Commentando la parashah di Toledot, Rav Shimshon Refael Hirsch esprime un pensiero che avrebbe avuto molto successo nella storia dell’educazione ebraica, ma più in generale spiega un aspetto caratterizzante della nostra tradizione, nella quale i nostri modelli di riferimento sono tutt’altro che perfetti. E’ noto il principio secondo cui ma’aseh avot siman labanim – le azioni dei padri costituiscono un segno per i figli. Le narrazioni del libro di Bereshit ci forniscono dei messaggi attualissimi sulle questioni eterne dell’umanità. Il riconoscimento del fatto che esistono vari tipi di intelligenze è una acquisizione tutto sommato recente dell’umanità.
E’ interessante che lo psicologo che ha formalizzato questa idea attraverso la cosiddetta teoria delle intelligenze multiple, Howard Gardner, sia di origine ebraica. Gardner, teorico dell’intelligenza fattorialista, si oppone alla visione globalista, che considera l’intelligenza come un fattore unitario misurabile, ad esempio, tramite il Q.I. Gardner individua sette tipologie di intelligenza (logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, cinestetica o procedurale, interpersonale, intrapersonale). Successivamente, alla luce dei cambiamenti nella società odierna, avrebbe integrato altri tipi di intelligenze. Moltissime delle sue opere sono state tradotte in italiano. Come spesso avviene, nella nostra tradizione troviamo delle intuizioni notevoli considerando l’epoca in cui sono state espresse. Può essere molto semplice attribuire gli insuccessi in ambito educativo al libero arbitrio, ciascuno ha la facoltà di essere giusto o malvagio, e questa decisione spetta a lui, e non ad altri. I genitori tutt’al più, possono costituire degli esempi, ma non è detto che i figli li seguano. Se è così, le vicende dei nostri patriarchi risulterebbero pienamente comprensibili, ma questa risposta non ha soddisfatto i Maestri nei secoli.
I chakhamim infatti “non si sono mai sottratti dallo svelamento di debolezze, piccole o grandi esse siano, nei comportamenti dei nostri grandi patriarchi”. Il punto di partenza, l’enorme differenza che separa Ya’aqov da ‘Esav, risulta evidente a tutti. Questo scarto spaventoso non è frutto solo di differenti predisposizioni, ma anche della strategia educativa riservata ai gemelli. Il tema è evidentemente molto attuale, perché anche oggi nelle nostre comunità, e in modo particolare in quelle più piccole, la scelta delle strategie educative è un argomento di cruciale e di vitale importanza. Il punto di partenza di Hirsch è evidentemente il commento di Rashì, che riportando il midrash scrive che, finché erano piccoli, non erano riconoscibili per il proprio comportamento, e la gente non ne distingueva la natura. Quando compirono tredici anni l’uno si rivolse ai Batè Midrashot, l’altro all’idolatria. Nel nostro caso, quando i fratelli erano ancora piccoli, non si era fatta sufficiente attenzione alle loro tendenze ancora nascoste, e i ragazzi ricevettero la medesima educazione, dimenticando un principio fondamentale nell’educazione, chanokh lana’ar al pì darkò – educa il ragazzo secondo la sua strada. L’educazione deve essere indirizzata in modo tale da condurre il ragazzo lungo la strada destinatagli in futuro, risvegliando le tendenze assopite in fondo al suo animo, per indirizzarlo allo scopo, umano ed ebraico al contempo. Sebbene l’obiettivo ebraico sia uno, i modi attraverso il quale si realizza sono tanti e diversi, così come tante e diverse sono le predisposizioni ed i modi di vivere umani. Mettere Ya’aqov ed ‘Esav come compagni di banco, abituandoli ad una vita di studio e riflessione, vuol dire avere la certezza di rovinare uno dei due. Ya’aqov procederà progressivamente, mentre ‘Esav non farà altro che aspettare il giorno in cui potrà buttarsi dietro le spalle i vecchi libri. Se Ytzchaq e Rivqah si fossero interrogati sul modo migliore per mettere la forza e il coraggio che erano in fondo al cuore di ‘Esav al servizio di H., la storia avrebbe preso ben altra piega. Solo quando i ragazzi crebbero, tutti realizzarono con stupore che coloro che erano usciti dallo stesso grembo, erano tanto diversi nell’animo e opposti nei comportamenti. Il Midrash (Bereshit Rabbà 63) esprime quanto è avvenuto paragonandolo ad una pianta di mirto e un rovo che crescono l’uno accanto all’altro: entrambi cresceranno, ma una volta cresciuti uno darà un buon odore, l’altro delle spine. Il brano del midrash fra l’altro ha una rilevanza di natura halakhica, perché è una delle fonti principali in base alle quali si stabilisce che l’età del bar mitzwà è tredici anni, momento in cui si rivelò la vera natura dei gemelli. Da qui il Midrash impara che sino ai tredici anni ci si deve occupare del proprio figlio, e di lì in poi il padre deve dire Barukh shepeterani meoneshò shel zeh – Benedetto sia Colui che mi ha esentato dalla punizione di questo.
Sulla stessa scia di Hirsch si pone il Gaon di Vilna, l’educazione, per trovare seguito negli anni successivi, deve seguire l’inclinazione del bambino, perché in caso contrario questo, una volta cresciuto, vanificato il timore paterno, asseconderà la propria natura. Hirsch ritorna su questo discorso nell’opera Yesodot ha-chinukh (p. 53), propendendo in maniera piuttosto pronunciata per un modello educativo personalizzato. Lo scopo a cui deve tendere l’educazione è uno, preparare ad una vita di Torah e mitzwot, ma le sue possibili realizzazioni variano in base alle qualità e alle predisposizioni dell’alunno, tanto che non è possibile individuare un modello educativo – uno che sia adatto a tutti. L’esempio più evidente di quanto Hirsch dice lo troviamo, secondo R. Zvì Yehudah Kook, nelle Berakhot che Ya’qov dà ai suoi figli prima di morire, quando benedice ciascuno dei figli secondo la berakhah che più gli si addice: non vide tutti come kohanim, o studiosi di Torah, perché l’esistenza umana non si riduce a quelle dimensioni. Per questo ci sono anche re, commercianti, agricoltori, combattenti, ciascuno secondo le proprie predisposizioni, e solo in questo modo è possibile costruire un’esperienza di vita completa e rigogliosa, così come promesso ad Avraham. Pensando alla nostra piccola realtà dobbiamo quindi considerare l’insegnamento formale e frontale non come l’unica alternativa possibile. Certamente si tratta di un aspetto fondamentale e imprescindibile, ma è necessario essere consapevoli che in certi contesti e di fronte ad alcuni individui non attecchirà.
Le parole di Hirsch e del Gaon di Vilna ci impressionano positivamente, ma quello non è l’unico approccio possibile al testo. Il Midrash (Shemot Rabbà 1) ritiene che l’errore educativo di Ytzchaq sia della natura opposta, proprio quello di avere assecondato la sua natura, senza reprimerla quando avrebbe dovuto, tanto che il midrash, distanziandosi molto dalla percezione che traiamo dal senso letterale della Torah, scrive che ‘Esav “quel giorno incorse in cinque trasgressioni: approfittò di una ragazza fidanzata, uccise un uomo, negò la resurrezione dei morti, negò un principio fondamentale, disprezzò la primogenitura”, oltre a desiderare la morte del padre e cercare di uccidere il fratello, provocando la fuga di Ya’aqov. ‘Esav stesso si recò da Yshma’el per perfezionarsi nelle sue inclinazioni malvagie, come leggiamo alla fine della parashah. La constatazione del Midrash ci lascia l’amaro in bocca. Con ‘Esav la strategia educativa non conta, bisogna obbligarlo. Questa visione trova conforto dall’altro famoso midrash, che vede la competizione fra i gemelli iniziare già nel grembo materno. Due strade non conciliabili, come dirà l’oracolo divino: quando uno emerge, l’altro inevitabilmente crolla. Il Talmud Yerushalmì (Nedarim 8,3) porta alle estreme conseguenze questo discorso, tanto che scritto che ‘Esav in futuro siederà assieme agli tzadiqim nel Gan ‘Eden, e H. lo trascinerà via di lì. Maestro nell’inganno, ‘Esav da violentatore seriale qual era, arrivato a quarant’anni decide di sposarsi, esattamente come aveva fatto Ytzchaq. Era talmente tanto bravo che solo H. riesce a non cadere nell’inganno.
Tuttavia con ogni probabilità non è corretto neppure essere troppo fatalisti, e acquisire la consapevolezza che è in nostro potere in quanto genitori fare qualcosa. E’ vero che come diceva R. Tzadoq ha-Kohen di Lublino, “anche se l’uomo è dotato di libero arbitrio, l’uomo non è in grado di modificare le sue radici”, che rimangono nascoste a tutti, ma esiste la possibilità concreta di lavorare ad un livello più superficiale sulle middot. Erekh appaim ( cap. 3, nota 2) considera questo tipo di lavoro, affidato ai genitori, fondamentale. Il non intervenire su questi aspetti a partire dalla più tenera età porterà dei difetti non recuperabili per tutta la vita. In modo particolare non si deve confondere questo intervento con lo studio della Torah, perché si tratta di due aspetti distinti. A volte ci imbattiamo in bambini piccoli che mostrano di avere una predisposizione per lo studio della Torah, ed i genitori giustamente si rallegrano grandemente per il talento dei loro figli, ma crescendo questi bambini non danno seguito a quanto avevano iniziato. Molto spesso il motivo di questo abbandono è determinato dall’assenza di intervento sulle middot, giustificandosi e affermando che è ancora troppo presto per questo tipo di educazione, senza sapere che quando si vorrà poi farlo negli anni a venire, non ve ne sarà più la possibilità. Nella formazione della psiche di un essere umano l’abitudine svolge un ruolo fondamentale. Se non si sfrutta l’opportunità di abituare il bambino finché se ne ha la possibilità, successivamente sarà molto difficile, se non impossibile, cambiarlo. Il Gaon di Vilna si dilunga nel suo commento al Mishlè nello spiegare il verso chanokh lana’ar. Anche lui è d’accordo nel dire che l’uomo non può spezzare il proprio destino, ma d’altra parte è possibile indirizzarlo: un individuo con un temperamento sanguinario può decidere, assecondando la propria natura, di divenire un mohel, un macellaio, o un brigante, ma evidentemente la scelta di essere uno tzadiq o meno rimane in mano sua. Nella nostra storia troviamo un personaggio che mostra inclinazioni simili a quelle di ‘Esav, David ha-melekh, tanto che quando Shemuel lo vide temette per via dei suoi tratti caratteriali, ma come sappiamo si rivelò un profilo completamente diverso. Admonì sì, esattamente come ‘Esav, ma anche ‘im yefè ‘enaim, a disposizione del Sinedrio che lo indirizzava, così come insegnano i chakhamim.
Nel suo commento a Bereshit (cap. 21) Hirsch, con il suo stile inconfondibile, spiega l’origine del termine na’ar, ragazzo. La sua radice è il verbo lena’er, che significa scuotersi di dosso. I giovani vogliono progredire in modo indipendente dalle influenze esterne, e tendono a non assimilarle, buone o cattive esse siano. I giovani si ribellano, questa è la loro natura e la loro bellezza. Non per questo devono essere considerati malvagi, alcuni di loro cercano di fiorire, altri no, ma il punto di partenza è che non ci sono dei ragazzi che siano naturalmente malvagi. Le cattive inclinazioni trovano spazio per emergere solo quando hanno terreno fertile per via di un’educazione, familiare e scolastica, inadeguata. Per contrastare questa eventualità l’unico strumento che è a nostra disposizione è quello di crescere, con l’aiuto del Cielo, dei bambini, senza affidarsi al destino, dicendo “quando saranno grandi decideranno”, perché allora sarà già troppo tardi.