Seminario – Facoltà di Economia – Università di Torino– 15/12
Presenterò una serie di valori fondanti per le relazioni economiche attraverso il prisma del pensiero e del diritto ebraico (Torah). A mo’ di premessa metodologica ricordo soltanto che esso ha due fonti fondamentali: la Bibbia ebraica (chiamata Torah anch’essa; una volta era nota in Occidente come Vecchio Testamento) e il Talmud, un grande commentario scritto 1500 anni fa. Discutendo sul testo biblico, che per la nostra tradizione ha un valore legale, i Maestri pervengono alla definizione delle norme aggiornandole ai tempi mutati.
Vedremo anche un esempio di come il Talmud rielabori la normativa biblica e giunga persino a mutarla. Quest’opera è continuata nel tempo fino a oggi grazie ai commentatori e ai Decisori. Questi ultimi, rispondendo ai quesiti che giungevano loro da ogni parte, hanno contribuito al continuo rinnovamento del diritto.
LIBERTA’
La Bibbia non prescrive alcun sistema politico ed economico particolare e non interviene nell’assetto che di volta in volta gli uomini danno alla società.
Rispondendo a chi gli domandava se si potessero trovare nella Torah raccomandazioni per un regime politico o economico piuttosto che un altro, il Rabbino di Tel Aviv dice risolutamente di no.Egli dà di ciò due motivazioni. 1) Il regime politico si presta a continui cambiamenti da un periodo storico all’altro, in contrasto con la Torah che è eterna. 2) La Torah non ha voluto imporre al popolo un regime specifico per quegli aspetti della vita pubblica che esulano dai precetti.
DOVERE
La Bibbia fonda le relazioni interpersonali sulla nozione di dovere e non di interesse. La parola “diritto” è sconosciuta nell’ebraico biblico. Se il fine della comunità prescinde dall’interesse individuale delle parti, essa si mantiene più a lungo.
Nella tradizione ebraica l’idea di comunità non nasce meramente dall’esigenza di soddisfare necessità cui il singolo non è in grado di far fronte da solo. La Comunità dell’Ebraismo non è una Comunità funzionale-utilitaristica, ma ontologica. Non è una somma di singoli, bensì una realtà indipendente dotata di vita autonoma, ha una sua propria personalità. Alla base di ciò vi è la nozione di Patto, termine mediante il quale si intende un tipo di relazione per più aspetti diversa da quella contrattuale che regola, per esempio, una società d’affari. Il contratto sociale che è generalmente considerato la base di una società democratica mette l’accento sui diritti dai quali, per assicurare la pari opportunità degli altri di godere degli stessi diritti, essa deduce gli obblighi. Una società contrattuale è perciò orientata verso i diritti. In una comunità basata sulla nozione di Patto, invece, gli obblighi derivano non dai diritti, ma dall’essenza stessa del Patto; è quindi orientata verso gli obblighi. Questo conduce a determinate conclusioni. In una società rights-oriented il fattore che determina l’accettazione degli obblighi è, in ultima analisi, l’interesse personale. Quest’ultimo si giustifica a sua volta per essere connesso con il benessere dei contraenti. Se si ragiona solo in questi termini, quando l’interesse personale cessa, anche la coesione del gruppo viene meno. Al contrario, in una società obligation-oriented gli obblighi sono totalmente separati dalla nozione di interesse personale. Se il fine della comunità prescinde dall’interesse individuale delle parti, allora essa si mantiene più a lungo. Infatti, se gli obblighi sono radicati negli interessi delle parti mutano con il mutare della percezione degli interessi stessi. D’altronde, se gli obblighi derivano dal commitment hanno una permanenza maggiore, e così il carattere della vita comunitaria.
ONESTA’
Nel diritto ebraico al debitore in causa non si chiede di giurare di aver pagato finché non ammette una parte dell’addebito. Non si teme che l’insolvente sia così disonesto da non voler pagare il dovuto, ma solo che possa dilazionare il pagamento.
Il diritto ebraico dà per scontato, fino a prova contraria, un innato senso morale dei cittadini. Sarà sufficiente qui un esempio. In una causa per debiti il Talmud richiede al presunto insolvente di giurare di aver pagato solo nel caso in cui ammette di dover ancora una parte della somma; se invece afferma di non dovere nulla è esente. I Maestri non potevano concepire l’esistenza di qualcuno che non volesse pagare il dovuto: al massimo avrebbe potuto cercare di dilazionare la data del pagamento.
RESPONSABILITA’
In una compravendita di beni mobili solo il ritiro della merce da parte dell’acquirente e non il pagamento determina il passaggio di proprietà e scarica il venditore dalla sua responsabilità verso la merce. Non si teme che fra il pagamento e il ritiro si possa recedere dalla parola data.
Sebbene secondo la Torah il pagamento perfeziona l’acquisto, nel caso di un bene mobile i Maestri del Talmud hanno stabilito che solo il ritiro della merce determina il passaggio di proprietà, per evitare che il venditore dica: “il grano che hai acquistato e non hai ritirato si è bruciato nel mio solaio”, scaricando ogni responsabilità una volta che ha ricevuto i soldi: si afferma cioè la solidarietà nei rapporti commerciali aldilà dell’utile personale. La conseguenza è che se la frutta è stata già consegnata l’acquisto è perfezionato anche se non è ancora stata pagata, e i soldi sono un debito dell’acquirente. Se la frutta non è stata consegnata si può recedere dalla compravendita anche se è già stata pagata, ma in tal caso chi recede incorre nella esecrazione del Tribunale Rabbinico, per cui si dà per scontato che ciò non accada.
TRASPARENZA
E’ proibito far credere alla controparte di averle fatto un favore, quando non è così. A nessuno è concesso di limitare la corretta capacità di valutazione di altri, sia nel business che nelle relazioni interpersonali a prescindere dalla perdita economica.
Una forma di furto particolare di cui si parla nelle nostre fonti è la ghenevat da’at, lett. “sottrazione della mente altrui” o circonvenzione. Il divieto consiste nel far credere all’altro di avergli fatto un favore, quando non è così. Qualsiasi azione, qualsiasi parola tramite le quali suscitiamo negli altri un’opinione di noi stessi più elevata di quella che realmente meritiamo, o ci guadagniamo più gratitudine di quella che veramente ci spetta, rientra nel divieto di ghenevat da’at. Non è concesso a nessun individuo di limitare la corretta capacità di valutazione di altre persone sia nel business che nelle relazioni interpersonali. Una persona non potrebbe invitare a un pasto un’altra sapendo da principio che quest’ultima rifiuterà; è altresì fatto divieto di aprire una bottiglia di vino davanti ad una persona facendole credere di averla aperta appositamente per lei quando in realtà la bottiglia andava già aperta per altri motivi. Il Talmud ammette solo una deroga ai precedenti casi: vale a dire allorquando le reali intenzioni consistano nel conferire onore all’ospite. La ghenevat da’at trova applicazione, quindi, non solamente qualora l’inganno causi una perdita economica nella controparte, ma in tutti i casi in cui si generano false impressioni nel prossimo.
CONDIVISIONE
E’ proibito esigere pagamento per un bene o uno spazio sfitti che altri ci chiedono di poter adoperare: “uno non ci perde e l’altro ne gode”.
Il pensiero ebraico riconosce l’esistenza della proprietà privata, ma attraverso dei limiti. Il diritto romano definì la proprietà come “la prerogativa di disporre dei propri beni secondo la propria volontà”. Nel diritto ebraico il padrone non può fare con i suoi beni tutto ciò che vuole. Si prenda per esempio la seguente controversia talmudica. “Se uno occupa lo spazio di un altro a sua insaputa e la proprietà in questione non viene di solito affittata, che cosa accade? Può l’occupante dire al padrone “non ti faccio perdere alcun guadagno” e rimanere sul posto gratuitamente? Può invece il padrone dire all’occupante “hai tratto beneficio” e quindi esigere un pagamento?”. In nessun sistema legale convenzionale potremmo immaginarci un interrogativo simile. L’assioma secondo cui il proprietario ha poteri illimitati sull’oggetto di sua proprietà è un fondamento del diritto. Egli non solo ne controlla l’uso, ma può anche impedire ad altri di derivare benefici dalla sua proprietà. Argomentazioni come: “che perdita ti ho causato?” o “che danno ti ho provocato?” sono inconcepibili in questo caso. Ebbene, il diritto ebraico la pensa diversamente. Nel Talmud è scritto che “chi dice: ‘Ciò che è mio è mio, ciò che è tuo è tuo” è un mediocre. Secondo una tradizione era questo il comportamento comune fra gli abitanti di Sodoma. La tradizione ebraica ritiene che nel nostro caso l’occupante non ha l’obbligo di versare alcun affitto, dal momento che “gode del terreno senza provocare alcuna perdita o danno al padrone”, il quale aveva comunque rinunciato a trarne beneficio. Non si può ridurre tutto a profitto. Credo che se provassimo a ragionare in questo modo su scala mondiale, mettendo a disposizione gratuita dei meno fortunati i nostri beni sfitti, sui quali comunque abbiamo rinunciato in partenza a percepire guadagno alcuno, compiremmo grandi passi avanti verso una più equa distribuzione delle ricchezze e delle risorse a livello planetario. Contribuiremmo al benessere di tanti nostri fratelli realizzando l’ideale biblico: “la giustizia, la giustizia perseguirai” (Deut. 17,20). Come si giustifica la ripetizione? Un commentatore rilegge il versetto nel modo seguente: “la giustizia con la giustizia perseguirai”. Nel pensiero ebraico il fine non giustifica i mezzi. Fini giusti possono essere perseguiti solo tramite mezzi giusti.
GIUSTIZIA
La beneficenza ai poveri è chiamata in ebraico Tzedaqah, che significa letteralmente “giustizia”. Trascurare di darla non è semplicemente omissione o rinuncia a un merito, ma una vera e propria trasgressione.
Dio Benedetto aveva stabilito originariamente che la ricchezza dovesse essere distribuita in parti uguali, ma per la mobilità che è insita nel denaro le cose sono andate diversamente: vi sono persone che sono entrate in possesso di parti che non erano destinate a loro, lasciando altri privi della loro parte. La Tzedaqah è un atto di giustizia distributiva, volta a restituire le parti ai legittimi proprietari. Questi ultimi hanno diritto alla restituzione, e chi la nega commette furto. Non solo la povertà, ma anche la ricchezza è stata introdotta nel mondo per mettere alla prova chi ce l’ha.
EQUILIBRIO
Le leggi agricole sui doni ai poveri nella Bibbia sono numerose e diversificate. Esse hanno non solo uno scopo sociale, ma soprattutto pedagogico: insegnare la generosità, che è via di mezzo fra l’avarizia e la prodigalità (Maimonide).
Queste prescrizioni vogliono costantemente risvegliare la nostra attenzione sugli strati meno fortunati della società, i poveri e i disagiati. Non si tratta di buoni propositi, ma di veri e propri obblighi nei loro confronti. Mi soffermerò sui tre versetti seguenti. 1) Deut. 15,7-8: “Quando in mezzo a te si trovi un povero, uno dei tuoi fratelli in una delle città del tuo paese che il Signore ti concede, non dovrai indurire il tuo cuore né chiudere la tua mano al tuo fratello povero. Dovrai invece aprire a lui la tua mano e prestargli quanto ha bisogno, ciò che gli mancherà”. 2) Lev. 19, 9-10: “E quando eseguirete la mietitura nel vostro paese non mietere del tutto l’angolo del tuo campo, né raccogliere le spighe cadute durante la mietitura, non racimolare la tua vigna, né raccogliere i chicchi caduti nella tua vigna: li lascerai al povero e allo straniero; Io sono il Signore vostro Dio”. 3) Deut. 24,19: “Quando mieterai il tuo campo e avrai dimenticato un covone, non tornerai indietro a raccoglierlo: sarà per il forestiero, l’orfano e la vedova, affinché ti benedica il Signore tuo Dio in ogni tua azione”. E’ difficile tuttavia pensare che i doni ai poveri in quanto tali rispondano semplicemente a un programma politico di assetto sociale. Questi obblighi non hanno come unica finalità quella di aiutare il prossimo in difficoltà. E’ evidente che lo scopo di queste prescrizioni è anzitutto pedagogico. Maimonide scrive che il fine è insegnare la generosità, giusta via di mezzo fra due estremi negativi: l’avarizia e la prodigalità. Si vuole educare i membri del popolo ebraico, quali che fossero le loro possibilità economiche, a due valori, uno etico, l’altro religioso: ritrarsi dinanzi ai beni materiali e riconoscere che il vero Padrone del mondo non è l’Uomo, bensì Dio, che ha concesso la Terra alla collettività e il singolo Campo al privato, Dio dei mietitori e Dio degli spigolatori. Nonostante lo sforzo che investi nel coltivare la Terra, c’è una parte della tua proprietà che non ti appartiene…
SOLIDARIETA’
In caso di controversia se un certo dono va dato o meno, si predilige il povero “al di là della lettera della Legge”.
D’altro lato la Bibbia proibisce di avere riguardi per il misero nei processi (Es. 23,3). La contraddizione, peraltro, è solo apparente. Siamo di fronte a due diverse applicazioni del concetto di giustizia. Si deve cioè distinguere fra giustizia nei processi (ciò che la Torah chiama Mishpat) e giustizia sociale (ciò che la Torah chiama Tzedeq): “Non avrai per lui riguardo nella sua contesa, ma avrai riguardo per lui nelle donazioni che gli spettano”. Fra Mishpat e Tzedeq c’è differenza. Il Mishpat è oggettivo e non prende in considerazione eventuali circostanze attenuanti: “che la sentenza trapassi pure la montagna!”. Lo Tzedeq implica invece uno sbilanciamento, rispetto alla linea del Mishpat, verso le regole della giustizia riequilibratrice, che richiedono di prendere in considerazione le circostanze, il caso in tutti i suoi aspetti, principi di rettitudine, ecc. Lo Tzedeq si differenzia dal Mishpat in quanto appunto esso tenta di modificare il Mishpat nel caso che questo porti ad ingiustizie. Secondo il Mishpat puro e semplice, ove vi sia un dubbio si applica il principio: “Colui che pretende qualcosa dalla controparte deve provare di averne il diritto”, altrimenti i soldi o i beni in questione restano per presunzione nelle mani di chi li detiene. Se così ragionassimo nel nostro caso, ciò di cui si dubita sia un diritto del povero dovrebbe rimanere al proprietario del campo. Ma quando parliamo di poveri, a meno che non si tratti di un processo, si deve inclinare dal Mishpat allo Tzedeq “al di là della lettera della legge” e attribuire ai poveri anche ciò di cui si dubita che rientri nel loro diritto, perché non si tratta qui di risolvere una contesa. Viviamo oggi in una congiuntura economica difficile. Queste parole devono essere lette come uno spunto di ispirazione nei confronti di chi è meno fortunato di noi. Potrebbe trattarsi di tante persone che ci circondano, e forse non levano neppure la propria voce. La Torah ci spinge alla solidarietà e alla condivisione delle risorse disponibili, nei limiti del possibile. Ma il primo passo da compiere in questa direzione consiste certamente nell’abbattere le barriere del proprio ego. Come insegnava Hillel (I sec.): “Se io non sono per me, chi sarà per me? Ma se io sono solo per me, che cosa sono io? E se non ora, quando?”