I diari di rav David Prato, Rabbino capo a Roma a metà Novecento
Rav Chaim Vittorio Della Rocca z.l., che ci ha lasciati meno di due anni fa, ricordava spesso l’importanza che per lui ebbe Rav David Prato (1882-1951), rabbino capo di Roma nel 1937-38 e di nuovo dal 1945 fino al ’51. Fu Rav Prato che, dopo la guerra, convinse il giovane Chaim a dedicarsi agli studi rabbinici e a intraprendere una carriera come chazan del Tempio Grande di Roma e come Morè.
Rav Prato stesso era stato un grande chazan, primo cantore della Sinagoga di Firenze, e insegnante. Dalla natia Livorno, dopo aver conseguito il titolo di Maskil al Collegio rabbinico diretto da Rav Benamozegh, era andato a studiare a Firenze presso il Collegio rabbinico italiano diretto da Rav Margulies. Divenuto direttore della Scuola ebraica di Firenze e conseguita la laurea rabbinica nel 1926, fu rabbino capo di Alessandria d’Egitto dal 1927 al ’36, una città dove viveva una folta comunità ebraica italiana. Proprio da Alessandria Rav Prato spiccò il volo verso una carriera che l’avrebbe portato a essere rabbino capo di Roma in due riprese, direttore del Collegio rabbinico italiano e candidato a rabbino capo di Tel Aviv.
Della vita di Rav Prato, della sua attività rabbinica, dei suoi viaggi, delle missioni (fra cui diverse in Vaticano) e delle centinaia di persone che incontrò e con cui interagì, abbiamo ora una documentazione eccezionale, pubblicata da Viella con il titolo “Memorie di un rabbino italiano. Le agende di David Prato (1922-1943)”, per la cura di Angelo M. Piattelli e Mario Toscano, fra i massimi esperti della vita dei rabbini italiani degli ultimi 150 anni, il primo, e della storia dell’ebraismo italiano del Novecento il secondo. Il volume include una presentazione scritta dall’attuale rabbino capo di Roma Rav Riccardo Di Segni, e una postfazione di Simonetta Della Seta, che per prima intravide l’importanza storica delle agende di Rav Prato.
La scoperta delle agende è descritta da A. Piattelli in una delle due introduzioni, dove racconta che essendosi ritrovato ad abitare a Gerusalemme vicino alla casa di Jeonathan, figlio di Rav Prato, iniziò a intrattenere con lui e poi con suo figlio David colloqui sempre più frequenti. Seppur con qualche remora, Jeonathan a un certo punto rivelò l’esistenza delle agende, depositate presso l’Archivio centrale della Storia del popolo ebraico a Gerusalemme. Le agende coprono il periodo 1922-’43 e quindi sono in buona parte dedicate al periodo alessandrino e a quello vissuto in Eretz Israel. Consistono, all’inizio, di brevi appunti, promemoria, resoconti di riunioni, ma poi via via si estendono e diventano vere e proprie riflessioni e relazioni sugli incontri che il Rabbino ebbe, le attività che svolse, gli eventi a cui assistette e molto altro. Rav Prato valutò la possibilità che quelle sue agende diventassero la base per un’autobiografia, decisione su cui però ritornò sul finire della vita. La tragedia che colpì la sua stessa famiglia, insieme a tutta la Comunità ebraica, evidentemente lo disamorò dal mettere per iscritto ciò che doveva rimanere nel proprio animo. Non parlò più di pubblicare il contenuto delle agende e anzi, lasciò detto a suo figlio di distruggerle. Jeonathan così fece riguardo ai documenti e al materiale di carattere privato e riservato, ma mantenne il resto, conscio della sua importanza storica.
Il risultato è un volume di circa 500 pagine ora finalmente pubblicato. Tredici pagine di un indice di nomi con più di mille voci danno un’idea del tesoro storico qui presente. Ecco alcuni personaggi di cui si parla, a mo’ di esempio: i rabbini Kook (“ammirevole”, p. 165), Herzog, Uziel, Nahum, E. e M. Artom, Cassuto, Castelbolognesi, Disegni, D. e A. Lattes, Ottolenghi, A. e R. Pacifici, Sacerdoti, A.S. Toaff e altri; Bialik (“geniale straordinario”); dirigenti comunitari, italiani e non; leader sionisti, come Weizmann (delle cui visite in Italia Rav Prato fu tra gli organizzatori), Sokolov e Sereni; i re d’Italia e d’Egitto; papi e cardinali; capi di governo e politici, e così via.
Al rabbino Sacerdoti, predecessore di Rav Prato sulla cattedra romana, e alle complesse vicende che portarono alla successione, sono dedicate ben 20 pagine stampate (pp. 332-353). Raccontando della visita a Roma nel giugno 1935, preliminare alla nomina, Rav Prato, dopo essersi recato al cimitero per rendere omaggio alla tomba di Rav Sacerdoti insieme alla vedova, ne trae “una penosissima impressione: una piccola Staglieno di monumenti, fotografie, busti paganeggianti… un disastro”. (Dopo quasi 90 anni, la situazione non è cambiata, almeno per quanto riguarda le fotografie). Sul Tempio maggiore scrive che “solo la sera è affollato perché è trasformato in un aggregato al cimitero… una lunghissima interminabile serie di ascabot costringe a un torah zibur [disturbo per il pubblico] insopportabile”, oltre a “intrighi dovunque fra i grandi e piccoli rabbini” (p. 346).
Il primo mandato a Roma di Rav Prato come rabbino capo durò solo un paio d’anni, 1937-38. Benché egli fosse molto amato dal popolo ebraico romano, che accorreva in massa ad ascoltare i suoi sermoni, nel dicembre del 1938 fu costretto a rinunciare all’incarico a causa dei contrasti con i dirigenti della Comunità ebraica romana, che non si volevano inimicare il governo fascista per via degli orientamenti politici del rabbino capo.
Rav Prato, per evitare la minaccia di confino, si trasferì in fretta e furia in Israele. Assunse presto un ruolo di primaria importanza nel rabbinato di Tel Aviv, fino a diventare uno dei tre candidati per il posto di rabbino capo sefardita di questa città (fu poi nominato Rav Toledano, che era stato vice di Rav Prato ad Alessandria).
Nel 1945, dopo la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, Rav Prato fu richiamato a Roma sia dalla base che dalla dirigenza per fare risorgere la comunità dallo sconquasso provocato dalle persecuzioni, dalla guerra e dalle deportazioni. La vita famigliare del Rabbino stesso fu funestata dalle tragedie. Perse la figlia Anna-Olga a causa del tifo, all’età di 17 anni. L’altra figlia, Laura Ester, fu deportata nel gennaio 1944 e uccisa ad Auschwitz, insieme al marito (ma le loro figliolette si salvarono).
La moglie di Rav Prato, Corinna Servi, di origine pitiglianese, morì nel giugno 1948. Dopo pochi mesi Rav Prato, che aveva ormai 66 anni, manifestò l’intenzione di risposarsi e nel 1949 si unì in matrimonio con Jole Marino. A chi si stupì della fretta con cui decise di risposarsi, il Rabbino replicò: “Vorrei qualcuno che quando nel Kiddush dico Savrì Maranàn mi risponda Lechaìm”.
Dopo la decisione dell’Onu del 29 novembre 1947 che sancì la spartizione della Palestina in uno Stato ebraico e uno arabo, Rav Prato celebrò l’evento con una solenne cerimonia davanti all’Arco di Tito, nella quale fu annullato il divieto autoimpostosi dagli ebrei romani di passarci sotto. Questa volta gli ebrei ci passarono, ma in senso opposto a quello con cui arrivarono gli schiavi ebrei dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70. Nel 1947, con Rav Prato in testa, i partecipanti passarono sotto l’arco non verso Roma ma verso Gerusalemme.
Rav Prato morì nel marzo del 1951 e fu sepolto al cimitero ebraico di Firenze, in una tomba sobria, al limite dell’essenzialità, accanto a quelle, uguali, della prima moglie e della figlia Anna-Olga. Solo i nomi sono incisi sulle lapidi, insieme alle date di nascita e morte. Niente altro, eccetto i sassi, segno che le tombe sono ancora visitate. Su quella del Rabbino è scritto: “Rabbi David Prato, 8.1.1882 – 7.3.1951”. (“Rabbì” è l’appellativo diffuso nel mondo sefardita, con cui egli veniva spesso chiamato). “Lechaìm, Rabbì Davìd!”
Da chazan d’eccezione e fervente sionista qual era, Rav Prato ci ha lasciato una indimenticabile Hatikwà da lui cantata. Da brividi, provare per credere. Clicca qui: http://www.archivio-torah.it/audio/tefillot/pratoHatikva.mp3