Da un articolo di Rav Ari Kahn – II giorno Rosh haShanah 5779
Di Rosh ha-shanah l’uomo è chiamato a partecipare all’incoronazione del Re dei re. Il fatto stesso di partecipare a questo evento ci conferisce un senso di significato, che ci spinge verso nuove vette a livello spirituale. Nel momento in cui riconosciamo il dominio divino su di noi, ci mostriamo consapevoli delle nostre capacità, che siamo chiamati a sfruttare sino in fondo, in quanto creati ad immagine divina. Ma rimane il fatto che siamo degli spettatori; anche se ci sentiamo importanti e gratificati dalla partecipazione all’evento, l’abisso che ci divide da D. rimane insondabile e immutabile. Siamo e rimaniamo dei servi. Il culmine dell’incoronazione viene raggiunto quando si suona lo shofar.
Quanto diciamo però nella tefillah subito dopo aver suonato ci mostra una prospettiva decisamente differente. “Hayom harat olam – Questo giorno è l’anniversario della creazione del mondo. D. chiama a giudizio tutte le creature viventi; sia come figli, sia in qualità di schiavi! Se come figli abbi pietà di noi come un Padre la esercita sopra i propri figli; se come schiavi i nostri occhi sono rivolti fissi a Te, finché Tu ci accordi la Tua grazia e Tu esprima giudizio di assoluzione…”. Piuttosto che accettare il nostro destino di servi, prevediamo la possibilità di coltivare un tipo di rapporto differente e speciale con D. La medesima idea viene articolata nell’Avinu malkenu, il “Nostro padre, nostro re”. A livello cognitivo siamo servi, ma supplichiamo D. di considerarci suoi figli. Preghiamo perché D. si rapporti a noi come un genitore amorevole, generoso, portato al perdono, e non come il padrone di uno schiavo. La differenza fra questi due tipi di rapporti è evidentemente di vasta portata, perché il nostro rapporto con D. è al centro della nostra vita religiosa. Questa visione emerge con chiarezza da una discussione nel Talmud fra Tinneio Rufo e R. Aqivà (Bavà Batrà 10a).
Tinneio Rufo chiede a R. Aqivà: se il tuo D. ama i poveri, perché non li sostiene? R. Aqivà risponde che attraverso di loro possiamo salvarci dalle punizioni dell’inferno. Tinneio Rufo risponde che le cose non stanno così: proprio in questo modo otterremo l’inferno! E’ come se un re terreno fosse arrabbiato con un suo servo e lo mettesse in prigione, ordinando che non gli venisse dato da mangiare e da bere. Se qualcuno andasse a rifocillare il servo, il re non si arrabbierebbe? Il Signore considera i figli di Israele propri servi. Aiutare i poveri vuol dire sfidare D., che li aveva condannati ad una vita di povertà. R. Aqivà rispose con un’altra parabola: se un re terreno fosse arrabbiato con suo figlio, e lo avesse messo in prigione ordinando di non dargli da mangiare e da bere, e qualcuno gli avesse portato del cibo, il re non gli avrebbe fatto un regalo? E noi siamo figli di D. Il punto cruciale della discussione mostra delle visioni del mondo molto diverse: il generale romano vede il mondo in termini di gerarchie di potere. Non siamo altro che servi dei potenti. R. Aqivà vede le relazioni in modo molto diverso. Siamo figli di D., e non solo suoi servi. Cosa ci rende però essere figli di D.? La risposta è semplice e profonda. Se vuoi che D. ti tratti come un proprio figlio, devi considerare gli altri come tuoi fratelli e sorelle. Questo sentimento durante Rosh ha-shanah può essere risolutivo. Mentre ascoltiamo lo Shofar possiamo dire: trattaci come tuoi figli! Mostraci compassione, perché ci siamo comportati come una famiglia compassionevole e premurosa. Sii gentile e amorevole con noi, perché tali siamo stati nei confronti degli altri. Che D. possa scriverci e suggellarci nel libro della vita, e possa concedere a noi un anno di pace, salute, felicità, prosperità ed illuminazione. Possa trattarci con affetto e cura, come un padre tratterebbe suo figlio.