Da una derashà di Rav Sacks
Uno dei momenti più tragici che si siano registrati nella civiltà occidentale è quello in cui si è iniziato a distinguere, nel mondo cristiano, fra il Vecchio testamento della vendetta in opposizione al Nuovo testamento dell’amore. Non si tratta di un errore da poco. C’è da tremare all’idea di quanti ebrei abbiano perso la vita nei secoli per via di questo modo di pensare. Sopravvive ancora oggi, anche in persone buone e sensibili. Riappare strisciante sui giornali. E’ un assunto scontato che raramente viene esaminato in profondità.
Ovvio che per il cristianesimo il D. dell’Antico testamento è lo stesso del nuovo. Se così non fosse, tutto l’impianto crollerebbe. Marcione, nel secondo secolo, giunse ad una conclusione differente. Credeva che i valori promossi dall’ebraismo e dal cristianesimo fossero incompatibili, tanto da non essere considerati adorazione dello stesso D. Per i cristiani quindi l’Antico testamento non poteva essere considerato una sacra scrittura. Il marcionismo venne considerato un’eresia. Se la vendetta è sbagliata, non può essere comandata da D., né agli ebrei, né ai cristiani. Se è stata comandata, deve avere una giustificazione morale. L’idea che D. possa cambiare idea su un aspetto tanto fondamentale dovrebbe minare la nostra fede. Se crediamo che D. ci abbia comandato qualcosa, questo avrà una sua stabilità nel tempo, senza temere ripensamenti.
Se crediamo che D. ci ama, crediamo pure che questo amore durerà. D. non ci respingerà, in un secondo momento, a favore di qualcun altro. D. è fedele, non torna sulla sua parola. Nella Torah (Waiqrà 19,18) D. proibisce la vendetta, ordina di perdonare, come Yosef perdonò i fratelli, e come chiediamo a Lui di perdonarci di Kippur. Maimonide nelle Hilkhot de’ot, confrontandosi con il problema della vendetta, scrive che l’unica possibilità per l’umanità (e non solo per gli ebrei) è la società e l’interazione umana. La parashah di Haazinu contiene però delle linee, al pari di altri passi del Tanakh, difficilmente conciliabili con un’etica della non vendetta (Devarim 32,40-43): “Quando Io alzerò la Mia mano verso il cielo dicendo: sulla Mia eternità Io giurerò, che affilerò la lampeggiante Mia spada e prenderò in Mia mano la giustizia; Mi vendicherò dei Miei nemici e ripagherò coloro che Mi odiano. Farò inebriare di sangue le Mie frecce, la Mia spada divorerà la carne e si inebrierà del sangue degli uccisi e dei prigionieri, delle teste scarmigliate dei nemici. Celebrate, o nazioni, il popolo del Signore, poiché egli vendicherà il sangue dei Suoi servi, rivolgerà la Sua vendetta contro i Suoi nemici, ed il Suo popolo purificherà il paese”. Quanto la Torah dice si differenzia grandemente da quanto veniva sostenuto in altre antiche civiltà. Presso di loro, il sovrano aveva gli attributi di una divinità, e la sua rabbia corrispondeva a quella della divinità. L’ira divina legittima quella umana. Quando si vendica dei propri nemici, il re fa il lavoro di D. La violenza assume una valenza religiosa. Nella visione ebraica, c’è una distanza incolmabile fra il re celeste e quello umano. La rabbia quindi viene trasferita dalla terra al cielo. La violenza sacra viene respinta per via di un movimento trascendente, che la spazza via dall’orizzonte umano delle cose. E’ D., e non più gli uomini, che ha il diritto di esercitare la vendetta.
Certo, ci sono dei casi particolari, in cui D. ordina agli uomini di agire in Suo nome. Le guerre contro i midianiti e gli amaleciti ne sono un esempio. Ma quando la profezia cessa, come è avvenuto ai tempi del secondo Tempio, così cessa la violenza in nome di D. In un mondo di violenza ci troviamo di fronte ad un’alternativa ineludibile, o la violenza divina o quella umana. Chi insiste sulla nonviolenza di D. non può resistere ad usare la violenza lui stesso, o ad accettare tacitamente quella altrui. Considerano irriverente parlare di giustizia divina, ma non si pongono il problema di affidare la giustizia agli uomini. E così, credendo in una divinità che si rifiuta di impugnare la spada, la violenza prospera. Gli ebrei nel Medioevo hanno visto i propri fratelli essere accusati di uccidere i bambini cristiani per berne il sangue, di avvelenare i pozzi, di profanare le ostie e diffondere la peste, per poi essere assassinati in massa in nome del D. dell’amore. Gli ebrei si appellano alla giustizia divina, ma non hanno cercato di vendicarsi. E’ un ambito che appartiene a D. C’è una giustizia che non vedremo ora. Per adesso, è sufficiente vivere e affermare il valore della vita, cercando di promuovere il diritto a rimanere fedeli alla propria fede, garantendo lo stesso ai propri figli senza paura. La ricerca della giustizia perfetta non ci compete. Riguarda D., come Mosheh ha insegnato in punto di morte. Solo D. sa cosa è giusto e cosa no in un mondo di affermazioni contrastanti, e in base alla Sua visione delle cose, non la nostra, stabilirà una giustizia perfetta. Questa prospettiva, in un mondo lacerato dalle violenze etniche, andrebbe tenuta in grande considerazione. Il rischio, altrimenti, è quello di sprofondare nuovamente nella condizione propria della generazione del diluvio universale, quando la terra si riempì di violenza, e D. fu addolorato per avere creato l’uomo. La vendetta compete a D., non agli esseri umani in nome di D.