Discorso di insediamento – 24 febbraio 2002
L’ insediamento di un nuovo rabbino è tradizionalmente l’occasione per una sorta di discorso programmatico che inevitabilmente risente della situazione contingente. In questi giorni ho riletto con emozione il discorso di Rav Prato, del 1936, condizionato dal difficile equilibrio con il potere che l’avrebbe esiliato dopo due anni, e quello di Rav Toaff del 1951, pieno di speranze ma insieme carico del ricordo recentissimo della tragedia. Ed è un privilegio incredibile avere qui con noi il protagonista degli ultimi cinquanta anni della vita di questa comunità.
Proprio dalla situazione contingente vorrei partire con qualche riflessione. Questo nostro incontro avviene in un momento storico molto difficile per il mondo occidentale e per il Vicino Oriente. Il mondo occidentale ha provato dopo l’11 settembre un senso finora sconosciuto di insicurezza. L’orizzonte è agitato da minacce di guerra, terrorismo, estremismo di ogni tipo. Dal Vicino Oriente, dalla terra d’Israele, arrivano ogni giorno notizie tragiche e allarmanti. La comunità ebraica italiana e quella romana in particolare partecipano con grande emozione a questi avvenimenti. E’ il momento di chiederci se debba o possa esistere una nostra risposta, se abbiamo qualcosa da dire e da proporre a noi stessi e agli altri. E allora è importante prima di tutto spiegare all’esterno che il senso di insicurezza che ora è di tutti, per noi non è una novità. Nel quartiere che solo nel 1870 è stato liberato dall’oppressione del Ghetto, che ha visto la sua gente precipitare nella miseria e nell’umiliazione per le leggi razziali fasciste, nel quartiere e nella città da dove i nazisti hanno portato via duemila innocenti, nella Sinagoga che è stata prima saccheggiata dai nazisti e poi macchiata con il sangue delle vittime del terrore, la sicurezza non è di casa. Almeno la sicurezza fisica, il senso della normalità della vita. Il peso della storia lontana e vicina guida il nostro giudizio, con un’esperienza sofferta. Ieri abbiamo celebrato lo Shabbat Zakhor, il nostro sabato della memoria, il giorno che i Maestri dedicarono alla memoria della persecuzione, mettendo come simbolo l’antichissima storia biblica di Amaleq. E domani sera festeggeremo Purim, la festa che ricorda la salvezza da uno sterminio di Stato, approvato per legge e poi sventato.
Con dei ricordi così vivi è chiaro che ne risenta la nostra valutazione del mondo. Grazie ai momenti della preghiera, alla celebrazione delle feste principali, a tutta una serie di stimoli culturali, messi insieme alle ferite della storia recente, siamo costretti a pensare in modo differente.
Il pensiero religioso ebraico, dalle pagine dello Shemà che leggiamo tutti i giorni agli scritti di autori contemporanei, propone un’interpretazione molto forte dei fatti. Un’interpretazione che sfida le coscienze laiche e che è difficile da condividere anche in una visione religiosa della realtà. Senza togliere nulla alla responsabilità di chi agisce male, il pensiero religioso chiede di interpretare gli avvenimenti negativi come dei richiami, dei campanelli di allarme. Segnali che devono fare breccia nei cuori e indurre a rivedere il proprio comportamento. Il mondo reagisce con l’allarme per la sua sicurezza fisica, con la preoccupazione per la perdita del proprio standard di vita, con il desiderio di vendetta e repressione. La risposta che la tradizione ebraica propone è il richiamo alle proprie responsabilità, che sono individuali e collettive, l’obbligo a purificare prima di tutto sé stessi, l’obbligo di costruire una società migliore. Non basta cambiare il modo di pensare. Bisogna cambiare il modo di agire.
Questo è il messaggio che diamo a tutti e a noi per primi. Ma come ebrei dobbiamo sapere che per noi questo ancora non basta. La tradizione non offre soltanto delle informazioni per costruire un’identità speciale o per suggerire interpretazioni, per farci sentire bravi e speciali perché certe cose le abbiamo provate o capite qualche anno prima degli altri. La tradizione è ciò che deve trasformare la nostra esistenza. La Torà non è un libro qualsiasi. E’ la manifestazione del sacro in questo mondo, la presenza di D-o nella storia. Non deve essere uno strumento di compiacimento, ma è una richiesta forte. Ognuno ha il dovere e la responsabilità di partecipare coerentemente e con il meglio delle sue forze alla realizzazione del progetto della Torà che è quello di portare il sacro nel mondo, dare un senso diverso alla vita. Non solo essere costretti a pensare in modo diverso, ma soprattutto il dovere di agire, di seguire una strada speciale, di mettere in pratica le norme prescritte. Di studiare sempre per cercare di capire, per crescere. La nostra vita non ha senso senza l’osservanza delle regole che hanno un’origine sacra e consacrano ogni nostro momento. Non si può essere pienamente ebrei se ci si limita a guardare il sistema da fuori pensando che ci riguardi solo marginalmente. Il sistema va messo dentro di noi, va vissuto intensamente, va capito per quanto ci è possibile. Questa comunità è sopravvissuta alle sfide peggiori soprattutto grazie a un forte senso emozionale di identità. Ma oggi le emozioni sembrano venir meno, perché anche il tempo fa la sua parte, e le emozioni devono essere sostenute da un impegno. E allora è il momento di fare. Bisogna studiare, partecipare alla vita sinagogale, trasformare ambienti freddi e cerimoniali in luoghi caldi di confronto. La Comunità Ebraica di Roma ha fatto in questi ultimi anni passi da gigante. E’ cresciuto il numero di Sinagoghe, il numero dei punti vendita di prodotti alimentari kasher, il numero di frequentatori di gruppi di studio. Eppure se guardiamo ai numeri e ai fatti c’è ancora moltissimo da fare. I livelli di osservanza del Sabato e della purezza familiare sono ancora bassi. L’armonia familiare è in crisi, il rispetto tra i coniugi è a rischio, si aprono in continuazione nuove pratiche di divorzio e spesso neppure si risolvono. Le nostre scuole, che rappresentano lo strumento più importante di educazione e di investimento sul futuro, sono frequentate, nella fascia elementare, da circa la metà della popolazione potenziale. Crescono senza alcun controllo le coppie miste, senza coscienza dei rischi della trasmissione futura e con scarsissimo impegno nell’educazione delle nuove generazioni.
Forse tutto questo non è una novità, ma una costante. Uno dei più famosi rabbini che Roma abbia avuto, Ovadià Sforno, ha lasciato questa impressionante testimonianza 500 anni fa:
I figli del nostro popolo, per l’affanno, per il lavoro e le preoccupazioni rivolgono il loro sguardo e il loro pensiero al guadagno come rifugio e protezione senza lasciare alcuno spazio adatto per contemplare le meraviglie della nostra Torà, e si chiedono che cosa possa dare di più la nostra Torà in termini di soddisfazioni materiali e di speranze.
Ogni generazione, in questa comunità come in ogni altra, ha avuto la sua vasta fascia di tiepidi aderenti o forti critici, ogni generazione con i suoi problemi differenti. Ma se siamo qua ora è perchè discendiamo da chi ha aderito al modello di fedeltà.
E’ noto che nella Torà esistono due versioni dei cosiddetti dieci comandamenti. Il quarto è quello del Sabato. In una versione inizia con la parola zakhor , “ricorda”: ricorda il giorno del Sabato per santificarlo. Nell’altra versione la parola d’inizio è shamor, osserva. La tradizione dice che entrambe le parole furono pronunciate insieme. Come a dire che memoria e osservanza devono andare insieme, che non c’è memoria senza impegno e non c’è impegno senza memoria. Il modello che dobbiamo avere in mente è quello della coerenza, dell’impegno, dell’osservanza forte. E’ finito il tempo in cui la religione e l’osservanza veniva delegata dalla comunità a un gruppetto quasi emarginato e folkloristico. Basta vedere come è stata concepita cento anni l’architettura di questa Sinagoga, con una tribuna sollevata e distaccata dal pubblico, certo per dare solennità al luogo, ma anche allo scopo di separare dagli altri una sorta di clero. E’ finita l’epoca delle deleghe al clero, vestito tutto di nero o di bianco, secondo le circostanze, l’epoca della separazione in cui i normali o gli illuminati eccellono nella vita commerciale e intellettuale, e i rabbini sono la manovalanza del culto; in cui la pratica dell’ebraismo sembra essere un curioso residuo di un passato di cui sfugge il senso. Tutta la comunità ebraica ha gli stessi diritti e doveri, i rabbini si devono distinguere soprattutto come Maestri, nessuno deve sfuggire alle proprie responsabilità e soprattutto va riscoperto il senso, la bellezza, la profondità dell’osservanza. E il ruolo primario del rabbino dalla cattedra di questa scola, come di ogni altro rabbino da ogni altra sede di attività e di insegnamento è quello di guidare, aiutare e promuovere questa riscoperta.
Come accennavo all’inizio, la situazione politica in terra d’Israele è per tutti noi motivo di grande preoccupazione. Sui motivi di questa crisi e sulle sue possibili soluzioni la discussione è viva anche in questa comunità ed è normale che lo sia perché la dialettica e le divergenze nella nostra cultura sono una ricchezza e non un difetto. Ma una cosa deve essere chiara: che non siamo in alcun modo disposti a rinunciare comunque al sostegno allo Stato, al suo diritto all’esistenza, al suo diritto alla difesa contro ogni attacco, che non è solo quello militare o terroristico, ma anche quello della disinformazione, della calunnia, della delegittimazione: atteggiamenti che in fondo rivelano un’ostilità pregiudiziale contro il diritto di ogni ebreo di esistere. E’ forse inutile richiamare la comunità intorno a questi principi, ma è bene che si sappia che su questi temi la nostra comunità è forte, unita e non disposta a compromessi.
Le glorie del passato di questa comunità vengono in qualche modo esposte in questa cerimonia. I tessuti ricamati, gli argenti, le musiche sono il segno di un gusto, di un’attenzione, di una dedizione del tutto speciale nel modo di essere ebrei ed ebrei romani. Dobbiamo essere orgogliosi di queste particolarità, che proseguono, sul piano artistico, le grandi tradizioni di cultura talmudica per cui Roma era famosa e celebrata nel medioevo. Il giusto compiacimento per questa storia non deve portare però all’isolamento. Troppo a lungo, forse anche per un nefasto influsso della chiusura di tutta la cultura italiana, il compiacimento per le glorie del passato è stato anche isolamento e regressione. Dobbiamo riaprirci a tutto il mondo ebraico, portandovi la nostra originalità ma anche il senso di appartenenza e fratellanza nel kelal Israel , insieme alla disponibilità a recepire i modi di essere e le fonti di saggezza e di spiritualità antichi e moderni che per troppi decenni sono state qui ignorate o disprezzate.
Una comunità ebraica ben cosciente della sua storia, forte nella sua identità, impegnata nello studio e nella pratica della sua tradizione è per la società che la circonda un bene inestimabile. Questo la maggioranza dei cittadini romani lo sa già bene. Non siamo solo un simbolo del passato, siamo una presenza vitale e dinamica, portatrice di idee e di valori, e anche, volenti e nolenti,siamo testimoni del sacro in una società che fugge dal sacro, o che cerca di presentarlo a senso unico. La nostra condizione ci pone pertanto davanti a grosse responsabilità verso noi stessi, verso la comunità, ma anche verso tutti; cerchiamo di esserne all’altezza. Dovremo, tra l’altro, sottolineare come è cardine del nostro pensiero religioso il principio della solidarietà e della giustizia sociale, per i cittadini e per coloro che sono considerati stranieri. Anche dal punto di vista politico, questa comunità non deve essere solo l’ente che risponde alle sollecitazioni, ma la promotrice del bene comune.
E’ per questa coscienza di responsabilità che il dialogo con tutti, con le religioni, ma anche con le culture e le società diverse, deve essere considerato da noi un dovere; ma questo dialogo deve partire sempre dal presupposto della pari dignità, deve costruire e non deve distruggere le identità.
In conclusione a queste note, ho il dovere e il piacere di ringraziare il Consiglio della Comunità e tutti coloro che hanno sostenuto la mia presenza in questo ruolo; coloro che mi stanno aiutando a portarlo avanti; i Maestri, presenti e assenti, che mi hanno aiutato a studiare e a crescere nella Torà; le precedenti guide spirituali e politiche di questa comunità, che l’hanno fatta crescere in prosperità, cultura e prestigio, malgrado tutte le difficoltà; e infine un ringraziamento a tutti quanti voi qui presenti, per un saluto, un augurio e una partecipazione solidale.
Che l’Eterno guidi e faccia prosperare le nostre azioni.