Da una derashà di Rav Sacks
In molte lingue il libro di Bemidbar (nel deserto) viene chiamato il Libro dei Numeri, e la ragione è abbastanza ovvia, dal momento che la narrazione si apre e si chiude con il censimento del popolo ebraico, che si appresta ad entrare in Eretz Israel. Esaminando il libro da questo punto di vista, il suo tema centrale è quello della demografia. Israele è divenuto una realtà importante nel contesto geo-politico dell’epoca, con un esercito di 600.000 effettivi. Nella tradizione ebraica tuttavia il libro, pur essendo conosciuto anche come chumash ha-pequdim (libro dei censimenti), è chiamato Bemidbar (nel deserto). Il tema quindi è differente.
Vi è una ragione esteriore molto semplice per giustificare questo fatto: i libri della Torah prendono il nome da una delle prime parole, ma vi è anche un senso più profondo. L’esperienza formativa di Israele avviene nel deserto, un luogo in cui tutti hanno la medesima dignità sotto la sovranità divina. A livello collettivo avviene un processo analogo a quello che gli antropologi hanno studiato a livello individuale nei riti di passaggio. Nei riti di passaggio sono infatti previste tre fasi: agli estremi quella del distacco dalla situazione iniziale e quello dell’incorporazione nello stato finale; ma la fase cruciale è quella centrale, quella della transizione, in cui non si è più chi si era in precedenza, ma non si è ancora abbracciata la condizione finale. Questo è il deserto per Israele, non è più l’Egitto, ma non è ancora Israele. Questo ci permette di comprendere un particolare nel libro di Shemot, altrimenti non evidente. Il rituale del qorban Pesach è sotto vari aspetti un rituale di separazione, in cui la soglia ha un significato simbolico speciale. Lo stesso si può dire dell’apertura del Mar Rosso, che richiama il berit ben ha-betarim di Avraham. Il passaggio in mezzo ad un’entità divisa segna l’entrata nella fase transitoria. Anche Ya’aqov, recandosi e tornando dalla casa di Lavan, ha un incontro con H.
Vi è un aspetto ulteriore da tenere in considerazione, quello della distinzione fra società e communitas. Nella società alcuni detengono il potere, altri no. Nella società vi sono strutture e gerarchie, nel deserto non è così: domina l’egalitarismo. Gli individui vivono il legame umano essenziale e generico. Vivono per un breve ma memorabile periodo quella condizione in cui gli uomini sono tutti uguali. Nel deserto il popolo ebraico può sperimentare la vicinanza di H. e quella ai propri simili. La narrazione all’inizio di Bemidbar, con la descrizione dell’accampamento del popolo ebraico, ha un che di eccezionale. Al centro il Mishkan e poi disposte lungo i lati in tre file le dodici tribù. Tutte diverse fra di loro ma (a parte i Leviti) uguali. Hanno mangiato lo stesso cibo, bevuto la stessa acqua. Nessuno aveva proprietà terriere, perché il deserto non appartiene a nessuno. Non esistevano quindi conflitti economici o territoriali. Questa situazione non è destinata a durare. In Israele nuovamente sorgeranno disuguaglianze e squilibri. Ma prima di quel momento i litigi e le contestazioni costeranno a un’intera generazione l’opportunità di entrare in Israele. Eppure il libro di Bemidbar si apre, così come il libro di Bereshit, con una rappresentazione di un ordine divino. In Bereshit troviamo l’ordine naturale, con i sei giorni della creazione, in Bemidbar quello sociale, con la disposizione delle dodici tribù (6X2). Il deserto non rappresenta solo un luogo, ma un modo di essere, un attimo di solidarietà posto fra l’Egitto e Israele, un momento da non dimenticare anche se non è riuscito a fissarsi nello spazio e nel tempo reali. La coscienza ebraica non ha dimenticato questi frangenti di armonia naturale e sociale. Se sono stati realizzabili nulla esclude che possano essere ricostituiti.