Il quesito halachico di un lettore e la risposta di Rav Gianfranco Di Segni
Sono un ebreo osservante che cerca nei limiti del possibile di attuare le mitzwoth in quest’Italia dove non sempre c’è comprensione per i problemi di questo tipo. La legge sull’Intesa è stata un passo importante da parte dello Stato Italiano, ma a questo punto mi chiedo se da parte dell’ebraismo mondiale non sia ora di fare una piccola grande riforma: in tempi di internet e di mezzi di comunicazione sempre più sofisticati ha ancora senso il secondo giorno di festa ebraica? Non si può proprio dire come poteva succedere ai tempi dei nostri antenati che non si sa esattamente la data in cui le feste cadono. Nei libri di tefillah sono spesso riportate le feste da qui all’anno 2040 e quindi nulla è più facile da sapere. Nella vita civile sarebbe un grande passo avanti perché da 13 giorni i giorni di festa si ridurrebbero a 7, con meno problemi col proprio datore di lavoro. In una società dove per avere delle soddisfazioni nel campo lavorativo bisogna dare una grande disponibilità di tempo, è giusto che io pregiudichi qualche avanzamento per il fatto che devo prendere questi giorni di festa? In teoria non dovrebbe essere così, ma in pratica succede spesso. Temo che oggigiorno l’ebraismo mondiale non riesca più ad esprimere figure leaders in grado di assumersi delle vere responsabilità e lo status quo pare soddisfare tutti. Anche in passato si sono attuate delle riforme, perché non parlarne? mi è stato detto anche che questo ulteriore giorno serve a distinguerci da Israele e a ricordarci che siamo in golà, ma vi pare che ad una persona dotata di una intelligenza normale ciò possa sfuggire? Le spiegazioni per questo mantenimento dello status quo mi appaiono ogni giorno più deboli. Credo ci sia materia per un dibattito franco e leale a cui potrebbe partecipare anche qualche rabbino che mi potrebbe spiegare perché si continua a fare in questo modo.
Con i miei più distinti saluti, Aldo Viterbo
Il problema sollevato dal lettore non è nuovo ed è stato oggetto di discussioni già nei secoli passati. In Italia si pose in particolare a metà dell”800, quando alcuni commercianti di Mantova chiesero con insistenza (e con arroganza) ai rabbini della comunità di abolire l’osservanza del secondo giorno di festa, motivando la richiesta con il grave danno economico subito e con la non più rilevanza, a detta loro, della norma. I rabbini di Mantova rimisero la questione ai più importanti Maestri della terra d’Israele e d’Europa, che all’unanimità risposero contro l’abolizione della secondo giorno festivo. Particolarmente argomentata fu la risposta di Rabbi Moshè Israel Hazan di Gerusalemme (1808-1863), che fra l’altro fu rabbino capo a Roma negli anni 1847-1854 e da qui intervenne sulla questione. Tutto questo argomento (non solo limitato all’Italia) è discusso, con dovizia di particolari e con la citazione della corrispondenza dell’epoca, dallo storico Meir Benayahu ( Yom tov shenì shel galuyòt , Gerusalemme 1987).
Alla base della domanda di Viterbo c’è un fraintendimento di fondo. E’ vero che all’origine dell’aggiunta di un giorno di festa nella Golà (diaspora) rispetto a quanto osservato nella terra d’Israele (e comandato dalla Torà) vi è il dubbio su quando cada esattamente il Rosh Chodesh (capo-mese, corrispondente al novilunio) e di conseguenza su quando capitino le feste; è anche vero che in passato venivano inviati messaggeri dal Tribunale di Gerusalemme perché comunicassero in tutti i luoghi della Golà la data esatta del novilunio e delle feste, e che nei posti lontani dalla terra d’Israele – non potendo i messaggeri arrivare in tempo a causa della difficoltà dei viaggi dell’epoca – si osservavano due giorni di festa solenne invece che uno (il dubbio non eccede due giorni, dato che il mese ebraico può durare 29 o 30 giorni, ma non di più né di meno). D’altra parte, però, già all’epoca del Talmud il lunario era stato fissato con estrema precisione, e il Rosh Chodesh non veniva più stabilito in base alla testimonianza oculare del novilunio, bensì in base a dettagliati calcoli astronomici e ad altre considerazioni (ad esempio, le date delle feste vengono fissate in modo tale che Kippur non cada mai né di venerdì né di domenica, per evitare che ci siano due giorni consecutivi in cui sia vietato cucinare). Il modo di fissare il lunario fu stabilito da Hillel II, nel quarto secolo dell’e.v., e benché i calcoli non siano alla portata di tutti, sono riportati nei più importanti codici legali e con un po’ di pratica sono facilmente eseguibili da chi abbia accesso a tali testi. (Chi è interessato può trovare altre notizie nel trattato della Mishnà Rosh ha-Shanà , recentemente pubblicato in italiano a cura di Gabriele Di Segni, in particolare nell’Introduzione).
Da tempo non c’è quindi più nessun dubbio sulla data del capo-mese e delle feste. Stando così le cose, perché allora nella Golà si osservano ancora due giorni di festa? E’ il Talmud stesso che pone questa domanda (in Betzà 4b), con tali parole: “Ora che sappiamo come fissare il lunario, per quale motivo festeggiamo due giorni?”. E si risponde: “Perché così hanno mandato a dire da là (dalla terra d’Israele): State bene attenti a mantenere per voi l’uso dei vostri padri”. E perché è bene mantenere le vecchie usanze, del tempo in cui il lunario non era stato fissato e ci si regolava in base alle testimonianze che giungevano da Gerusalemme? Risponde il Talmud: “Può ancora capitare che a causa delle persecuzioni [si dimentichi come fissare il lunario e] si giunga a commettere errori [nella determinazione delle feste]”.
Quindi, secondo il Talmud, il motivo per cui nella Golà si aggiunge un giorno non è per un dubbio che abbiamo oggi nella determinazione delle feste, ma per la possibilità che tale dubbio possa esserci, in certi tempi o in certi luoghi. Che la Torà venga dimenticata può sembrare una possibilità remota, ma l’esperienza storica del nostro popolo dimostra che purtroppo ciò è possibile ed è successo. Ad esempio, nell’Unione Sovietica del secolo appena concluso, il livello di osservanza e di conoscenze era sceso ai minimi termini e i contatti con l’ebraismo mondiale, in certi anni, erano estremamente difficoltosi. Anche introdurre Tefillot con le date delle feste poteva risultare impossibile. Non c’è da stupirsi se in quei luoghi, a volte, si potesse non sapere esattamente quando capitavano le feste (del resto, anche a Roma, qualche anno fa, sul lunario della Comunità il giorno di Rosh ha-Shanà era indicato con una data sbagliata!). Il doppio giorno festivo può preservare da errori. Come ha detto, quasi profeticamente, il Chafetz Chaim (Rabbi Israel Meir Kohen Kagan, Polonia 1839-1933) nella Mishnà Berurà (importante commento allo Shulchan Arukh , 496:1): “Nonostante oggi siamo esperti nella determinazione del lunario in base ai calcoli che possediamo, pur tuttavia i Saggi temettero che forse, a causa delle tante disgrazie e peregrinazioni della diaspora, tali calcoli potessero essere dimenticati e si giungesse a considerare di 30 giorni il mese che ne ha 29 e viceversa, fino al punto di mangiare chametz durante Pesach; per questo (i Saggi) mantennero la norma, fuori della terra d’Israele, come era in passato”.
L’aggiunta di un giorno è una taqqanàt chakhamìm , un decreto dei Saggi del Talmud, come dice espressamente il Maimonide nel Mishnè Torà (“Regole per la santificazione del mese”, cap. 5: 5). In quanto tale, non è possibile modificare tale decreto in base alla decisione di un singolo rabbino, o anche di alcuni singoli rabbini, per quanto autorevoli siano. Una regola fondamentale del diritto ebraico (come anche – lehavdil – di altri sistemi giuridici) è che una norma fissata da un certo consesso di giudici/legislatori sia abrogabile o modificabile solo da un consesso di importanza maggiore. Solo un Sinedrio, quindi, come quello che istituì tale norma potrebbe metterla in discussione. Scrive Rav M.E. Artom z.l. nell’Introduzione al III volume del ” Machazor delle Feste secondo il rito italiano”, finalmente ora in commercio: “Il Sinedrio è la sola autorità che, secondo la tradizione, possa stabilire quali siano di fatto i giorni festivi. Il Sinedrio che stabilì il lunario fisso decise pure che (…) nella Diaspora si aggiunga un giorno a quelli stabiliti dalla Torà in ricordo di ciò che succedeva o poteva succedere quando non c’era il lunario fisso. Per questo motivo, il dovere di celebrare i giorni aggiunti è assoluto, e non potrebbe essere abrogato, anche in condizioni mutate, se non dopo che si fosse riistituito il Sinedrio e questo ritenesse opportuno mutare la normativa stabilita con la fissazione del Lunario”.
Oltre alle suddette motivazioni per l’aggiunta di un secondo giorno festivo, ossia l’eventualità che ancora si possa, a volte, incorrere in errori e il motivo di carattere legale, ci sono però altre considerazioni che potrebbero indurre i Maestri contemporanei a non modificare l’attuale norma. Viterbo cita, giustamente, l’idea che si voglia, con l’ulteriore giorno festivo, distinguere la Golà dalla terra d’Israele: il senso di ciò non è però per “ricordare” questa differenza (che è di per sé ovvia), ma per sottolinearne la portata. Per quanto molti pensatori religiosi ebrei considerino la Golà non necessariamente secondo un’ottica negativa (la diffusione della Torà in tutti gli angoli della terra è senz’altro un fatto positivo), ciò nonostante la terra d’Israele mantiene, secondo tutte le opinioni, una centralità rispetto alla diaspora che non è in discussione. Ciò è evidenziato da numerose norme della Torà e del Talmud. Per quanto riguarda l’argomento di cui discutiamo qui, lo “stare nella Golà” è una condizione che ci si porta appresso, e lo stesso vale per colui che “sta nella terra d’Israele”. Tanto è vero che – senza entrare qui nei dettagli – l’israeliano che viene temporaneamente nella Golà continua (ma soltanto quando sta in privato) a festeggiare un solo giorno di festa, e il contrario per colui che vive nella Golà e va in Israele temporaneamente. Non è quindi solo una questione geografica, ma esistenziale. Dicono i mistici della Qabbalà e i maestri chassidici che nella Golà è necessario festeggiare un giorno in più per arrivare allo stesso livello di elevazione spirituale procurato dalla festa al quale giungono coloro che vivono (ma non solo fisicamente) nella terra d’Israele. La qedushà (santità) della terra d’Israele è maggiore che al di fuori di essa, e questo spiega perché in Eretz Israel sia sufficiente un solo giorno di festa.
C’è un’altra spiegazione sui vantaggi del doppio giorno festivo. Se ci fosse un solo giorno festivo, a causa della sfericità della Terra e dello sfasamento dei fusi orari, due comunità ebraiche che vivano agli antipodi l’una dell’altra non festeggerebbero insieme la festa se non per una parte del tempo. Con l’aggiunta di un giorno, invece, si realizza una condizione per cui c’è un intero giorno in comune fra le due comunità (vedi il Chatàm Sofèr su Betzà , II ed., di Rabbi Moshè Sofer, Slovacchia 1762-1839, cit. in A. Steinzaltz, commento a Betzà 4b; chi è interessato a questi argomenti, può provare a pensare a cosa succederebbe se due comunità si trovassero – in via del tutto ipotetica – nelle immediate vicinanze della linea del cambiamento di data, una al di qua e l’altra al di là). I Chakhamim del Talmud, dunque, avrebbero previsto che nel corso dei secoli gli ebrei si sarebbero diffusi in tutta la Terra: l’aggiunta di un secondo giorno festivo avrebbe permesso così di unificare il popolo ebraico, se non nello spazio, almeno nel tempo.
Vorrei concludere con un accenno alla compatibilità fra il “fare carriera” e l’osservanza delle mitzwot. E’ giusto – chiede Viterbo – pregiudicare qualche avanzamento con il dover prendere così tanti giorni di festa? Domando io: e se per fare carriera si dovesse trasgredire lo Shabbat, magari solo ogni tanto, magari solo riguardo a “norme rabbiniche”? E se a volte fosse necessario partecipare a qualche pranzo di lavoro dove non si mangia kasher? Dove mettiamo i limiti e con che criterio? Noi non abbiamo qualcuno che ci dia la “dispensa”! Si tratta di operare delle scelte: è più importante la Torà o la carriera? Ciò non significa che il lavoro non sia fondamentale: la Torà stessa e il Talmud ripetutamente sottolineano l’importanza del lavoro. Fra le tante occupazioni possibili, però, l’ebreo deve scegliere un lavoro che gli permetta l’osservanza delle mitzwot; e così deve cercare di andare a vivere in una città dove ci sia una scuola ebraica, una sinagoga con minyan , un miqwè , una macelleria kasher ecc. Una vita ebraica legata alla Torà e alle mitzwot deve avere la precedenza su tutte le altre considerazioni, pur importanti che siano.
(Ringrazio Rav Riccardo Di Segni per una lettura critica di questa teshuvà e per avermi fornito preziosi consigli e indicazioni bibliografiche)
(originalmente pubblicato su Shalom)