Aspetti del rapporto delle fonti ebraiche medievali con i convertiti
1. Introduzione
Il fenomeno delle conversioni di ebrei ad altre religioni si è presentato in ogni epoca e luogo della storia ebraica, dai tempi patriarcali biblici ai nostri giorni. L’opposizione delle fonti tradizionali alle conversioni è stata ferma e costante; l’Ebraismo, nella sua concezione monoteistica assoluta, non può tollerare nel suo seno scelte differenti di culto religioso. Le conversioni rappresentano per questo un attentato all’integrità e alla conservazione sociale dell’Ebraismo; sono state una delle cause costanti di riduzione numerica della compagine ebraica, ora sporadica, ora con proporzioni di massa.
Il rapporto ideologico, religioso e culturale dell’Ebraismo con la questione generale delle conversioni è dunque di totale opposizione e condanna; ma nel rapporto particolare e diretto con i convertiti l’opposizione di principio si è dovuta misurare con la realtà umana dei casi singoli e la complicata problematica sollevata in situazioni sociali e familiari differenti. Una fonte notevole per la ricostruzione di questo rapporto è rappresentata dai testi giuridici rabbinici che discutono nei dettagli queste problematiche.
La materia è notevolmente ampia, e si presta ad interpretazioni molto differenti. Lo scopo di questa nota è di presentare alcuni campioni giuridici, di epoca prevalente medievale, per mettere in evidenza il tipo di problemi esistenti e le linee tendenziali che emergono nelle fonti; verrà particolarmente discusso il problema della definizione dell’identità.
2. La definizione del convertito
La tradizione si occupa a più riprese delle varie forme di devianza religiosa, rispetto al proprio modello di riferimento, farisaico-rabbinico. I termini usati nella Mishnà e nel Talmùd sono numerosi: sul piano più specificamente religioso vengono classificati come devianti, tra gli altri, coloro che negano la resurrezione dei morti e la venuta del redentore, coloro che inducono in colpa la collettività, gli «epicurei», i minim (settari), coloro che si ribellano o negano i precetti (mumarim), sia un singolo precetto che l’intera Torà1. Il preciso riferimento di queste definizioni è in molti casi incerto e variabile, sia dal punto di vista puramente giuridico che dal punto di vista storico-critico; in particolare resta incerta l’esatta intenzione del termine min, che molti Padri della Chiesa denunciavano come definizione di cristiano, ma che probabilmente intedeva riferirsi ad un’ampia varietà di gruppi eterodossi, tra i quali vari tipi di giudeocristiani; quindi nello specifico non i cristiani in quanto tali ma gli ebrei passati al Cristianesimo2. Comunque, rispetto alle origini più antiche di questi termini, la progressiva definizione di due grandi religioni monoteistiche – Cristianesimo ed Islam – come i campi reali verso i quali si dirigeva la scelta conversionistica di molti ebrei pose ulteriori problemi di ridefinizione. Testimone di queste difficoltà è la complessa classificazione proposta da Maimonide nel Mishné Torà3 nelle regole sul pentimento. Maimonide recuperò i termini ereditati dalla tradizione classica, accompagnandoli da una definizione esplicativa. Secondo Maimonide, per min si deve intendere anche «chi sostiene che vi sia un padrone del mondo, ma che abbia corpo e immagine»; per «epicurei» anche «coloro che dicono che il Creatore abbia cambiato un precetto con un altro e che ormai questa Torà sia stata abolita, anche se proveniva dal Signore»; «mumar per l’intera Torà» sono «ad esempio coloro che si volgono alle religioni degli idolatri e vi aderiscono nel momento in cui gli ebrei vengono perseguitati». Avraham ben David di Posquierres4 obiettava contro una parte di quest’ultima definizione: «coloro che si rivolgono alla religione degli idolatri, ne riconoscono le divinità, e quindi sono min». I commenti successivi cercano di conciliare la divergenza proponendo due soluzioni: il convertito è da considerarsi sia min che mumar; oppure, il termine min è da riservare a coloro che cambiano religione per convinzione, e non per coercizione o per sfuggire alla persecuzione5. Esaminando questa discussione, bisogna prima di tutto notare che i riferimenti diretti ed espliciti alle religioni contemporanee degli autori mancano per vari motivi, tra i quali una forma di autocensura prudenziale e l’intervento dei censori successivi, esterni ed interni, sulla tradizione manoscritta e a stampa; il termine «idolatria» corrisponde all’ebraico ‘avodat kokhavim, «culto delle stelle», che come tale escluderebbe il Cristianesimo e l’Islamismo, ma va spesso visto come un eufemismo; il termine più preciso dovrebbe essere ‘avodàh zaràh, «culto estraneo», e come tale è evidentemente più aperto6. La conversione ad altre religioni è in sostanza implicita e compresa in questa classificazione di gravi devianze, e la conseguenza è per il peccatore la perdita del suo posto nel mondo futuro, che invece è assicurato a ogni altro ebreo, quali che siano le varie colpe di cui possa essersi macchiato. Ma se il peccatore si pente, nulla resiste davanti al suo pentimento, e anche il suo posto nel mondo futuro gli verrà restituito7. Questa posizione di apertura sembra in qualche modo contraddittoria rispetto a quanto Maimonide afferma in un altro trattato, quello sull’idolatria (cap. 2:8); parlando di ebrei che fanno idolatria, qui definiti «mumar per l’idolatria», e degli «epicurei», Maimonide afferma che «non li si raccoglie mai nel pentimento», cioè se si pentono non vengono accolti. Il senso preciso della frase è poco chiaro: chi non deve accoglierli, la società umana o il tribunale celeste? Se si trattasse di quest’ultimo, sarebbe un’esplicita contraddizione con quanto detto nelle regole sul pentimento; ma anche se si trattasse di un tribunale umano, la durezza della regola sembra a molti commenti successivi esagerata; e c’è quindi chi smussa la severità spiegando che vengono sì accolti, ma che non ci si può fidare troppo del loro pentimento, e devono essere tenuti sotto costante controllo.
Dunque la conversione è un atto gravissimo, che chiude le porte del cielo e del mondo futuro (in assenza di pentimento) e quelle della società di questo mondo (che anche se si aprono in presenza di pentimento lo fanno con grande diffidenza). Al di là dell’indubbia gravità del reato, resta il fatto di una strana incertezza nella definizione giuridica del convertito, che è potenzialmente sia min, che «epicureo» e mumar. Da rilevare inoltre che in questa prospettiva la posizione del convertito si colloca agli estremi di varie classificazioni di reati, ordinati secondo il livello di gravità. C’è una scala o più scale di gravità, ma non c’è il limite netto, la barriera che distingue una parte dall’altra, chi sta dentro da chi sta fuori. Questo fatto diminuisce di poco, o per niente, la gravità del reato, ma è in qualche modo indice di una visione non radicalmente oppositoria.
Per quanto riguarda la complessità della definizione, a parte l’analisi di Maimonide e dei commenti correlati, nella generalità dei testi coevi e successivi i termini di min ed «epicureo» sembra che scompaiano, mentre resta l’ultimo, mumar, che si confonde con un altro ancora, il meshumad «il cancellato, l’annullato». Mumar e meshumad sembrano interscambiabili8, spesso per intervento censorio. In questa preferenza linguistica possono aver giocato vari fattori: l’imbarazzo per l’uso del termine min, nei cui confronti si recita la quotidiana maledizione nella preghiera della‘Amidàh; e per l’«epicureo» la prevalente accezione eretica che il termine ha assunto. In qualche modo l’evoluzione linguistica, consolidata dall’uso quotidiano nelle varie forme dei dialetti giudaici locali, ha sopraffatto le incertezze teoriche.
3. La casistica giuridica
Le incertezze teoriche nella definizione generale hanno il loro corrispondente nella casistica giuridica. La gravità dell’atto commesso nei confronti della religione e della comunità originaria pone il convertito in un’evidente situazione di alterità. Ma fino a qual punto chi si converte diventa diverso, esce totalmente da una comunità per entrare in un’altra? Su questo problema si scontrano due principi differenti. Il primo parte dal presupposto che l’essenza dell’Ebraismo stia nel rifiuto della ‘avodàh zaràh, «il culto estraneo», per cui «chiunque riconosce la validità della avodàh zaràh nega l’intera Torà, mentre chiunque nega la avodàh zaràh riconosce la validità dell’intera Torà; un israelita che pratica un ‘culto estraneo’ è da considerare come un idolatra per ogni cosa» (Maimonide ‘Avodà Zarà 2:4-5).
È come se l’atto di culto estraneo cancellasse l’appartenenza.
Il principio opposto è che «anche se ha peccato è sempre un Israelita»; come se la condizione ebraica fosse incancellabile, quale che sia la volontà di annullarla. Rimanere ebrei, anche se non lo si vuole, significa, dal punto di vista giuridico, continuare ad essere soggetti con diritti e doveri; dal punto di vista più generale, religioso e morale, significa mantenere la possibilità di un ritorno nei ranghi: le porte del pentimento restano sempre aperte, anche se con qualche limite, come abbiamo visto nel paragrafo precedente. Il principio vale sia per gli ebrei dalla nascita, che per i proseliti: un proselita tornato alla sua fede originaria prima della conversione all’Ebraismo resta sempre ebreo, e viene considerato alla stregua di un ebreo mumar9. In questa concezione l’Ebraismo è come una casa dove la porta è dotata di un meccanismo a valvola: vi si può entrare, ma non se ne può mai uscire.
La convivenza tra i due principi opposti non può essere pacifica, e almeno uno dei due deve cedere qualche cosa all’altro.
Il problema è già delineato, ma il più delle volte irrisolto, nelle fonti più antiche. Emblematico è uno dei modi in cui si pone nel Talmùd Babilonese (Yevamoth 17). In una discussione del terzo secolo dell’era volgare i Maestri del Talmùd si chiedevano se i discendenti degli esuli delle 10 tribù fossero ancora da considerarsi ebrei. Si tratta degli esuli del regno di Israele, deportati verso oriente dagli Assiri, un millennio circa prima della discussione talmudica, e immediatamente considerati dispersi e distaccati dal resto del popolo ebraico. A distanza di un millennio dalla data della deportazione, la discussione talmudica ha un’evidente connotazione mitica, teorica e simbolica; ma è noto il fascino di questo problema, che fu ampiamente ripreso in varie elaborazioni nel medioevo e nell’epoca moderna, da ebrei e non ebrei10. Ma rispetto alle elaborazioni successive, i rabbini del Talmùd avevano almeno il vantaggio di tradizioni precise per identificare i luoghi della dispersione. Più tecnicamente, la domanda che si ponevano era se un atto nuziale compiuto nei confronti di una donna ebrea da una persona qualsiasi residente nell’area dove gli esuli erano stati trasferiti avesse valore giuridico o meno; perché se l’atto nuziale è fatto da un non ebreo è automaticamente nullo, mentre se è fatto da un ebreo comporta lo stabilimento di un vincolo giuridico. La discussione talmudica presenta tesi opposte: da chi sostiene che l’assimilazione annulla l’identità ebraica (citando il verso del profeta Osea 5:7 che dice: «hanno tradito il Signore perché hanno generato figli stranieri»), a chi invece sembra presupporre in linea di principio una invariabilità della condizione, ma per i discendenti degli esuli fa finta che il problema non si ponga, immaginando che le donne della generazione della deportazione fossero rimaste infeconde senza possibilità di riprodursi. È importante osservare come il Talmùd porti le opinioni diverse ma non risolva il problema.
Esaminando la casistica medievale sembra che la posizione di forza spetti, almeno nella maggioranza degli autori, al secondo principio. Il problema si pone sotto differenti punti di vista, principalmente nel diritto matrimoniale e nella regolamentazione economica del prestito a interesse e del diritto ereditario11. Nel diritto familiare un caso esemplare è nella lunga discussione che riguarda l’istituto del levirato. Se una donna rimane vedova senza figli, la Bibbia prescrive che il fratello del morto debba sposarla, o si liberi formalmente da questo obbligo con una cerimonia apposita, lo «scalzamento» (Deut. 25). In assenza di questo atto giuridico, la vedova non può risposarsi, e ciò crea un vincolo molto forte e condizionante nel diritto matrimoniale ebraico. Il problema che si pone nei testi giuridici è cosa si debba fare se il marito o se il fratello superstite è un mumar: visto che ha rifiutato la sua appartenenza all’Ebraismo, si può far finta che non ci sia, e quindi lasciar libera la cognata vedova di risposarsi? I responsa dei Gheonim, che risalgono all’area babilonese degli ultimi tre secoli del primo millennio dicono di sì, che è come se il mumar non ci fosse più; ma non portano alcuna prova alla loro decisione. Secondo Rav Yehudai Gaon12 la vedova ha il permesso di sposarsi quando al momento del primo matrimonio il cognato si era già convertito, o quando il marito defunto si era convertito durante il matrimonio e l’aveva costretta alla convivenza; e tutto questo perché i fratelli non sono più da considerarsi tali. Nella riflessione dei Maestri della Renania di due secoli dopo13 la logica del permesso deriva dal confronto con casi analoghi: esistono dei casi in cui c’è sempre un margine per pensare che la vedova abbia un qualche interesse nel matrimonio con il cognato, per quanto pieno di difetti possa essere, ma quando il cognato si è convertito ogni interesse è escluso. Questa giustificazione teorica viene tuttavia respinta, in ossequio all’opinione contraria espressa da una autorità come RaSHI14, che sembra sia stato il primo ad applicare esplicitamente al caso dei convertiti la regola per cui «anche se ha peccato è sempre un Israelita»15.
Un’autorità italiana del Quattrocento, Yosef Colon16, che affronta nuovamente il problema del levirato in caso di conversione, non ha dubbi sul fatto che la condizione ebraica rimanga incancellabile da un atto di conversione. Una delle fonti su cui si basa l’argomentazione di Colon è la discussione talmudica sulle 10 tribù, che egli dimostra conclusa nel senso dell’incancellabilità17. Il fatto che sia stato necessario un nuovo intervento sull’argomento dimostra però che la discussione nel XV secolo continuava e che qualcuno la pensava diversamente; il responso inizia con queste dure parole di condanna: «sulla questione della donna soggetta al levirato, che è stata permessa, poveri gli occhi che vedono cose simili, e le orecchie che le ascoltano».
Si noti che tra le fonti che sostenevano la tesi dell’annullamento giuridico del convertito, e che progressivamente divennero minoranza, si segnalano autorità romane dell’XI secolo come Rabbì Natan e suo fratello Avraham, che arrivarono a dire che in caso di conversione del marito non fosse necessario il divorzio18.
Nello sviluppo storico di queste fonti si potrebbe quindi individuare un’evoluzione di tipo «facilitante» nel rapporto con i convertiti: dapprima cancellati come soggetti giuridici e membri della famiglia, poi riammessi con pienezza di facoltà. Ma il problema non si esaurisce in questa prospettiva: vi sono altri aspetti da considerare, come quello puramente e asetticamente giuridico della questione: se sia legittimo consentire a una donna di contrarre nuove nozze in presenza di una grave limitazione imposta dal diritto biblico. In questa chiave di lettura non c’è un’evoluzione facilitante, ma al contrario uno sviluppo rigoristico, che porta alla limitazione di una libertà per la donna anche in situazioni veramente drammatiche per lei e la sua comunità. Fare del convertito un «ebreo che ha sbagliato» può sembrare molto tollerante, ma in realtà il prezzo da pagare è molto alto ed è di fatto un boomerang contro la stessa comunità, che mentre riconosce i diritti al convertito sa che spesso questi non avrà alcuna intenzione di esercitarli, anzi molto spesso eviterà di farlo per risentimento contro la sua comunità d’origine.
4. I riti di uscita e di rientro
L’atto della conversione rappresenta sempre un trauma per la famiglia e la comunità. Oltre ai problemi giuridici, emerge nelle fonti la forte esigenza di una ritualità per controllare il fenomeno. Un testo molto importante per lo studio delle risposte ebraiche al problema della conversione è il Sefer Chasidim, di Rabbì Yehudà Chasid, dell’inizio del XIII secolo19.
Discutendo il problema della conversione, l’Autore propone una rilettura di Geremia 22:10; è un brano dove il profeta parla degli esuli verso la Babilonia, che partono e non torneranno; partenza e ritorno vengono interpretate da Yehudà Chasid come allontanamento dalla legge divina e assenza di pentimento:
§190. Quando uno si converte e muore, non si piange per la sua morte e non gli si fa l’eulogio; «Non piangete per chi è morto, piangete piuttosto per chi se ne va» dall’insegnamento del Signore, rinnegando la sua religione quando vive; non si speri che possa tornare, «perché non tornerà più»; ma se torna e muore si piange per lui. E quando si converte è opportuno piangere: come quando il corpo si perde, si piange, quando si perde insieme corpo e anima, a maggior ragione bisogna piangere.
Secondo un’altra interpretazione «perché non tornerà più» si riferisce a coloro che inducono gli altri a peccare, perché non avranno la possibilità di pentirsi.
§191. Quando un ebreo si converte gli si cambia il nome, come è detto: «come loro (gli idoli) saranno quelli che li fanno» (Salmi 135:18), come loro bisogna chiamarli.
Il senso di queste espressioni è che la conversione viene assimilata al momento della morte. Il processo è duplice: da una parte si negano i riti di lutto al momento della morte fisica; e questo tipo di comportamento ha radici molto più antiche20. Dall’altra i riti di lutto vengono praticamente anticipati al momento della conversione. Una fonte molto controversa sull’origine di questo comportamento è nell’episodio tragico di Rabbenu Gershom21 il cui figlio si sarebbe convertito durante una persecuzione, morendo subito dopo, e per il quale il padre avrebbe fatto un periodo di lutto; vi sono diverse varianti di questa notizia tra cui quella di un lutto doppio, di quattordici giorni; sette per la conversione e sette per la morte. C’è chi cerca di armonizzare questo dato con quello che poi diventò il comportamento accettato: il padre avrebbe preso il lutto perché il figlio non aveva resistito alla prova nel momento della persecuzione; ma quando subito dopo il figlio morì, il padre continuò a fare lutto per lui, giudicandolo non come un apostata ma come la vittima innocente di una violenza, per il quale la durezza del principio si devestemperare22.
Sebbene le fonti siano incerte, questo tipo di comportamento divenne quasi la regola, e se ne possono trovare ampie testimonianze fino ai nostri giorni, diffuse anche nella letteratura e nel cinema23 .
Il cambio del nome è un altro segnale in questo senso, come segno di trasformazione e di rinascita. Esigenze analoghe emergono nelle fonti che discutono come debba essere chiamato pubblicamente un ebreo, rimasto tale, figlio di un convertito: il nome tradizionale ebraico è patronimico, e la citazione della paternità potrebbe, secondo le circostanze, essere offensiva. L’orientamento prevalente è quello di omettere il nome del convertito e di citare al suo posto il nome del nonno o dell’ultimo antenato non convertito24.
L’altra faccia del problema è l’atteggiamento da seguire per la riammissione del convertito nell’Ebraismo. Gli aspetti della questione sono molteplici: bisogna verificare se il pentimento è sicuro (cfr. sopra al §2), e fino a qual punto la persona è affidabile: in situazione di grave tensione con l’esterno (ed è la regola per tutto il periodo del potere inquisitorio) dietro a una richiesta di rientro vi potrebbe essere una provocazione esterna con grave rischio per la comunità. Ma al di là del problema della sicurezza, esiste la questione della credibilità religiosa di una persona che in passato ha commesso un atto tanto grave. Inoltre, su un piano che potremmo definire più cerimoniale e rituale, si pone il problema della eventuale necessità di atti formali per la riammissione nella comunità. In particolare si discute l’opportunità di un bagno rituale, che è una pratica comune nella quotidianità religiosa, ma che è anche parte della procedura per l’ammissione dei proseliti. La bibliografia sull’argomento è particolarmente abbondante. In sintesi si può dire che le fonti più antiche, di epoca Gaonica, escludono questa necessità, ma il fatto che la discutono significa che il problema si poneva. Nei secoli successivi la richiesta di atti rituali riemerge e viene parzialmente codificata: si arriva a richiedere l’immersione in un bagno rituale preceduta dalla rasatura completa di tutta la peluria, in analogia del rito biblico della purificazione del malato di tzara’at una volta guarito25; il ragionamento si fonda sull’equivalenza simbolica conversione=morte=tzara’at (che richiedeva un’esclusione dalla collettività pari a una «morte civile»). Nella pratica accettata si richiede solo l’immersione rituale, con la precisazione che non si tratta di un atto di conversione, perché si rimane sempre ebrei, ma una sorta di equivalente purificatorio. L’ambiguità è ben evidente: la conversione è come una morte, ma una morte dalla quale si può risorgere26.
5. Considerazioni conclusive
Questo breve percorso tra campioni della letteratura medievale ebraica è sufficiente a far risaltare i termini essenziali del problema: la drammaticità della questione in sé come rischio per la compagine ebraica; l’intrigo di problemi giuridici e rituali che complicano ulteriormente le conseguenze di atti di per sè già abbastanza drammatici per le famiglie e le comunità; la forte carica emotiva che accompagna le disquisizioni, solo in superficie puramente giuridiche; l’incapacità, o l’impossibilità, per tutti questi motivi, di risolvere drasticamente in un modo o nell’altro la questione dell’appartenenza al gruppo di chi se ne è allontanato.
A livello psicologico questa situazione di ambiguità sembra prefigurata nel commento midrashico a Genesi 37:35, riportato anche da RaSHI. Quando i figli di Giacobbe vennero ad annunciargli che Giuseppe era morto sbranato da una bestia feroce, il padre si dispose a far lutto, ma «non volle consolarsi». Il padre aveva intuito in qualche modo che la storia della morte non era vera, e che il figlio poteva essere ancora vivo; il midrash spiega che per i morti prima o poi si trova la consolazione, perché vengono dimenticati, ma non si trova consolazione per i vivi.
Il dramma del rapporto con i convertiti sta anche in questo dato: per quanti sforzi si facciano per considerarli morti, sono ancora vivi.
Note
1. Una prima classificazione in mSanhedrin 10:1.
2. Sul problema dell’identificazione dei minim con i giudeo-cristiani, cfr. M. Simon, Verus Israel, Paris, 1964; sulla birkàt haminìm, Talmudic Encyclopedia, s.v., e A. Carlebach, Birkat haminìm, in «Shanà beShanà», Jerusalem, 5741-1980, pp. 281-290.
3. Mosé Maimonide, (Cordova 1134 – Fustat 1204); in Hilkhòt teshuvà 3:7-9.
4. Narbona, (1120-1198), nelle Hassagot aMaimonide, ibidem.
5. Kesef Mishné, ibidem, di Yosef Caro, l’autore dello Shulchan ‘Arukh, (Toledo 1488 – Safed 1575).
6. La questione se Cristianesimo ed Islam siano effettivamente ‘avodàh zaràh resta in parte aperta nelle fonti tradizionali. Non si tratta in ogni caso di «culti estranei» del tipo proibito dalla Torà con riferimento ai culti dei popoli cananei (Tosafot in b’A.Z. 2a). Inoltre bisogna fare una distinzione secondo due diversi punti di vista, quello degli ebrei e quello degli altri popoli della terra. Per gli ebrei abbracciare il Cristianesimo è sicuramente ‘avodà zaràh, perché la forma di monoteismo che propone è diversa da quella in cui crede la tradizione; ma per gli altri popoli della terra, che sono comunque tenuti all’osservanza del precetto «noachide» di non fare idolatria, la cosa è diversa; si tratta di verificare se la fede cristiana nell’incarnazione e nella trinità comprometta il puro monoteismo. Per alcuni Autori ciò che viene chiamato tecnicamente come shittuf, lett. «partecipazione», è una forma incompleta di monotesimo, probita agli ebrei, ma non a i popoli non ebraici; altri Autori invece non accettano questa distinzione (cfr. Talmudic Encyclopedia, alla voce ben noach, vol. 3, p. 350, con indicazione di fonti alle note 69-72). Il problema dell’Islamismo è diverso, perché riguarda la questione del riconoscimento dell’origine divina della Torà; ma i seguaci dell’Islam non sono considerati praticanti della avodàh zaràh; cfr. Bet Yosef, Joré De’àh 146, Isserles in Shulchan ‘Arukh, ibidem. Per entrambe le religioni, dal punto di vista di chi lascia l’Ebraismo per seguirle, si pone il problema del rifiuto dell’osservanza dei precetti della Torà.
7. Hilkhot Teshuvà, ibidem, fine capitolo.
8. Cfr. Bacher, Der Ausdruck Mumar in den Handschriften des Babylonischen Talmud, in «Zeitschrift für Hebraische BibIlographie», XII, pp. 39-40; J. Katz, Between Jews and gentiles, (in ebraico) Jerusalem, 1977, p. 76.
9. Cfr. Maimonide Issurè Bià 13:17, Shulchàn ‘Arukh Y.D. 268:2; Talmudic Encyclopedia alla voce «gher», vol. 6, col. 288.
10. A. Foa, Il popolo nascosto. Il mito delle tribù perdute d’Israele tra messiansimo ebraico e apocalisse cristiana (XVI-XVII secolo), in M. Caffiero, A. Foa, A. Morisi Guerra (cur.), Itinerari ebraico-cristiani. Società, cultura, mito, Roma, 1987, pp. 129-160; A. Toaff, Mostri giudei, Bologna, 1996, pp. 29-76.
11. Un’analisi del problema è in Katz, op. cit., pp. 75-84; l’Autore si distingue per la tendenza a dimostrare il desiderio di apertura nei confronti dei convertiti.
12. Capo dell’accademia babilonese di Sura dal 757 al 761 circa.
13. In particolare Meir di Rothenburg, (1215-1293).
14. Rabbi Shelomo Yitzchaqi, Troyes (1040-1105).
15. Una delle fonti principali per la discussione del caso è Mordekhai Yevamoth 29-30; l’originalità della citazione fatta da RaSHI è sostenuta da Katz, ibidem.
16. Nato in Savoia, morto nel 1480 in Italia; Shut mahariq 85.
17. Sull’orientamento analogo di altri Autori sull’esito della discussione talmudica cfr. Talmudic Encyclopedia, alla voce goi, vol. 5, col. 366. Il ragionamento di Colon è strettamente giuridico, ma chissà che nel suo orientamento non abbia in qualche modo agito, almeno inconsciamente, la suggestione e la seduzione di forza derivante dal mito delle 10 tribù, che ai suoi tempi affascinava il mondo ebraico.
18. Rabbì Natan (Roma 1035-1106) è l’autore del lessico talmudico ‘Arukh. L’opinione è riportata in Ravia (Avi ha’Ezri, di Eliezer di Yoel ha Levi) 1:151, p. 158, cit. in Katz, p. 78, n. 15)
19. L’opera è una delle espressioni letterarie più importanti del chassidismo tedesco; per un’introduzione generale cfr. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Milano, 1965, pp. 123-172. L’uso del Sefer chasidim come fonte storica impone delle cautele, ma la ricchezza e l’importanza dei dati non può essere sottovalutata.
20. Semakhòt 2:10, dove il riferimento scritturale è Salmi 139:21; cfr. la discussione in Rabbenu Asher, Mo’ed Qatan 3:60, e la codificazione in Shulchan ‘Arukh Y.D., 340:5, 345:5.
21. È l’autore del famoso cherem con cui venne proibita la poligamia e il ripudio senza consenso della moglie; (Francia o Renania 965-Magonza 1028).
22. Analisi delle fonti in Meqor Chesed, commento al Sefer Chasidim nell’ediz. Mossad Harav Kook, Jerusalem 5717, pp. 187-188.
23. Come ad esempio nel Violinsta sul tetto, commedia musicale e quindi film di successo, dal testo yiddisch (Tuvia il lattaio) di Shalom Aleichem.
24. Sefer Chasidim 791, Meqor Chesed, ibidem, Shulchan ‘Arukh Orach Chayyim 139:3.
25. La tzara’at è una malattia della pelle, abitualmente, ma impropriamente resa come «lebbra»; il rito di purificazione è in Lev. 14:9.
26. Natronai Gaon, Teshuvot haGeonim Sha’areTzedeq 3:6 § 8 e10; Shulchan ‘Arukh Y.D. 267:8 e Isserles fine 268; Turé Zahav a Shulchan ‘Arukh Y.D. 267, nota 5; Magen Avraham a Shulchan ‘Arukh Orach Chayym 431 nota 11; un’analisi estesa delle fonti in Meqor Chesed a Sefer Chasidim § 203, pp. 192-193.