Sabato scorso abbiamo letto nella Parashà di Emor le regole delle feste (Levitico cap. 23 ). Vorrei parlarvi della festa di Sukkot (la festa delle capanne), dato che al Collegio rabbinico quest’anno stiamo studiando il trattato talmudico di Sukkà. A pag. 6b di questo trattato c’è una discussione fra Rabbi Shim’on e gli altri Saggi sul numero di pareti che la “sukkà” (capanna) deve avere: secondo Rabbi Shim’on devono essere quattro, secondo i Saggi ne bastano tre. Sembra un problema essenzialmente tecnico, ma questa discussione ha invece alcuni risvolti assai interessanti che riguardano il rapporto fra la tradizione scritta e quella orale.
Entrambe le opinioni si basano sull’interpretazione di due versetti della Torà (Lev. 23: 42-43). In questi versi è ricordata la mitzwà di abitare nelle sukkot (plurale di sukkà) per sette giorni, in ricordo delle capanne in cui D-o fece risiedere i figli di Israele quando uscirono dall’Egitto. La parola “sukkot” è ripetuta per ben tre volte in questi versi: poiché la Torà è, secondo i Maestri, assai concisa, e ogni parola e persino ogni lettera vengono a insegnare qualcosa, c’è da chiedersi quale sia il motivo di questa ripetizione. La prima delle tre parole “sukkot” viene a insegnarci la mitzwà della sukkà: ma le altre due, cosa c’insegnano? Rabbi Shim’on sostiene che le 2 parole “sukkot” in più (che essendo nella forma plurale alludono ciascuna almeno a 2) ci insegnano la necessità di avere una sukkà con 4 (=2+2) pareti. I Saggi, d’altra parte, notano che una delle due parole “sukkot” ridondanti è scritta senza la waw, come se fosse scritta sukkat: si legge sukkot, ma si scrive sukkat. E poiché sukkat è singolare, vale soltanto 1. Quindi, poiché delle due parole “sukkot” in più una è al plurale e l’altra è al singolare (dato che è scritta sukkat), sono solo 3 (=2+1) le pareti richieste.
La discussione fra Rabbi Shim’on e i Saggi è pertanto se in un testo conta più la forma scritta di una parola o la sua pronuncia. Questa divergenza di opinioni si ritrova in vari passi del Talmud, con diversi maestri schierati in un senso o nell’altro: le due possibilità vengono indicate con le espressioni em la-masoret, che significa letteralmente la “madre”, ossia il fondamento, è la tradizione (scritta), o em la-miqrà, ossia la “madre” è la lettura. [Aprendo una parentesi, è interessante notare che in questo contesto viene utilizzato il termine “madre”, e non “padre” come in altri casi si usa: ad esempio, si dice av melakhà, lett. “il padre del lavoro”, per indicare ciascuna delle 39 categorie principali dei lavori proibiti di Sabato. Nel nostro caso si usa il termine di “madre” forse perché la Torà, come dice il Talmud all’inizio del trattato di Qiddushin, è femminile, e non solo grammaticalmente. Si chiedono infatti i Maestri in quel passo (Qiddushin 2a-b): la parola “derekh” (via) è femminile o maschile? Si risponde che dipende dal contesto: se si parla della guerra, che è un’attività tipicamente maschile (“è abitudine degli uomini fare la guerra, e non è abitudine delle donne fare la guerra”), allora “derekh” è al maschile, come in Deuteronomio 28: 7 (derekh echad); se si parla della Torà, che è femminile (come in Salmi 19: 8: “la Torà del Sig-ore è integra e ristoratrice …”) allora “derekh” è al femminile, come in Esodo 18: 20 (derekh asher yelekhù bah). E’ chiaro dal contesto che quando il Talmud dice che la Torà è femminile allude sia alla forma grammaticale, ma anche all’essenza stessa della Torà: la Torà come ristoratrice dell’anima.]
Torniamo alla nostra discussione. Un testo — è più importante come è scritto o come viene letto? Tutti sono d’accordo su come le parole della Torà vadano scritte, e sono tutti d’accordo anche su come quelle parole vadano lette. La discussione è se le allusioni alle regole della halakhà si nascondono nella forma scritta del testo della Torà o nella sua pronuncia. Su cosa va applicato il Midrash, sulla parola scritta o sulla parola detta?
Ci sono parole scritte in un modo e lette in un altro, e viceversa ci sono parole lette in un modo e scritte in un altro. Il testo scritto, senza una conoscenza della sua pronuncia, non è sufficiente, è monco; ugualmente la forma orale del testo, senza che questa sia accompagnata dalla forma scritta, anch’essa non è sufficiente. Per fare un esempio dall’altro dei miei principali campi d’interesse, lo studio delle scienze della natura: la materia è costituita da corpuscoli o da onde? Fino ai primi decenni di questo secolo si pensava che la descrizione corpuscolare e quella ondulatoria fossero esclusive l’una dell’altra. Successivamente si è giunti alla conclusione che c’è bisogno di entrambe le descrizioni per avere una comprensione accurata dei comportamenti della materia. Nessuna delle due è sufficiente, ma insieme riescono a dare una rappresentazione completa dei fenomeni naturali: questo è il cosiddetto “principio di complementarità” di Bohr.
L’indeterminatezza del testo scritto è particolarmente evidente nella lingua ebraica, che come è noto è una lingua, nella sua forma scritta, essenzialmente (ma non del tutto) consonantica. Ma è possibile trovare esempi di ambiguità anche nelle lingue occidentali. Se in italiano io scrivo “ancora”, intendo ancòra o àncora? Questo è un caso di una parola scritta la cui pronuncia è incerta. In questo caso si risolve l’ambiguità attraverso il contesto, anche se non è difficile immaginare casi in cui entrambi i significati possano essere sensati. Un altro modo per distinguere fra le due opzioni è ovviamente l’uso di accenti, che in questo caso svolgerebbero una funzione analoga ai “punti” (le vocali) dell’ebraico. Ma ci può essere ambiguità anche se si conosce esattamente la pronuncia di una parola: se scrivo “partita”, intendo “partita di calcio”, o “partita di una merce”, o “partita per un viaggio”? In inglese, addirittura, una parola pronunciata in un modo può essere scritta in più modi: se dico “risids”, intendo “recede” (recedes) o “risemina” (re-seeds)?
Vediamo quindi che non sempre c’è una corrispondenza biunivoca fra parola scritta e parola orale. Chi è quindi che ci può indicare come leggere correttamente un testo scritto, e all’inverso come mettere per scritto un testo di cui conosciamo solo la pronuncia delle sue parole?
In genere si dice che il Santo Benedetto diede a Mosè sul monte Sinai due Torot, una Torà scritta e una Torà orale. Ma forse sarebbe più giusto affermare che ciascuna di queste due Torot era formata da due mezze Torot. La Torà cosiddetta scritta che Mosè ricevette era costituita da un testo scritto e da una forma orale che ne assicurava la corretta lettura. Solo dall’unione fra le due, dalla complementarità delle due mezze Torot, si poteva avere un testo completo e intelligibile. Mosè trasmise alla generazione successiva il testo scritto della Torà (una copia della quale si trovava nell’Arca Santa) unitamente alla sua pronuncia. E’ la trasmissione orale ininterrotta da maestro ad allievo che sola può assicurare la corretta lettura e comprensione di un testo. Ugualmente possiamo aggiungere che anche la Torà cosiddetta orale che Mosè ricevette sul monte Sinai, ossia l’insieme delle norme che spiegano l’attuazione pratica delle mitzwot, ha avuto alla fine una sua forma scritta, ossia la Mishnà, il Talmud e il Midrash che, dapprima tramandati oralmente, a un certo punto della storia ebraica sono stati messi per scritto. Abbiamo quindi un testo scritto che ha bisogno di essere letto per essere intelligibile (la Torà in senso stretto e il resto della letteratura biblica), e testi originalmente orali che ora sono scritti (l’insieme della letteratura talmudica) che non per questo hanno perso la loro precipua caratteristica orale. E’ forse per questo che la mitzwà della Qeriat ha-Torà (lettura della Torà) consiste nel sentire la Torà letta da un testo scritto (in altre parole, se il testo è recitato dal cantore a memoria non si esce d’obbligo); e d’altra parte, chiunque sia entrato una volta in una Yeshivà avrà visto come lo studio del Talmud si svolge a voce alta, fra due compagni che parlano (più spesso discutono) l’uno con l’altro, leggendo da grandi tomi e interpretandone il significato.
E allora, per concludere, questa complementarità fra testo scritto e orale, questa inadeguatezza del testo scritto a essere comprensibile senza essere accompagnato da una sua lettura (e spiegazione) orale, ci insegna l’importanza dello studiare con dei Maestri, che possono trasmettere l’insegnamento orale a loro volta ricevuto dai loro maestri. In questi lunghi anni di studio al Collegio rabbinico, a volte ero preso dalla tentazione di studiare da solo, per conto mio, con i libri che con il tempo ho accumulato, e ora anche con i CD-Rom, visto che in un solo CD si può trovare un’intera biblioteca di centinaia di volumi. Eppure, per quanto i libri siano importanti, fondamentali e necessari, essi non sono sufficienti: ci vuole anche il contatto diretto con il Maestro, che ha il compito di indirizzare l’allievo ed evitare che prenda degli abbagli.
Termino quindi ringraziando tutti i miei Maestri, ad iniziare da Rav G. Laras, Direttore del Collegio rabbinico, e da Rav E. Toaff, Direttore di questo istituto quando, anni fa, fui ammesso a frequentarlo, e continuando con gli altri miei Maestri, fra cui desidero ricordare in particolare Rav S. Bahbout, Rav V. Della Rocca, Rav R. Di Segni, Rav R. Klopstock, Rav M. Monheit, Rav A. Piattelli, Rav Y. Sharaby e tutti i miei compagni di studio. Come abbiamo letto l’altra settimana nei Pirqè Avot (4: 1): mikkol melammedai hiskalti (Salmi 119: 99), ho imparato da tutti coloro che mi hanno insegnato.
David Gianfranco Di Segni
(elaborazione del Devar Torà pronunciato nei giardini del Tempio Maggiore di Roma il 2 maggio 1999, 16 Iyyar 5759, in occasione dei festeggiamenti per il conseguimento della semikhà rabbinica)
(originalmente pubblicato su Rassegna Mensile di Israel dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane)