Alberto Somekh
La delicata questione delle “coppie di fatto” che tanto appassiona il mondo cattolico in Italia oggi è già stata affrontata da eminenti autorità rabbiniche del XX secolo. E naturalmente, queste lo hanno fatto in un modo genuinamente ebraico. Mentre da noi in genere due partners ebrei finiscono prima o poi sotto la chuppah, sembra che non sia sempre così altrove, soprattutto negli Stati Uniti, dove le convivenze sono un fatto comune anche all’interno della Comunità ebraica. Il problema che i Rabbini si sono posti è perciò il seguente. Se due conviventi ebrei si lasciano e uno dei due decide di sposarsi regolarmente con un altro/a, si deve richiedere il ghet per “formalizzare” lo scioglimento della prima unione?
Il Devar Avraham di Rav A. Henkin sostiene di sì, e fornisce tre argomentazioni in proposito: 1) La Mishnah considera a tutti gli effetti la biah (coabitazione) come una forma valida di acquisizione matrimoniale (qiddushin) anche in assenza delle altre due: kessef (oggi: la consegna dell’anello davanti a due testimoni validi) e shetàr (oggi: la Ketubbah); 2) Il Talmud afferma eyn adàm ‘osseh be’ilatò be’ilat zenùt: “si presume che nessuno compia atti sessuali se non a scopo di matrimonio”; 3) La società, in quanto consapevole del fatto che due persone convivono, vale nei loro confronti come cento testimoni. Va da sé che il Rav Henkin è ben lungi dall’avallare situazioni del genere e si limita a considerarle a posteriori, come dati di fatto.
Il Rav ‘Uziel, che negli anni ’60 fu Rabbino Capo Sefardita di Israele (Mishpetè ‘Uziel) ritiene invece che non debba essere richiesto il ghet in questi casi, “smontando” le argomentazioni di Rav Henkin. 1) I qiddushin per biah sono stati disapprovati dai Chakhamim posteriori alla Mishnah; 2) L’assunto talmudico per cui nessuno compie atti sessuali se non a scopo matrimoniale è di fatto contraddetto dalla realtà odierna (ma’assim bekhol yom…); 3) Si può parlare di “testimoni validi” solo a proposito di persone individuate con nome e cognome prima dell’atto cui sono chiamate ad assistere.
La caratteristica ebraica di cui parlavo non si limita al fatto che una discussione del genere difficilmente potrebbe aver luogo in ambienti ecclesiastici che negano il divorzio (ma lo Stato è un’altra cosa!). Poco ci importa, in questa sede, anche sapere come si comportano i Rabbini. Se infatti si esige il ghet, come a volte succede nei Battè Din ashkenaziti, molte coppie non sposate si troverebbero di fronte ad una difficoltà notevole. E non richiedere il ghet, come perlopiù si regolano i Battè Din sefarditi, se all’atto pratico semplifica di gran lunga le cose, sul piano dei principi equivale a negare l’esistenza delle “coppie di fatto” tout court.
Non è la halakhah pratica al centro dell’attenzione. Quando due Rabbini esprimono pareri sia pure contrastanti in nome del Cielo, “le une e le altre sono parole del D. vivente”. E’ la metodologia che conta: analizzare ogni nuova situazione per i doveri che ne conseguono (nella fattispecie se obbligare o meno la coppia ad un atto formale di divorzio in caso di separazione) e non per i diritti. Più esattamente, nella tradizione ebraica i diritti discendono dai doveri e non viceversa.
Un Rabbino americano, Sol Roth, nota infatti che è proprio questo a garantire la continuità della Comunità Ebraica nei secoli: quanti diritti sono menzionati come tali nella nostra Bibbia?. I diritti, infatti, hanno la loro fonte principale nell’interesse personale degli individui che li esprimono, e questi sono mutevoli per natura. Gli obblighi, invece, in quanto non derivano dai diritti, ma piuttosto dal commitment (“impegno personale”) nei confronti della Comunità stessa, “hanno maggior durevolezza: e con essi il carattere stesso della vita comunitaria” (The Jewish Idea of Community, p. 91).