna affrontarlo con attenzione. Vorrei, se ci sarà il tempo, dedicare gli ultimi minuti di questa relazione anche alla discussione sulle problematiche dei diritti umani, che non sono soltanto quelle terribili relative ai genocidi, ma dei diritti umani nella quotidianità attuale. Potremmo cominciare con una bella citazione che ci riempie di orgoglio, una citazione da un discorso di Rav Jonathan Sacks, il rabbino capo del Commonwealth. Citerò le sue riflessioni in vari punti di questo discorso. Rav Jonathan Sacks dice che «il linguaggio dei diritti umani è universale, ma parla con un accento ebraico». Per ragionare su questo dovremmo prendere come riferimento un documento fondamentale, la Dichiarazione universale dei diritti umani che è stata proclamata all’ONU nel 1948 e che è il culmine di una storia che si segnala per la sua novità essenziale, in quanto universale, riguardante tutti gli esseri umani e tutti gli Stati della terra. Senza andare nel campo internazionale, per capire qual è il livello di maturità raggiunto nella storia dei diritti umani basterebbe guardare alla Costituzione della Repubblica Italiana, che porta la firma di un ebreo comunista (ma non sovietico): anche quella parla effettivamente con accento ebraico, anche se molti non lo sanno. Quando facciamo questi confronti c’è un problema di metodo perché di solito si prende un testo giuridico fondamentale per la nostra società e si dice: “questo si concilia bene con l’ebraismo”, prendendo come elemento di riferimento portante il testo non ebraico e poi dicendo “io come ebreo lo accetto nella misura in cui…” oppure, alla rovescia, “io lo prendo come criterio di confronto e non accetto l’ebraismo perché non accetta queste cose”. Sono modi un po’ grossolani di dividere la realtà.
Vediamo allora i problemi. Dobbiamo tenere presente che nei vari testi importanti nella storia dell’umanità (e posso riferirmi alla Dichiarazione d’indipendenza americana, alla Dichiarazione dei diritti umani della Rivoluzione Francese), c’è essenzialmente un’elencazione di diritti. Nel confronto con la tradizione ebraica ci sono da mettere in evidenza tre differenze. La prima differenza è che gli elenchi dei diritti non sono uguali, e quello che può essere “diritto” nella legislazione, nella tradizione o nella sto ria ebraica non è necessariamente sovrapponibile agli altri elenchi, anche a quello amplissimo contenuto nella Dichiarazione dei diritti umani, e così per tutte le altre enumerazioni. Il secondo punto – e qua passiamo veramente a una grande differenza – è che nei nostri testi non si parla quasi mai di diritti. Il linguaggio è differente: da noi si parla di doveri. La Torah non dà diritti, la Torah dà leggi, ordini e divieti. Dice “Non uccidere”, e di qui il diritto alla vita. Dice “Non rubare”, e di qui il diritto alla proprietà. Quindi – e un maestro di lingua e cultura ebraica come Amos lo può spiegare benissimo – il termine zechùt che nell’ebraico moderno indica il diritto, è nell’ebraismo biblico quasi inesistente. Ad ogni modo, ovunque compaia ha un’accezione ben differente da quella che il linguaggio moderno gli dà. Quindi, abbiamo a che fare con un sistema giuridico-culturale che impone prepotentemente il tema dei diritti umani, ma mai parlando del diritto quanto piuttosto del dovere dell’uomo e di quello che gli è proibito fare. La terza differenza, non meno essenziale, è che l’intero sistema di valori a protezione dell’uomo e dei suoi diritti deriva non da una convenzione sociale, non da un ragionamento filosofico, ma da una rivelazione. La dignità umana che sta alla base di tutti questi diritti è tale in quanto stabilita dal Creatore. La prima volta che compare il divieto di omicidio nella Bibbia è al capitolo 9 della Genesi dove è detto: שֹׁפֵךְ דַּם הָאָדָם בָּאָדָם דָּמוֹ יִשָּׁפֵךְ “chi versa il sangue dell’uomo, per mano dell’uomo, il suo sangue sarà versato” כִּי בְּצֶלֶם אֱלֹהִים עָשָׂה אֶת הָאָדָם “perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine”. L’uomo è creato a immagine di Dio e in quanto tale deve essere tutelato. L’offesa all’uomo è, quindi, offesa a Dio e tutte le leggi che sono nella Torah discendono da questo principio. Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, invece, non c’è alcun riferimento ad un’origine religiosa di questi princìpi. L’unico riferimento, se vogliamo, è nella Dichia razione d’indipendenza americana, dove si dice “Noi riteniamo che queste verità siano self-evident, autoevidenti, che tutti gli uomini siano stati creati uguali, che siano stati dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili. Tra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Questi sono i tre diritti fondamentali della Dichiarazione d’indipendenza americana, nella quale c’è una base religiosa: il Creatore ha dato questi diritti all’uomo.
Cerchiamo ora di ragionare su quali siano questi diritti fondamentali e in quale modo l’ebraismo li persegua fin dall’inizio. Facendo una rapidissima carrellata sulla Dichiarazione dei diritti umani, ecco una lista: “Gli uomini nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Hanno diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza. Nessuno può essere tenuto in schiavitù. Nessuno può essere sottoposto a tortura o a punizioni crudeli. Ogni individuo ha diritto alla sua personalità giuridica, uguale tutela da parte della legge. Deve essere giudicato da un tribunale imparziale, è presunto innocente fino alla condanna, non può essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella sua vita privata. Ha libertà di movimento, ha diritto di cercare e godere asilo, ha diritto a una cittadinanza, ha diritto di sposarsi e fondare una famiglia. La famiglia è il nucleo fondamentale della società. Ogni individuo ha diritto ad avere una sua proprietà personale, ha diritto alla libertà di pensiero, coscienza, religione, opinione, espressione, riunione e associazione pacifica. Ha diritto al riposo e allo svago, all’istruzione, a un tenore di vita sufficiente”. Tutte queste cose, se andiamo a scavarle una per una, le possiamo riscontrare, non tali e quali, ma comunque fondate nell’esperienza ebraica. L’esperienza ebraica, nuovamente parlando di teologia ebraica, si fonda su due princìpi: uno è stabilito dal Libro di Bereshit, la Genesi l’altro è stabilito dal Libro di Shemot, l’Esodo. Il principio del Libro di Bereshit è: Dio ha creato l’uomo e quindi l’uomo è a sua immagine; come tale, dunque, la violazione dell’uomo è una violazione di Dio. Il secondo principio è: Dio interviene nella storia per liberare gli oppressi, ed è la storia del Libro dell’Esodo. Quindi, è intollerabile lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Questi sono i due diritti fondamentali che nascono dal discorso biblico. Se andiamo nel dettaglio, per esempio al diritto al riposo, l’ebraismo, già nel primo e secondo capitolo di Bereshit, stabilisce il concetto dello Shabbat, per il quale il riposo è un concetto universale che deve essere dato a tutti, compresi gli animali. Quindi si va oltre i diritti umani, perché noi qui parliamo di diritti umani ma esistono anche diritti della natura. Stasera sarà Tu bi-shvat e celebreremo la festa degli alberi: anche loro hanno i loro diritti. Per fare alcuni esempi basilari consideriamo l’idea della creazione nell’interpretazione della legge rabbinica. Nel famoso brano di Sanhedrin (TB 37a) nel quale si tratta di come vadano interrogati i testimoni, è detto che i testimoni vanno anche minacciati sulle loro responsabilità. Va fatto loro capire che cosa possono determinare se danno una falsa testimonianza. Viene loro detto: «La Torah dice che l’umanità discende da Adamo, per quale motivo l’umanità discende da un unico individuo?» E si trae la conclusione: «L’umanità discende da Adamo perché tutti quanti siamo figli di un unico padre. Quindi nessuno può dire “mio padre era più importante del tuo”». Il secondo motivo per cui la Torah racconta che da un solo uomo deriva l’intera umanità, è per insegnare che chi distrugge un solo uomo è come se distruggesse un’intera umanità. Questo è un messaggio di umanesimo fondamentale che poi l’ebraismo ha trasmesso con le stesse parole all’Islam. E qui vediamo, tra l’altro, quanto siano belle le dichiarazioni, ma anche quanto sia problematica la loro applicazione anche in ambienti che si legano a queste fonti con estrema forza. Un’altra citazione fondamentale è quella dal Talmud (TB Sanhedrin 74a) in cui si dice che “la mia vita non vale più della tua. Nessuno ha detto che il mio sangue è più rosso del tuo”. Un altro esempio è nel modo in cui la tradizione giuridica rabbinica ha disciplinato con regole precise la sanzione da applicare a chi procura una lesione a un altro; chi legge la Torah scritta quando dice “occhio per occhio” (Es 21,24, Lv 24,20), rimane con l’impressione brutale della legge del taglione, che poi è quella che fa la gioia di molti antisemiti. La legge del taglione non è una legge di punizione corporale, ma una legge che i maestri interpretano in senso economico, cioè il danno che viene procurato deve essere misurato economicamente e come tale pagato. Questa sanzione economica si distingue in cinque parti differenti, che sono: il danno vero e proprio (se si taglia un dito, se prima si poteva fare un lavoro con quel dito adesso non lo si può più fare), il dolore procurato (tzaàr il dolore), (rippùi le spese mediche), (shèvet l’inattività, quello che viene chiamato nel diritto comune il cessato lucro) e (bòshet la vergogna inflitta dal danno). Soltanto da quest’enumerazione delle cose che una persona deve pagare per compensare un danno procurato si evince che esiste un diritto all’integrità della persona, un diritto a non soffrire, un diritto ad avere le spese mediche pagate, un diritto al lavoro che deve essere retribuito, un diritto alla dignità, che è quello che emerge dalla sanzione sulla vergogna. Tutti questi diritti sono presenti già in questa singola norma particolare. Nella Bibbia abbiamo poi tutta un’altra serie di proiezioni che riguardano i rapporti tra cittadino e potere: è famosa l’invettiva contro il re Achav che ha portato via la vigna a Nabot creando un’ingiustizia. Quindi la dignità del cittadino e i suoi diritti singoli devono essere protetti rispetto all’intervento del potere, o dello strapotere regale. La Bibbia premia anche la disobbedienza civile e il caso classico è quello delle levatrici che si oppongono all’ordine del Faraone (Es 1). Questo concetto di disobbedienza civile è presente anche, in forma tragica, nella cultura greca, quando Sofocle parla di Antigone che si rifiuta di obbedire all’ordine di lasciare insepolto il fratello e viene per questo uccisa. Nella Bibbia, almeno, c’è un po’di speranza: c’è sì disobbedienza civile, ma chi la pratica riceve da Dio la benedizione delle batìm del costruire case. Questi sono alcuni dei tanti esempi possibili su cui si potrebbe andare avanti a lungo a riflettere.
Un’altra riflessione importante è sulle contraddizioni. Una con traddizione fondamentale, ad esempio, è quella che riguarda il te ma della schiavitù. Abbiamo detto che tutta la storia del Libro di Shemot, dell’Esodo, è la storia di Dio che interviene nelle vicende umane per liberare un popolo dall’oppressione di un altro. Eppure vediamo che la stessa Torah regola in qualche modo l’istituto della schiavitù. Come è possibile una cosa del genere? Se consideriamo come la Torah regoli l’istituto della schiavitù, vediamo che la cosa appare di per sé rivoluzionaria rispetto a quello che succedeva a quei tempi. Rivoluzionaria perché esistono due tipi di schiavi possibili, lo schiavo ebreo – uomo o donna – e lo schiavo non ebreo. Per quanto riguarda lo schiavo ebreo, in realtà lo schiavo – ’èved – ֶè un termine da mettere tra virgolette perché questa persona fa servizio soltanto per sette anni e alla fine deve essere lasciato libero e se non vuole essere lasciato libero lo si fa con una cerimonia e gli si spiega “guarda che tu non devi fare una cosa del genere”; comunque nel giubileo esce in libertà e, in ogni caso, il padrone nei suoi confronti ha tutta una serie di doveri. Diversa la situazione dello schiavo non ebreo che non gode degli stessi diritti, ma gode comunque di diritti che, rispetto a quello che è avvenuto fino a centocinquanta anni fa, sono rivoluzionari: se il padrone lo percuote e gli rompe un dente – per punizione o per un atto di rabbia – lo schiavo acquista la libertà. E nel momento in cui acquista la libertà per un dente rotto, l’ex schiavo è considerato un ebreo a tutti gli effetti. Tra l’altro, la schiavitù è stata, nel mondo ebraico, anche un sistema di circolazione e di integrazione etnico biologica importante nel corso dei secoli. Uno schiavo che entrava nell’ebraismo doveva essere circonciso, se lo voleva, quindi diventava un ebreo in potenza, e così via. Da queste regole vediamo che c’è un paradosso: da una parte la Torah programma la libertà e, dall’altra parte, istituisce e regola la schiavitù. La prima risposta a questo pa radosso è che la schiavitù, per come è istituita nella Torah, si pone chiaramente in forma rivoluzionaria rispetto al momento. Se si guar dano le leggi sulla schiavitù nel mondo dell’antica Roma e si fa un confronto, si capisce che le cose sono molto differenti. Non a caso tutte le norme restrittive che riguardano gli ebrei, introdotte dai vari poteri del primo millennio – dall’impero bizantino ad esempio – per prima cosa proibirono agli ebrei di tenere schiavi perché, sostanzialmente, era un modo per farli diventare ebrei in tempi brevi. L’altra risposta a questa domanda in qualche modo si collega a quanto abbiamo letto ieri nella parashah di Beshallach (Es 13,17) che riguarda l’uscita dall’Egitto. Il primo verso della parashah dice che il Signore non fece passare gli ebrei per la strada più corta, quella che passava per la costa, perché sulla costa c’erano i Filistei che avrebbero mosso guerra. La gente, quindi, si sarebbe spaventata e sarebbe tornata in Egitto. Perciò il Signore decide di far fare un altro giro al popolo che esce. La domanda che ci si pone è questa: l’impero egiziano era stato stroncato completamente con tutte le piaghe, la forza del Signore si era rivelata in tutti i modi possibili e immaginabili, aprendo anche l’acqua del mare. Che cosa gli costava, rispetto a questa prospettiva, una piaga anche sulla costa filistea? La risposta a questa domanda è: è facile fare le rivoluzioni, è facile anche distruggere gli imperi ma la rivoluzione che chiede tempo è il cambio della natura umana, per cui trasformare schiavi in persone che sappiano reagire responsabil mente agli eventi richiede molto più tempo. La guerra da quelle parti, quindi, non doveva essere fatta perché non c’era la maturità, non c’era la coscienza, non c’era la formazione. Lo stesso avviene nel caso della schiavitù: non si può cambiare un istituto storico radicato dal giorno alla notte; le rivoluzioni che implicano un cambio completo di personalità richiedono tempo.
Su questo si inserisce una riflessione estremamente interessante di Rav Sachs, quando parla della natura particolare e delle differenze specifiche tra le rivoluzioni che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli. Ne cita tre: la Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa comunista e dice che la differenza tra la prima e le altre due dipende dal fatto che le rivoluzioni russa e francese si basano sulla filosofia, quella francese sul pensiero illuministico – di Rousseau e di altri – quella russa sul pensiero di Karl Marx. Questa filosofia è una filosofia dell’utopia, che cerca di realizzare un mondo nuovo in cinque minuti: ciò è contrario alla natura umana e questo spiega perché queste rivoluzioni siano state segnate da contraddizioni e sangue. Qui davanti era stato piantato l’albero della libertà quando sono arrivati i francesi ma pochi giorni dopo Venezia è stata venduta agli austriaci. È la storia che parla. E non parliamo del Terrore, non parliamo di quanto hanno fatto gli stati nazionali etc. E sappiamo bene cosa significhi l’utopia marxista in tutte le sue contraddizioni. Ben diverso, secondo Sachs, sarebbe il cammino della Rivoluzione americana, che non si è ispirata alla filosofia, ma alla Bibbia. Gli stessi padri del Mayflower come libro fondamentale avevano la Bibbia, la città che volevano costruire si chiamava Nuova Gerusalemme, George Washington parlava di una terra scelta, una terra promessa; Thomas Jefferson e Benjamin Franklin disegnarono il sigillo degli Stati Uniti. Il loro logo non venne accettato, per fortuna… Secondo Benjamin Franklin, la figura disegnata doveva essere quella di Mosè, quella che vediamo nella haggadah, quella del Mar Rosso con gli Egiziani affogati. Quella di Thomas Jefferson era un po’ più gentile: dovevano essere raffigurati gli Ebrei nel deserto condotti dalla colonna di fuoco. L’idea che vuole sostenere Sachs è che quando il diritto umano è sostenuto puramente da una filosofia utopica, che vuole cambiare l’uomo dall’oggi al domani, è destinato non solo a fallire, ma a contraddirsi e a fare molte vittime. Quando, invece, è guidato step by step, tenendo conto della debolezza della natura umana, da un pensiero che si ispira alla nostra fede religiosa, allora le cose cambiano e procedono con ritmi e con passo differenti, e portano effettivamente progresso all’umanità.
Ci sono poi diritti “strani”, e qui entriamo in un altro discorso: ad esempio il diritto alla felicità, di cui parla la Dichiarazione d’indipendenza americana, che non compare in altre dichiarazioni e che è ben difficile da definire. Esistono diritti che compaiono, rimangono e scompaiono. I diritti della Dichiarazione francese parlavano di libertà della persona, diritto alla proprietà, alla sicurezza, alla resistenza all’oppressione, alla sovranità democratica, il principio di legalità. Tutte cose fondamentali rispetto all’Ancien Régime ma erano diritti individuali, non collettivi. Non si parlava, ad esempio, di diritto allo sciopero, all’attività sindacale che invece sono contenuti nella Dichiarazione universale. Il diritto di sciopero è in qualche modo sancito già dal Talmud che afferma che l’operaio se ne può andare quando vuole (TB BM 77) perché, come dice la Torah, “non siete schiavi a me”. Una persona che lavora non è un tuo schiavo, quando decide di lasciare il lavoro se ne può andare. Un’altra contraddizione contenuta nella Dichiarazione francese è il fatto che si parli di “uomini”. Solo un’interpretazione molto misericordiosa potrebbe comprendere in ciò anche le donne… Le contraddizioni sono tante: tutti quelli che firmavano la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti e dicevano che gli uomini sono liberi, avevano gli schiavi. C’è voluta una guerra per porre fine alla schiavitù. Ci sono voluti, dopo la Torah, 34 secoli almeno per abolire la schiavitù, ma la spinta iniziale è stata necessaria. C’è anche da dire che molte persone che sostenevano la schiavitù si basavano su un’interpretazione un po’ “allegra” della Torah. Queste sono contraddizioni.
In questi elenchi di diritti, a seconda dell’evoluzione della sen sibilità, compaiono continuamente diritti nuovi, di cui non si è parlato in precedenza: per esempio, nella legislazione italiana abbiamo adesso – ed è diventata quasi un’ossessione – le leggi a tutela della privacy. Il solo fatto che si usi un termine inglese e non si ricorra a quello italiano “riservatezza” – c’era già il concetto di diritto alla riservatezza nella giurisdizione italiana, anche se non disciplinato con precisione e molto generico – la dice lunga su come certi diritti arrivino da noi solo a ondate che provengono dal mondo anglosassone. Lo sviluppo della nostra coscienza dei diritti va avanti in questo modo… Ma, parlando del diritto alla riservatezza, chiunque prenda un qualsiasi testo ebraico tradizionale, sa che una delle cose più importanti da fare, forse la mizwah più difficile da osservare è quella della shmirat ha-lashon, lo stare attenti a ciò che la lingua dice. Non solo non parlare male delle persone, ma anche non rivelare fatti che le riguardano. C’è poi il Cherem di Rabbenu Gershom che, nell’anno 1000, proibisce di leggere la corrispondenza altrui. Ci sono alcuni pilastri fondamentali segnati dalla tradizione ebraica che anticipano di secoli, se non di millenni, alcuni raggiungimenti attuali. C’è un altro aspetto: l’ONU continua a produrre documenti sui diritti umani, anche l’Europa lo fa, e in questi documenti compaiono nuovi diritti e nuovi orientamenti di cui fino al giorno prima non si era parlato o si era parlato poco, che non facevano parte della coscienza diffusa e universale. Una delle discussioni più delicate è quella della differen za di sesso. Nei testi internazionali inglesi, adesso il termine usato per significare il sesso è gender, “genere”, che però è un termine molto particolare, va interpretato. Per qualcuno gender indica la distinzione tra maschio e femmina, per altri significa l’orientamento sessuale. Il gender, dunque, si moltiplica in tante varietà particolari e sta nascendo, dal punto di vista giuridico, una sensibilità che fino a poco fa non c’era e ciò crea grossi problemi.
Un altro ragionamento che fa Sacks è che i diritti umani stanno diventando, possono diventare – e oggi lo sono effettivamente – una chiave per alimentare l’antisemitismo. In che maniera? Qui nasce il paradosso. La nostra cultura, la nostra tradizione è fondamentale nella trasmissione, nel mantenimento, nella tutela dei diritti umani. Ciò che fa più testo è la nostra storia in cui noi rappresentiamo, nostro malgrado, le vittime della violazione dei diritti umani in tutti i sensi. Ora, invece, l’argomento dei diritti umani viene portato contro di noi perché siamo attaccati in nome della violazione dei diritti umani, siamo accusati di razzismo, apartheid, crimini contro l’umanità, minac cia alla sicurezza internazionale. Oggi questi sono argomenti diffusi, specificamente contro lo Stato d’Israele, ma si sa dove vanno poi a finire. Questi temi oggi acquistano importanza in nome della tutela dei diritti umani. Nuova riflessione di Sacks: quando si vuole scatenare l’odio contro un altro si deve sempre fare riferimento a qualche autorità superiore. Per molti secoli questa autorità superiore è stata la religione che è stata la portatrice delle idee di ostilità antiebraica; negli ultimi due secoli, in cui si è creduto nel progresso inarrestabile e infinito della scienza, è stata la scienza a sostenere e giustificare l’ostilità antiebraica. Non è un caso che, nel 1938, Mussolini, prima di introdurre le leggi razziali, fa pubblicare Il Manifesto della razza e lo fa firmare a pseudoscienziati: voleva dare una giustificazione scientifica perché poi la scienza non si può contestare. Solo che adesso la scienza è contestata perché può anche distruggere l’umanità e non ci si fida troppo della scienza. Allora a cosa ci si rivolge per attaccare gli ebrei? Ai diritti umani. Gli ebrei non sono più vittime ma violatori dei diritti umani.
C’è un ultimo argomento di cui vorrei parlare, molto interessante e molto caldo nella discussione in questi giorni in Italia. Riguarda il fatto che i diritti possono entrare in conflitto tra loro e le concezioni del diritto possono entrare in conflitto. Non basta dire “io proteggo la vita”, bisogna capire quando la vita comincia e quando finisce. Il diritto alla vita può scontrarsi con il diritto all’autonomia, che è un concetto laico fondamentale secondo cui io sono padrone del mio corpo e della mia esistenza e decido di farne ciò che mi pare. È il fondamento dell’etica e della bioetica laica. Questo modo di concepire il diritto all’autonomia può entrare in conflitto con altre concezioni secondo le quali la vita è un bene (non parliamo di dono perché il termine “dono” è impreciso, potrebbe essere un “prestito”), che ci viene dato e che dobbiamo tutelare e garantire. Siamo dunque tutti d’accordo a tutelare i diritti umani ma, nella tutela dei diritti umani, esistono infinite variabili che creano continuamente conflittualità. Se ne è parlato durante le ultime elezioni, quando c’era una proposta di moratoria sull’aborto: è un caso tipico in cui c’è una concezione religiosa che considera la soppressione di un feto come omicidio e c’è poi un’altra concezione che considera il prodotto del concepimento non come essere umano completo e quindi, in questo caso, prevale la volontà della madre, quali che ne siano le motivazioni, e solo la sua volontà. La situazione conflittuale più rilevante è da qualche giorno sulle prime pagine dei giornali e riguarda la possibilità per una persona di decidere cosa fare nel momento in cui non può più decidere come disporre della propria vita. Su questo tema, la discussione investe tutti: l’ebraismo se ne sta occupando in maniera attiva. È interessante il fatto che le risposte date dall’ebraismo a questi problemi non sono mai univoche ma costituiscono un range, un ventaglio di opinioni possibili. Nel caso, per esempio, in cui ci sia una persona in piena coscienza che decide di non voler essere più alimentata noi abbiamo il dovere di solidarietà, dobbiamo tutelare la vita. Che cosa fare, allora? Possiamo costringerla? Dobbiamo costringerla? Dobbiamo ignorarla? C’è la regola del Levitico (19:16) לֹא תַעֲמֹד עַל דַּם רֵעֶךָ “non rimanere impassibile di fronte al sangue del tuo prossimo”. In applicazione a questo obbligo di solidarietà e divieto di indifferenza noi possiamo costringere a mangiare una persona che dice “voglio farla finita e non voglio mangiare?”. La risposta che dà la halakah, vedendo i maggiori decisori della nostra generazione è: secondo Rav Feinstein e Rav Goren, si cerca di convincerla ma non la si può costringere, secondo Shlomo Zalman Auerbach, invece, la si costringe contro la sua volontà. Abbiamo, quindi, un ventaglio di opinioni. Non vorrei entrare nel caso specifico di cui si parla oggi ma, in generale, l’orientamento è che si può rinunciare a tutto ciò che è considerato eccezionale, se la persona non lo vuole, perché esiste il concetto di tzà’ar di protezione dalla sofferenza. Per noi le sofferenze sono molto importanti; con le sofferenze acquistiamo meriti però i maestri dicono לֹא הֵם וְלֹא שְׂכָרָם “non voglio né le sofferenze né il guadagno che da queste può derivare”. Quindi, la persona non è tenuta a soffrire, non è obbligata a soffrire. Se la persona non vuole soffrire, ha il diritto di limitare questa sua sofferenza e questo è molto importante. Una persona che soffre e vuole evitare l’intervento di strumentazione pesante, come un respiratore, ha il diritto di dire che non lo vuole. Il problema è che c’è anche un operatore che deve staccare la macchina; non c’è quindi solo la persona che dice “io non voglio”, c’è anche chi questa cosa la deve fare e si deve rispettare anche la sua volontà e questo è un principio bioetico condiviso. In questo caso, che cosa si fa? Anche in questo caso ci sono opinioni differenti: ci sono quelli che dicono che la macchina non può essere mai staccata, quelli che dicono che, in tempi precisi, può essere staccata e quelli che sostengono che possa essere staccata direttamente. Invece – almeno stando a quanto ho letto finora, e non so se ci siano opinioni differenti – per quanto riguarda alimentazione e liquidi, questi non sono considerati interventi eccezionali ma essenziali e quindi non dovrebbero essere tolti. Questo per dire che sul tema dei diritti esiste non soltanto la grande storia ma anche la problematica quotidiana: parlare di diritti umani non basta, bisogna vedere anche come si entra in questi diritti, come si affronta il problema dei nuovi diritti e come si rispetta il diritto degli altri a pensare in maniera diversa dalla nostra. E questa è una delle cose più complicate nella struttura sociale di questi ultimi tempi. Grazie per l’attenzione.