Per il ciclo “Fondamenti di ebraismo” – Milano – 18/03
Uno dei compiti supremi che il pensiero occidentale ha perseguito, in oltre due millenni di storia, è stato quello di individuare un super-valore che indirizzasse le nostre scelte a livello individuale e collettivo. I filosofi hanno proposto vari concetti, ad esempio la massimalizzione del piacere umano, o l’adeguamento a quanto impone l’imperativo categorico. Anche la famosa massima di Hillel “non fare ad altri quanto ti è odioso”, così come riportato nel trattato di Shabbat, sembra voler rispondere a questa esigenza.
Una delle aspirazioni fondamentali dell’uomo è certamente il desiderio di giustizia e la repulsione verso l’ingiustizia. Il concetto di giustizia, nelle sue varie sfaccettature è, nelle scienze umane e giuridiche, uno dei più studiati negli ultimi decenni. Basti pensare alle fondamentali opere di Rawls e Walzer in questo campo. Il famoso costituzionalista Gustavo Zagrebelsky afferma: “L’intera storia dell’umanità è una lotta per affermare concezioni della giustizia diverse e persino antitetiche, ‘vere’ solo per coloro che le professano (…) dietro l’appello ai valori più elevati e universali è facile che si celi la più spietata lotta per il potere, il più materiale degli interessi. Quanto più puri e sublimi sono quei valori, tanto più terribili gli eccessi che giustificano[1]”. E ancora: “La pura, severa, rigida giustizia può facilmente mutarsi in crudeltà e diventare pretta ingiustizia summum jus summa iniuria[2]”.
Lo stesso rapporto tra giustizia e legge è ben più tormentato di quanto possa sembrare ad una prima disamina. Scrive ancora Zagrebelsky: “Gli esempi oggi più evidenti provengono dal campo dei problemi della bioetica, quando assumono valenza giuridica. In questi casi difficili, l’indipendenza del giudice protegge non la soggezione cieca alla legge ma la responsabile ricerca della giustizia nella, attraverso, e nei casi di conflitto radicale, contro la legge[3].
Qualcosa del genere viene raccomandato al giudice ebreo quando gli si dice, con una espressione spiazzante, di rimanere lifnim mi-shurat ha-din, al di qua della linea del puro diritto. R. Yochanan nel Talmud arrivava persino ad attribuire la distruzione di Gerusalemme “alla rigida esecuzione della legge osservata con eccessivo zelo dai giudici i quali non avevano tenuto conto del margine che essa lasciava al loro umano criterio[4]”. Giuridicamente, il perseguimento del compromesso (pesharah[5]), che sacrifica la verità per promuovere la pace, dà un’indicazione fondamentale sulla concezione del diritto in buona parte della legislazione ebraica, in una visione che identifica nell’armonia sociale l’obiettivo principale del giudice. Il giudizio, è vero, porta giustizia, ma molto raramente dà un apporto positivo nei rapporti interpersonali. E’ importante ricordare che nel diritto ebraico la ricerca del compromesso non è un elemento, per così dire, extra-giudiziale, ma è parte integrante, anzi centrale, del sistema legale.
Da questi elementi, ma ve ne sarebbero molti altri, risulta in maniera molto chiara il fatto che la giustizia, da sola, non può bastare. La creazione di una società giusta vuole che vi siano altri elementi, dove la giustizia è solo uno di essi. Questo emerge con forza nei versi della Genesi (18, 17-19), in cui il Signore illustra il compito di Abramo e della sua discendenza: “Il Signore disse: posso Io tener celato ad Abramo ciò che sto per fare? Mentre egli dovrà divenire una nazione grande e potente ed essere il tipo di benedizione per tutte le genti della terra. Poiché Io lo prediligo affinché raccomandi ai suoi figli e alla sua famiglia avvenire di osservare le vie del Signore operando carità e giustizia (tzedaqah umishpat) sì che Io, Signore, compia nei suoi riguardi quello che ho detto”.
La tradizione ebraica ha elaborato nei secoli un modello, nel quale coesistono e si controbilanciano due polarità. E’ evidente che si tratta appunto di un modello, che non intende esaurire la complessità di una realtà per noi sotto molti punti di vista inconoscibile, ma che fornisce tuttavia delle coordinate importanti. In questa disamina, per semplicità, prescinderemo dai concetti di pace e verità, due elementi fondamentali, strettamente collegati a quelli che prenderemo in considerazione, chesed e din.
Nel mondo sono presenti due correnti, il chesed, la generosità, e il din, il rigore, ciascuna con le sue caratteristiche. In genere i due termini sono visti come antitetici e opposti, ma le cose non sono così semplici. Scrive Rav Della Rocca: “vediamo come l’amore sia esclusivo, e la giustizia sia invece inclusiva, erga omnes; l’amore è intemperante, mentre la qualità della giustizia è la temperanza; l’amore è concentrato, mentre qualità della giustizia è la sua diffusione; l’amore è sbilanciato, mentre la giustizia ha in mano la bilancia; l’amore è cieco perché è arbitrario e singolare, la giustizia è plurale ed è cieca per motivi opposti, per non voler essere né arbitraria, né singolare. Anche nell’iconografia tradizionale amore e giustizia sono entrambi bendati, ma la loro benda racchiude significati esattamente opposti[6]”.
Una è rappresentata dalla mano destra, la mano che accoglie, e l’altra è rappresentata dalla mano sinistra, la mano che respinge.
Ma anche l’amore, è bene dirlo da subito, ha le sue ombre: “l’amore è a suo modo discriminatorio, separa e trasceglie, perché per ragioni inspiegabili include alcuni nella nostra intimità e ne esclude tutti gli altri”[7]. Il suo rapporto con la legge e l’ordine è tormentato: “L’amore genera anarchia. Superficialmente perché non riesce a stare nella misura del nomos, della legge: l’amore è trasgressore per natura; non ragiona se non per eccessi ed eccezioni; elegge senza ‘leggere le istruzioni’[8]”.
Questa dialettica fra amore a giustizia è rappresentata dal patriarca Abramo, la cui tenda è aperta ai quattro lati affinché tutti possano entrare, ed il figlio Isacco, considerato il patriarca del rigore.
Ma, come scrive Massimo Giuliani: “Tali concetti non vanno pensati secondo la logica dell’aut aut ma del gam vegam, che è la traduzione ebraica del latino et et[9]”. Questo è il gravoso compito che attende l’umanità.
Il modello umano discende a sua volta da una schematizzazione, spesso purtroppo fraintesa al di fuori del mondo ebraico (e non solo), a livello metafisico. Alcuni anni fa Rav Riccardo Di Segni, sulle pagine della Repubblica, entrò in polemica con Eugenio Scalfari, per condannare nuovamente l’eresia cristiana che prende il nome di marcionismo: “Nessuno – a cominciare dai due papi di oggi (Benedetto XVI e Francesco) – prenderebbe sul serio questa antica opposizione. che fu una delle bandiere dell’antigiudaismo cristiano per secoli. Questa dottrina ha un nome preciso, marcionismo, dall’eretico Marcione che ne fece uno dei cardini del suo insegnamento. Marcione fu condannato dalla Chiesa, ma l’opposizione da lui drammatizzata tra due divinità fu recepita e trasmessa dalla Chiesa, che solo da pochi decenni se ne distacca ufficialmente, riconoscendola non solo come errore, ma anche come strumento illecito di predicazione di antagonismo e odio[10]”. Scrive Donatella Di Cesare: “E’ diffusa l’idea che l’ebraismo si fondi sulla giustizia piuttosto che sulla misericordia e sul perdono. Esito discutibile di una teologia della sostituzione che assegna l’amore al superamento cristiano della Legge e attribuisce a Israele la vendetta?[11]”. Achad Ha-‘am[12], prendendo le mosse da questa “concezione comune”, sostiene che il giudaismo “ha eliminato dall’etica l’elemento soggettivo per porla sopra una base-obiettiva astratta cioè sulla giustizia assoluta, che considera l’uomo in quanto valore morale suo proprio, senza alcuna differenza fra io e l’altro”. Lo stesso fenomeno si verifica nel rapporto con gli estranei. L’esempio più notevole è il precetto di non avere riguardo verso il povero nella sua causa, un fenomeno morale senza eguali. Tutte le altre dottrine infatti esortano a non avere preferenze per i ricchi e per i potenti, e il Cristianesimo mostra grande simpatia per i poveri, descrivendo la grandezza di cui godranno nel Regno dei Cieli. La pietà è una gran bella virtù, e se tu puoi aiutare il povero hai il dovere di farlo, purché però la tua pietà non ti induca a commettere un’ingiustizia col manifestare un indebito riguardo verso il povero quando si presenta in giudizio. La Torah prevede (Lev 19,15): “Non commettere iniquità nella giustizia; non usar riguardo verso il povero né portare rispetto al grande; giudica con equità il tuo prossimo”. Spiega Rashì: “Non devi dire: Costui è povero e poiché il ricco è tenuto a mantenerlo, io lo mando assolto, ciò che avrà per conseguenza che egli troverà il modo di vivere pulitamente. D’altra parte non devi dire: Costui è ricco e figlio di cospicua famiglia; ed io non debbo procurargli onta ed assistere alla sua vergogna”.
La compresenza di giustizia e misericordia risulta evidente già in vari versi del Tanakh, ad esempio (Sal, 145, 17): “Il Signore è giusto in tutte le sue vie e pietoso in tutte le sue opere”. La tradizione rabbinica ha proseguito su questa via: “L’ermeneutica ebraica ha riconosciuto due racconti della creazione nei primi versetti della Torà. Elo-him, che si può tradurre con Giudice, comincia creando un mondo solo sulla giustizia. Ma subito dopo la presenza del Tetragramma testimonia l’intervento della misericordia[13]”. La giustizia non avrebbe lasciato scampo: “Quando licenziò questo mondo, vide che la sola misura della giustizia lo avrebbe portato a rovina, soprattutto se a guidarlo fossero stati i fautori del noto principio fiat justitia et pereat mundus; decise pertanto di controbilanciarlo affiancandogli una massiccia dose di clemenza e misericordia[14]. Il Midrash (Bereshit Rabbah 12,15) paragona D. ad un re che aveva dei bicchieri vuoti: “Disse il re: Se io vi verso dei liquidi caldi, essi si spaccano, se freddi si incrinano. Che fece il re? Mescolò il liquido caldo con il freddo, lo versò in essi, ed essi resistettero. Così il Santo, Egli sia benedetto: Se io creo il mondo con la misericordia i peccatori saranno molti; se con la giustizia, come potrà sussistere il mondo? Ma Io lo creo con la giustizia e la misericordia, e magari sussisterà”. Secondo il Midrash (Bereshit Rabbah 73,3) D. non è indifferente ai comportamenti degli uomini: “Disse R. Shemuel Bar Nachman: Guai ai malvagi che cambiano l’attributo divino della misericordia con quello della giustizia. In ogni luogo dove ricorre il Tetragramma si tratta della misericordia, come in Es. 34,6-7 e Num. 14,18. Però sta scritto: E vide il Signore che era grande la malvagità dell’uomo,ecc., ed il Signore si pentì di avere fatto l’uomo, ecc., e disse: Distruggerò l’uomo (Gen. 6, 5-6). E beati i giusti che trasformano l’attributo divino della giustizia in quello della misericordia. In ogni luogo dove ricorre il nome divino Elo-him, si tratta della giustizia, come in Es. 22,27 e Es. 22,8; e sta scritto: Ascoltò D. Lea (Gen. 30,17); Ascoltò D. il loro grido (Es. 2,24); e si ricordò D. di Noè (Gen. 8,1); E si ricordò D. di Rachele”. La visione biblica è sotto molti aspetti rivoluzionaria. Nella letteratura babilonese quanto avviene di male all’uomo viene ascritto al cieco fato o al capriccio delle divinità. Nella Bibbia invece vi è una seria critica da parte dell’uomo, e l’atteggiamento divino viene attribuito anzitutto al suo comportamento. Di qui l’audace discorso di Abramo, che intende evitare la distruzione di Sodoma e Gomorra, “…il giudice di tutta la terra non farebbe giustizia?!” (Gen. 18,25).
Secondo Rav Sacks quella delle due dimensioni all’interno della divinità, “la sua distinzione tra l’universalità di D. come Creatore e Sovrano dell’universo e la particolarità del patto, prima con Abramo, poi con Mosè e i figli d’Israele[15]”, risultano essere uno degli elementi maggiormente distintivi dell’ebraismo, non accolti successivamente dal Cristianesimo e dall’Islam, che hanno promosso una visione universalistica della religione, in cui la propria fede è l’unica che permette di ottenere la salvezza divina. Secondo la visione ebraica “D. è universale, ma la nostra relazione con lui è particolare… D. stringe due patti; il primo con Noè e con tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli, che non sono tutta l’umanità, ma solo un popolo in particolare al suo interno… il risultato è che nella Bibbia c’è sia una moralità che riguarda tutti, amici ed estranei, ed un’etica, cioè un codice specifico di condotta che formula le relazioni all’interno del gruppo[16]”.
I Maestri del Midrash, approfondendo il tema della creazione dell’uomo, si interessano del plurale, alquanto strano, che compare nella Torah (Gen. 1,26) quando il Signore manifesta l’intenzione di creare l’uomo – “Facciamo un uomo a immagine nostra, a nostra somiglianza”. Il Midrash (Bereshit Rabbà 8,5) riporta questo insegnamento a nome di R. Shimon: “Quando il Santo, Egli sia benedetto, si accinse a creare l’uomo, gli angeli del servizio divino si divisero in gruppi e schiere. Alcuni dicevano: Si crei; altri dicevano: Non si crei. Come sta scritto: La misericordia e la verità si incontrarono, e la carità e la pace si baciarono (Sal. 85,11). La misericordia diceva: Si crei, perché sarà misericordioso; la verità diceva: Non si crei, perché sarà tutto falsità; la carità diceva: Si crei, perché è destinato a fare opere di bene; la pace diceva: Non si crei, perché sarà tutto liti. Allora che fece il Santo, Egli sia benedetto? Prese la verità e la gettò a terra. Dissero gli angeli del servizio divino al Santo, Egli sia benedetto: Ma tu disprezzi il tuo Sigillo. Si rialzi la verità dalla terra come è detto: Germogli la verità dalla terra (Sal. 85,12)”. Rav Della Rocca, commentando questo testo, afferma: “… mette subito in chiaro un dato: che l’essere umano è un’equazione che non ammette soluzione, l’esito di un micidiale e implacabile paradosso. In altri termini: se egli non viene creato si scontenteranno la Giustizia e la Generosità, ma se viceversa lo si creerà, agirà in conflitto con la Verità e la Pace[17]… il testo sembra volerci suggerire che la Storia umana sia una sorta di maturazione: si doveva accantonare la Verità, per permettere l’esistenza dell’uomo. Ora non c’è più Verità, ma c’è almeno la promessa che possa germogliare dalla terra[18]”. Scrive Massimo Giuliani: “getta luce sul fatto che, con la libertà umana, nel mondo entra anche la conflittualità tra valori, e che l’incontro tra giustizia e pace, idealizzato dai profeti, raramente si realizza negli affari e nelle relazioni (più spesso nelle miserie) degli uomini. Occorre, per così dire, ridimensionare i valori stessi perché coesistano: occorre tagliare ora qui, ora là, in una logica appunto di compromesso[19]”.
Rav Dessler, in Mikhtav meEliahu (2,33)[20] considera il solo amore pericoloso, perché potrebbe essere accompagnato da un amore non completamente puro. L’amore e la generosità del chesed, se non sono ariginati dal rigore, rischiano di trasformarsi in un amore finalizzato alla gratificazione di se stessi.
Amore e giustizia sono protagonisti di una serrata dialettica: “Nella tradizione ebraica, la giustizia non è utile solo a placare l’odio e a dirimere i conflitti: la giustizia e la sua applicazione servono anche a correggere l’amore[21]”. D’altro canto, una particolare forma di amore, detta rachamim (misericordia), da rechem (utero, a richiamare l’amore incondizionato di una madre) è chiamata a correggere il rigore della giustizia.
Nella tradizione del misticismo, secondo cui l’originaria unità di giustizia e amore è stata infranta, la riconciliazione tra amore e giustizia appartiene alla dimensione messianica, laddove si realizzerebbe quella prospettiva utopica di un abbraccio degli opposti[22].
Giustizia e amore fanno parte però della nostra vita, e non possiamo, né dobbiamo, attendere la fine dei giorni: “Ma se disquisire di Amore e Giustizia nella teoria mistica della creazione e nella dimensione etica è un conto, ben altra cosa sono l’amore e la giustizia nell’esperienza quotidiana e concreta dell’essere umano. Nell’esistenza di ogni giorno l’amore si oppone alla giustizia. Se ami non potrai mai essere lucido né equo né giusto. Se non ami, viceversa, diventerai arido, duro, freddo e intransigente[23]”. L’imperativo è quello di imitare la divinità nel continuo controbilanciamento di giustizia e amore. E questo è quanto mai vero quando si parla di leadership. Rav Soloveitchik dedica alcune pagine[24] alla questione della dicotomia giustizia/misericordia nei leader, o per usare i suoi termini “dialettica chesed/emet – misericordia/verità”. Questi due modelli di leadership, rarissimi nella loro forma pura, si differenziano per stile e per sostanza. Il leader che si concentra sulla verità e sulla giustizia per esempio riprende duramente il peccatore e combatte per la giustizia tramite esortazioni ed istruzioni, mostrando, per mezzo delle proprie parole, tutta la propria indignazione per le ingiustizie. Le parole del leader che si focalizza sulla misericordia sono molto differenti. Cerca di creare empatia con il peccatore, lo riprende come una madre amorevole che vuole correggere un figlio indisciplinato. Questo secondo approccio, verso il quale ci sentiamo più naturalmente portati, incoraggia la mediocrità, e permette, a chi non è animato da sentimenti autentici, di distorcere la parola divina. Il primo avvicina solo taluni individui, allontanandone altri, sebbene siano ispirati da un sentimento puro e siano in ricerca di qualcosa. Ciascuno deve trovare la propria formula personale, partendo dalle proprie predisposizioni, per conciliare queste due tendenze, e rivelarsi una guida, che fornisca delle istruzioni, e al contempo sia calda e amichevole. La dicotomia e la ricomposizione dei valori emergono con forza nelle figure di Mosè e Aron, che, pur perseguendo i medesimi obiettivi, usavano dei sistemi, degli approcci e degli strumenti molto differenti fra di loro. Il midrash non propende per uno stile o per l’altro, ma ritiene che entrambi ricoprano un ruolo vitale nella vita della nazione. La leadership ebraica, per essere veramente efficace, deve conciliare mente e cuore al servizio di D.
Rav Della Rocca ricorda che “al termine del giorno di Kippur… noi ebrei invochiamo per sette volte H. hù ha-Eloqim – l’Eterno è il Signore. Questi due nomi significano: l’Eterno della misericordia è il Signore della giustizia, come dire che la nostra azione qui in terra deve avere un riflesso, una corrispondenza con queste due dimensioni del Creatore, due aspetti del divino che gli angeli, al momento della creazione, hanno cercato di scindere. Noi possiamo fare in modo che questi due aspetti dell’Eterno nel reggere il mondo agiscano in armonia, perché se il Signore regge il mondo bilanciando amore e giustizia, insegna anche a noi creature a equilibrare queste due dimensioni[25]”. L’esempio di questa opera equilibratrice da parte della divinità traspare nei giorni che vanno da Rosh ha-shanah a Kippur. Con quello che sembra essere un gioco di parole, ma non lo è, Nachmanide nel suo commento alla Torah (Lev. 23,24) definisce Rosh ha-shanah ‘Yom ha-din berachamim’, il giorno del giudizio con misericordia, e il giorno di Kippur ‘Yom ha-rachamim bedin’, il giorno della misericordia con il giudizio. Qual è il senso di queste strane espressioni? Secondo alcuni, attraverso questa interpretazione Nachmanide fornisce una lettura sorprendente di due famosissimi episodi biblici, la cacciata dal giardino dell’Eden e il peccato del vitello d’oro, che secondo la tradizione rabbinica danno origine a Rosh ha-shanah, che ricorda il peccato dell’uomo, il suo pentimento e il perdono divino, e a Kippur, giorno in cui il Signore perdona in seguito a una colpa tanto grave come l’adorazione del vitello. Nell’episodio della cacciata chi è uscito vincitore? Apparentemente il serpente, ma la cacciata dell’uomo presenta in sé un aspetto di misericordia: in un mondo perfetto, come quello rappresentato dal giardino dell’Eden, l’uomo, per sopravvivere, deve essere perfetto; nel nostro mondo l’imperfezione invece può essere tollerata. Ci troviamo di fronte a un giudizio che assume le fattezze della misericordia. Nel perdono per il peccato del vitello d’oro il giudizio viene invece totalmente rimpiazzato dalla misericordia. Le altezze spirituali che il popolo ebraico aveva raggiunto quando, poco prima, aveva ricevuto la Torah, non potevano permettere di contemplare alcuna forma di perdono, ma non andò così.
Scrive Donatella Di Cesare:“Amore e giustizia si reclamano a vicenda; l’uno fa sorgere l’altra in una tensione che per l’ebraismo non può essere eliminata[26]”.In uno splendido testo, Un messaggio al ventunesimo secolo, Isaiah Berlin scrive: “la giustizia è sempre stata un ideale umano, ma non è compatibile in toto con la misericordia… devo sempre scegliere: fra la pace e l’eccitazione, fra la conoscenza e la beata ignoranza. E così via. E quindi che cosa si può fare per contenere i paladini, talvolta molto fanatici, dell’uno o dell’altro di questi ideali, ciascuno dei quali ha la tendenza a calpestare gli altri, come i grandi tiranni del Novecento hanno calpestato la vita, la libertà e i diritti umani di milioni di persone perché i loro occhi erano fissi su un supremo, dorato futuro?… se vogliamo che i sommi valori umani in base ai quali viviamo vengano perseguiti, allora, per evitare il peggio, dobbiamo arrivare a compromessi, accordi, baratti. Un po’ di libertà in cambio di un po’ di eguaglianza, un po’ di libera espressione individuale in cambio di un po’ di sicurezza, un po’ di giustizia in cambio di un po’ di compassione[27]”.
La compenetrazione dei concetti di giustizia e amore è evidente nel senso del termine tzedaqah: scrive Leo Baeck[28]: “In quella parola della Bibbia che in origine significò giustizia, i maestri scoprirono i significati di equità e di benevolenza, le qualità cioè che danno alla giustizia il suo vero contenuto. Poi la parola giustizia divenne sinonimo di carità”. Abbiamo nella nostra tradizione due concetti appaiati, mishpat e tzedaqah, che potremmo rendere come giustizia punitiva e giustizia distributiva. Rav Sacks dice: “E’ difficile tradurre l’espressione tzedaqà perché combina in un’unica parole due nozioni normalmente contrapposte, ovvero carità e giustizia… Tzedaqà è un termine insolito, perché significa entrambe le cose[29]”. Scrive A. Barth: “essa (la tzedaqah) tenta di modificare il mishpat nel caso che questo porti a ingiustizie; inoltre la tzedaqah si sforza di impedire quelle condizioni che portano all’ingiustizia. La tzedaqah è ciò che in italiano si chiama giustizia equilibratrice, equità[30]”.
Il quadro di queste relazioni è complesso, ma la tradizione ebraica fornisce delle direttive, non una gabbia. Il rischio da scongiurare per indirizzare le nostre vite è quello di rimanere impantanati nel relativismo morale, o ancora peggio nel nichilismo morale. Anche il monismo e la fede in un unico criterio, dice Berlin è fonte di “profonda soddisfazione sia per l’intelletto che per le emozioni”, ma nasconde enormi pericoli. Rischiamo di tramutare la nostra vita in un’arena. Un sistema che ammette più valori fondamentali a volte produce delle contraddizioni irrisolvibili, e questa può apparire un’imperdonabile mancanza; ma, compatibilmente con le nostre capacità, dobbiamo sempre rimanere vigili, per mantenere nel giusto equilibrio tali valori.
[1] G, Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Torino 2003, pp. 4-5, citato in M. Giuliani, La giustizia seguirai, Firenze 2016, p. 73.
[2] D. Lattes, Cultura ed etica ebraica, Acireale-Roma 2015, p. 104.
[3] G. Zagrebelsky, cit. p. 27, citato in M. Giuliani, cit. p. 76.
[4] D. Lattes, cit., p. 106.
[5] Per la posizione di Rav Soloveitchik sulla pesharah vedi il saggio L’amministrazione della giustizia nello spirito della Torah in J. D. Soloveitchik, Riflessioni sull’ebraismo (a cura di A. R. Besdin), Firenze 1998, pp. 61-68.
[6] R. Della Rocca, Con lo sguardo alla luna, Firenze 2015, pp. 187-188.
[7] R. Della Rocca, cit., p. 187.
[8] M. Giuliani, cit. p. 93.
[9] M. Giuliani, cit. p. 93.
[10] R. Di Segni, Perdonare le offese, Venezia 2016, pp. 36-37.
[11] D. Di Cesare, La giustizia deve essere di questo mondo, Roma 2012, p. 49.
[12] Citato in D. Lattes, cit., pp. 103-104.
[13] D. Di Cesare, cit. p. 49.
[14] M. Giuliani, cit. p. 75.
[15] J. Sacks, Non nel nome di D., Firenze 2017, p. 203.
[16] J. Sacks, cit. pp. 209-210.
[17] R. Della Rocca, cit., p. 185.
[18] R. Della Rocca, cit., p. 186.
[19] M. Giuliani, cit. pp. 74-75.
[20] Citato in R. Della Rocca, cit., p. 183.
[21] R. Della Rocca, cit. p. 183.
[22] R. Della Rocca, cit. p. 184.
[23] R. Della Rocca, cit. p. 187.
[24] Vedi il saggio Risvegliare il cuore ed insegnare alla mente J. D. Soloveitchik, cit., pp. 166-174.
[25] R. Della Rocca, cit. p. 193.
[26] D. Di Cesare, cit. p. 52.
[27] I. Berlin, Un messaggio al ventunesimo secolo, Milano 2015, pp. 51-53.
[28] Citato in D. Lattes, cit., p. 105.
[29] J. Sacks, La dignità della differenza, Milano 2004, p. 128.
[30] A. Barth, I problemi eterni dell’ebraismo nella nostra generazione, Milano 1980 (2° ed.), p. 244.