Uno degli aspetti che apparentemente distinguono la Shoah rispetto a tutte le persecuzioni che ci hanno colpito in precedenza è il silenzio della Tefillah. Non voglio dire che i deportati non hanno pregato prima di morire nelle camere a gas, anzi. Certo molti si sono rivolti a D. Voglio invece dire che la Shoah non ha lasciato quasi traccia nel nostro Siddur.
Tutti gli Shabbatot le Comunità di rito askenazita recitano un brano in ricordo dei martiri delle Crociate prima di riporre il Sefer Torah nonostante sia trascorso quasi un millennio da quei tragici fatti e numerose Selichot e Qinot ne fanno cenno; le Comunità sefardite e italiane esprimono invece un ricordo per gli Anussè Israel, i marrani perseguitati dall’Inquisizione prima e dopo la Cacciata dalla Spagna. Ebbene nulla è penetrato nel formulario in relazione all’Olocausto.
Gli unici testi che io conosca sono due Piyutim entrati nel novero delle Qinot di Tish’ah be-Av secondo il rito askenazita, composti parecchi anni dopo. Il primo, Zikhrù Na we-Qonenù kol Israel, fu composto nel 1984 da Rav Shlomoh Halberstam, il Rebbe di Bobov che aveva raggiunto gli Stati Uniti con i soli abiti che portava addosso dopo aver perso tutti i suoi cari nel Churban Europa. Oggi le istituzioni di questa dinastia chassidica prosperano. Egli stesso ha spiegato di aver esitato a comporre la Qinah perché non si sentiva all’altezza dei grandi poeti del passato, finché non lesse in un libro di Halakhot su Tish’ah be-Av (Seder ha-Yom di R. Mosheh Makkir, cabalista di Zfat) che “è Mitzwah per chiunque sia in grado di farlo comporre Qinot e recitarle in questo giorno”. Il secondo, Ha-zokher mazkiraw, fu invece composto nel 1959 da Rav Shim’on Schwab della Kehal ‘Adat Jeshurun di Washington Heights a New York su richiesta della sua Qehillah, formata prevalentemente da reduci tedeschi della Shoah. “Se i morti delle Crociate non sono stati più di 5.000 e l’Ebraismo tedesco dell’epoca ne ha tramandato il ricordo componendo Qinot, tanto più questo dovere incombe su di noi verso i martiri della Shoah, che sono stati più di mille volte tanto”.
Nulla o poco altro, perché? La questione mi ha sempre intrigato. Secondo alcuni commentatori c’è un illustre precedente: la schiavitù d’Egitto. Il Maor wa-Shemesh, a sua volta illustre commentatore chassidico, osserva che nella Parashah odierna non è mai adoperato il verbo wayitpallelù (“e pregarono”) quando si dice che i nostri Padri nella disperazione si sono rivolti a D., bensì wayiz’aqù (“e strillarono”), ovvero si parla di shaw’ah (“gemito”). Questi termini alludono a un lamento scomposto, istintivo, ben diverso da una preghiera articolata. Lo stesso Commento fornisce due possibili motivazioni al riguardo. 1) La tensione del Din (“rigore Divino”) in quel periodo era talmente forte che nessuna Tefillah avrebbe potuto infrangerlo. La Tefillah ha canali ben definiti per giungere a destinazione. Orbene questi stessi canali, per ragioni che non ci compete analizzare qui, possono presentarsi sbarrati. D. può decidere cioè di “transennare” la via della preghiera. L’unico modo per affrontare la disperazione è allora quello di strillare. Lo strillo arriva sempre alle orecchie dell’Onnipotente. 2) Gli Ebrei, semplicemente, non erano in grado di pregare in modo ordinato e pertanto strillavano, più per ignoranza che per disperazione. Ritengo che entrambe le motivazioni si possano applicare anche alla Shoah.
Mosheh, preso dalla disperazione a sua volta, inizialmente rifiutò il mandato di liberatore che gli era stato affidato. Durante l’incontro al roveto ardente, piegandosi alle insistenze del S.B. Mosheh Gli domandò: “Se il popolo dovesse chiedermi qual è il Tuo Nome, che cosa dirò loro?” (Shemot 3,14). Ci domandiamo: Che rilevanza poteva avere in questo frangente il Nome di D.? Anche una volta che il popolo l’avesse saputo, che risonanza avrebbe suscitato in loro un nome sconosciuto qualsiasi? La richiesta di Moshe era in realtà un’altra: “insegnaci a pregare” o piuttosto, “dacci la password affinché la nostra Tefillah sia accolta”!
La risposta del S.B. non si fece attendere. La mia password – disse – è ehyeh (“sarò”), prima persona singolare del futuro del verbo essere. Io sarò sempre con ciascuno di voi individualmente, rispettando la personale essenza e sensibilità di ognuno. “E D. disse ancora a Mosheh: Così dirai ai Figli di Israele: H. Dio dei vostri Padri, D. di Avraham, D. di Itzchaq e D. di Ya’aqov mi ha inviato a Voi. Questo è il Mio Nome in eterno e questo è il mio ricordo di generazione in generazione” (v. 15). I Commentatori si domandano perché la parola Eloqè (“D. di”) sia costantemente ripetuta prima del nome di ciascun Patriarca nel versetto. Sarebbe bastato che dicesse in forma riassuntiva: “D. di Avraham, di Itzchaq e di Ya’aqov”! La risposta è la seguente, basata sul Midrash. Ciascuno dei tre Patriarchi ha avuto il suo approccio personale alla Divinità, senza riprenderlo passivamente dai propri Padri come se fosse una semplice tradizione o una routine. Avraham, la cui personalità era improntata al Chessed (“amore”), chiamò D. gadòl (“grande”), perché la grandezza del S.B. si rivela proprio nell’amore che deve vincere tutti gli ostacoli. Itzchaq, che serviva D. con timore, lo chiamò ghibbòr (“forte”), che rappresenta il D. della giustizia, la cui stabilità sulla terra dipende dalla forza. Infine Ya’aqov incarna il rachamim (“misericordia”), giusto mezzo fra l’amore e la giustizia. La misericordia è rappresentata dal perdono e la riverenza è dovuta a D. per la Sua misericordia. “Presso di Te è il perdono, così sarai riverito” (Tehillim 130,4). E’ il perdono a garantire la riverenza nei confronti di H. Ed il termine nora’ (“riverito”) è adoperato proprio da Ya’aqov quand’ebbe il sogno della scala (“quanto è degno di riverenza questo luogo” – Bereshit 28,17).
I tre aggettivi Ha-El ha-gadòl, ha-ghibbòr, we-ha-norà ricorrono in Devarim 10,17, ma “gli Uomini della Grande Assemblea” hanno significativamente voluto che essi introducessero la prima Berakhah di ogni ‘Amidah, che costituisce il fondamento di tutte le nostre Tefillot, dopo i nomi dei tre Patriarchi (Berakhot 33b). A ognuno di noi è garantita la facoltà di rivolgersi a D. lodandone l’aspetto che più si avvicina alla sua sensibilità. Purché lo si faccia. Da qui l’invito dei nostri Maestri nei Pirqè Avot a non fare della Tefillah una semplice routine. Essa rappresenta qualcosa che richiede a ciascuno partecipazione emotiva e intellettuale in forma costante. Come presso i Patriarchi. In definitiva il testo della ‘Amidah contiene tutti e tre gli aggettivi, uno accanto all’altro. D. conclude il Suo colloquio con Mosheh mediante un invito: “Va’ e raduna gli anziani d’Israel e dirai loro: H. D. dei vostri Padri mi è apparso, il D. di Avraham, di Itzchaq e di Ya’aqov, per dirmi: Mi sono ricordato di voi” (v. 16). E’ il segnale della futura liberazione, la luce in fondo al tunnel. A differenza del verso precedente in queste ultime parole il vocabolo Eloqè (“D. di”) ricorre una volta soltanto. Le nostre umane personalità saranno distinte, ma D. è Uno solo per tutti. Sarà Lui a mettere insieme le nostre individualità. Egli si ricorderà di noi. Nessuno escluso!