Da una derashà di Rav Sacks)
I Maestri sono critici nei confronti di chi piange per una perdita troppo a lungo. D.o stesso chiede in questi casi: pensi di essere più compassionevole di me? Maimonide scrive che la morte fa parte di questo mondo, e chi piange eccessivamente è un pazzo. Tranne rare eccezioni nella halakhah il limite per il pianto è un anno, e non di più. Essere consapevoli di queste posizioni però a volte non aiuta. Non siamo padroni delle nostre emozioni.
La halakhah, anche quando intende confrontarsi con comandamenti che toccano la sfera emotiva, come l’amore e la repressione dell’odio, traduce questi imperativi in termini comportamentali, seguendo il principio espresso dal Sefer ha-chinukh, secondo cui “i cuori seguono le azioni”. La perdita di una persona cara porta delle conseguenze significative, le sensazioni si attutiscono, si è incapaci di dormire o concentrarsi, come se la propria vita riguardasse qualcun altro. Il tempo guarisce le ferite, ma nel frattempo, se non si pone attenzione, si compiono i peggiori errori della propria vita.
Questi fattori sono degli aspetti di importanza non secondaria all’interno della parashah di Chuqqat. Mosheh sbaglia, e nonostante il Signore faccia sgorgare acqua dalla roccia, le conseguenze per lui sono tremende e viene decretato che non condurrà il popolo in terra d’Israele. I commentatori riportano varie idee sulla natura del suo errore. Ha perso la calma con il popolo? Ha colpito la roccia anziché parlarle? Si è mostrato, come il fratello Aharon, il vero artefice del miracolo?
Vedendo il brano in retrospettiva, quanto avviene è ancora più strano, perché si era già trovato nella medesima situazione nel libro di Shemot; il Signore gli aveva detto di colpire la roccia con il bastone… questa volta Mosheh stava operando secondo quelle stesse modalità, ma questa volta la richiesta era un’altra. Inoltre, il Signore gli aveva già detto come sarebbero andate le cose, avrebbe parlato alla roccia e l’acqua sarebbe uscita. Perché perdere la calma? Questa, alla luce delle rassicurazioni divine, non sembra essere una situazione senza via di uscita.
Per comprendere quanto sta avvenendo, bisogna fare un passo indietro. Subito prima era morta Miriam, la sorella di Mosheh. Mancò l’acqua. E’ noto che in base ad una tradizione, per merito di Miriam, il popolo ebraico era accompagnato da un pozzo durante le sue peregrinazioni nel deserto. Ma non c’è solo il rapporto causa-effetto. C’è anche la perdita di una sorella, colei che aveva sorvegliato Mosheh da lontano, quando fu salvato dalla figlia del Faraone, colei che lo riportò alla madre, facendolo crescere sapendo chi era e quali fossero le sue origini. Perdendo Miriam Mosheh non ha perso solo una sorella, ma colei che ha posto i fondamenti della sua vita. La sua perdita porta alla perdita del controllo delle emozioni. Ti arrabbi quando dovresti essere calmo, taci quando dovresti parlare, parli a sproposito quando dovresti tacere. Anche quando D. parla, ascolti solo a metà. Senti i suoni, ma il senso delle parole non entra nella tua mente.
Maimonide si chiede, come è possibile che Ya’aqov, un profeta, non sapesse che Yosef era ancora in vita? Yaa’aqov era addolorato, e questo non è conciliabile con l’entrata in contatto con la Presenza divina. In quel momento Mosheh, più che un profeta, era un uomo, e poche altre volte è stato così tanto umano, che ha appena perso la sorella.
Il filo conduttore della parashah di Chuqqat è la mortalità, Questo è il punto. D. è eterno, noi no. Lo diciamo nell’Untannè toqef, siamo simili “a vaso che facilmente si spezza, ad erba secca, ad ombra passeggera, a fiore appassito, a nube che presto si dilegua, a polvere che sparisce, a vento che soffia, a sogno che svanisce”. Polvere siamo e polvere ritorneremo, ma D. è per sempre. In un certo senso, la storia di Mosheh è una storia sul peccato e sulla punizione, non capiamo esattamente quale sia il peccato, e non comprendiamo a pieno la portata della punizione, ma sappiamo qual è l’ambito di cui si parla.
Ma forse, come spesso avviene nella Torah, c’è un’altra storia, ed è completamente diversa. La parashah intende parlarci della morte, della perdita, del lutto. Coloro che avevano guidato il popolo ebraico per quarant’anni, non ci saranno più. Ognuno di noi ha un Giordano che non attraverserà, una terra promessa in cui non entrerà; “non è tuo compito portare a termine il lavoro”. Anche i più grandi sono mortali.
La parashah si apre con il rituale della vacca rossa. Questo ci mette a confronto con uno dei principi fondamentali dell’ebraismo. Per molte religioni nel corso della storia, la vita dopo la morte si è mostrata più reale della vita stessa. Lì vivono gli dei, per gli egiziani. Lì, per i greci e per i romani, vivono i nostri antenati. Lì trovi la giustizia, per molti cristiani. Lì trovi il paradiso, per molti musulmani. L’idea che vi sia vita dopo la morte e la resurrezione sono principi fondamentali dell’ebraismo, non negoziabili. Il Tanakh tuttavia non ne parla esplicitamente. Vuole che troviamo D. in questa vita, nonostante la nostra mortalità. Con grande sapienza la Torah mescola legge e narrativa. La legge prima della narrazione, perché D. fornisce la cura prima della malattia. Così va il mondo, siamo anime incarnate, carne e sangue, invecchiamo, perdiamo quanto amiamo. Anche se esteriormente cerchiamo di mantenere la compostezza, dentro di noi piangiamo. Ma la vita continua, e altri continueranno quanto abbiamo intrapreso.