Rav Alberto Moshe Somekh – serata Kesher – Milano – 24/10
Rispondendo a chi gli domandava se si potessero trovare nella Torah raccomandazioni per un regime politico o economico piuttosto che un altro, il Rav Chayim David ha-Levy di Tel Aviv (‘Asseh lekhà Rav, 3, 56) dice risolutamente di no. “Persino il brano relativo alla nomina del Re –scrive- è così oscuro da aver generato una controversia se si tratti di una Mitzwah o di un atto semplicemente consentito (reshut). E sebbene la Halakhah sia stata stabilita secondo l’opinione che è una Mitzwah, molti commentatori successivi si sono espressi in modo molto critico sul regime monarchico”.
La Torah non interviene nell’assetto che di volta in volta gli uomini danno alla società. Il Rav dà di ciò due motivazioni. 1) Il regime politico si presta a continui cambiamenti da un periodo storico all’altro, in contrasto con la Torah che è eterna. 2) La Torah non ha voluto imporre al popolo un regime specifico per quegli aspetti della vita pubblica che esulano dalle Mitzwot. Leggendo i versetti relativi alle prescrizioni “sociali” potremmo essere indotti erroneamente a pensare che la Torah sia un sistema politico. O meglio, che tutti i programmi politici che dichiarano di farsi carico della solidarietà umana trovino ipso facto immediato avallo nella Torah. Non è così. Chi giudica un elaborato della mente umana al livello della Torah finirà prima o poi per concedersi l’inverso: giudicherà la Torah alla luce della propria mente. La Torah non è un partito. La Torah non è ideologia. La Torah è Torah e basta.
Un sistema di assetto globale della società come quello che prescrive l’anno sabbatico e il giubileo potrebbe essere scambiato per un programma politico ottimale. Per questa ragione viene ribadito che anch’esso, come tutti gli altri precetti della Torah, ha avuto origine sul Monte Sinai. E’ opera di H. e nulla di umano può essere paragonato alla Torah di H.
Berit, “patto”: dal diritto al dovere.
Nella tradizione ebraica l’idea di comunità non nasce meramente dall’esigenza di soddisfare necessità cui il singolo non è in grado di far fronte da solo.
All’Ebraismo il problema… se l’uomo sia una creatura autosufficiente… non interessa. L’Ebraismo presenta una domanda mirata in modo completamente diverso. Se l’immagine di Dio sia stata donata ad un uomo isolato e solitario o ad un uomo immerso in una struttura di relazioni sociali. Dove trova l’uomo la sua vera identità: nel ritirarsi dalla società o viceversa nella compagnia? La Comunità dell’Ebraismo non è una Comunità funzionale-utilitaristica, ma ontologica… Non è una somma di singoli, bensì una realtà indipendente dotata di vita autonoma… ha una sua propria personalità, può essere definita perfezione vivente (J.B. Soloveichik, Ha-qehillah (La Comunità), in “Divrè Hagut we-ha’arakhah”, World Zionist Organization, Gerusalemme, 1982, p. 224-225).
Alla base di ciò vi è la nozione di Patto (Berit), termine mediante il quale si intende un tipo di relazione per più aspetti diversa da quella contrattuale che regola, per esempio, una società d’affari. La prima differenza sta nel fatto che nel Patto il contraente con cui entriamo in relazione è la Divinità stessa, e non un altro essere umano. Il Patto non richiede all’individuo di assumersi obblighi verso altri uomini, almeno in prima istanza. Richiede piuttosto, in molti casi, che egli adempia ad una serie di obblighi verso Dio che si esplicano in specifici comportamenti verso l’uomo. La seconda caratteristica che distingue il Patto da un contratto è che il primo è per sua natura incondizionato: non si ammettono circostanze che possano giustificare un’abrogazione neppure parziale del Patto stesso e degli obblighi che ne derivano. Ma la terza differenza è forse quella più significativa.
Il contratto sociale che è generalmente considerato la base di una società democratica mette l’accento sui diritti dai quali, per assicurare la pari opportunità degli altri di godere degli stessi diritti, essa deduce gli obblighi. Una società contrattuale è perciò orientata verso i diritti. In una comunità basata sulla nozione di Patto, invece, gli obblighi derivano non dai diritti, ma dall’essenza stessa del Patto; è quindi orientata verso gli obblighi (Sol Roth, The Jewish Idea of Community, Yeshiva University Press, New York, 1977, p. 88).
Questo conduce a determinate conclusioni. In una società rights-oriented il fattore che determina l’accettazione degli obblighi è, in ultima analisi, l’interesse personale. Quest’ultimo si giustifica a sua volta per essere connesso con il benessere dei contraenti. Se si ragiona solo in questi termini, quando l’interesse personale cessa, anche la coesione del gruppo viene meno. Al contrario, in una società obligation-oriented gli obblighi sono totalmente separati dalla nozione di interesse personale. Se il fine della comunità prescinde dall’interesse individuale delle parti, allora essa si mantiene più a lungo. Infatti,
se gli obblighi sono radicati negli interessi delle parti mutano con il mutare della percezione degli interessi stessi. D’altronde, se gli obblighi derivano dal commitment hanno una permanenza maggiore, e così il carattere della vita comunitaria.
Innato senso morale dei cittadini: il modeh be-miqtzat.
Il diritto ebraico dà per scontato, fino a prova contraria, un innato senso morale dei cittadini. Saranno sufficienti qui due esempi: a) In una causa per debiti il Talmud richiede al presunto insolvente di giurare di aver pagato solo nel caso in cui ammette di dover ancora una parte della somma (modeh be-miqtzat); se invece afferma di non dovere nulla è esente (Bavà Metzi’à 3b). “The Rabbis could not imagine the existence of a person who simply does not want to pay; one could only be attempting to delay the date of payment” (M.A. Amiel, Ethics and Legality in Jewish Law, The Rabbi Amiel Library, Gerusalemme, 1992-5752, p. 7); b) Non è lecito condannare una persona solo sulla base della sua confessione, in quanto si parte dal presupposto che “nessuno si faccia passare per malvagio” (Yevamot 25b; Sanhedrin 9b): occorrono perciò almeno due testimonianze. E’ evidente come questo principio renda di fatto vana qualsiasi procedura volta ad estorcere una confessione all’imputato, elevando notevolmente lo standard morale delle procedure giudiziarie stesse.
Solo il ritiro della merce perfeziona l’acquisto.
Mishnah Bavà Metzi’à 4,2. La Halakhah segue l’opinione di Rabbì Yochanan per cui sebbene secondo la Torah il pagamento perfeziona l’acquisto, nel caso di un bene mobile i Chakhamim hanno stabilito che solo il ritiro della merce deermina il passaggio di proprietà, per evitare che il venditore dica “il grano che hai acquistato e non hai ritirato si è bruciato nel mio solaio”: solidarietà nei rapporti commerciali aldilà dell’utile personale. La conseguenza è che se la frutta è stata già consegnata l’acquisto è perfezionato anche se non è ancora stata pagata, e i soldi sono un debito dell’acquirente. Se la frutta non è stata consegnata si può recedere dalla compravendita anche se è già stata pagata, ma in tal caso chi recede incorre nella maledizione del Bet Din: “Colui che ha punito la Generazione del Diluvio e dagli Egiziani punirà chi non mantiene la parola data” (mi she-parà’ mi-Dor ha-Mabbul u-min ha-Mittzrim she-tav’ù ba-yam, Hu yipparà’ mi-mi she-eynò ‘omèd be-dibburò). Nel caso del Faraone il riferimento è chiaro: per nove volte aveva promesso di non liberare gli Ebrei e si era rimangiato. Secondo un Midrash questa è stata la colpa del Dor ha-Mabbul (chamas): non una trasgressione formalmente definita, ma un comportamento riprovevole. Lo si impara da un confronto con la Generazione della Torre di Babele (Dor ha-Pallagah) di cui il versetto dice Wahi ha-aretz safah achat u-dvarim achadim. Essi furono puniti solo con la dispersione, mentre il Dor ha-Mabbul con l’annegamento. Perché? 1) Avevano trasgredito solo contro D. e non contro l’uomo: D. tollera più facilmente offese al Suo Nome fintanto che gli uomini vanno d’accordo fra loro. 2) Il Dor ha-Mabbul manteneva la parola data e non la mutava (Chadre Baten).
Ghenevat Da’at: il “furto della mente”.
Una forma di furto particolare di cui si parla nelle nostre fonti è la ghenevat da’at, lett. “sottrazione della mente altrui” o circonvenzione. Il divieto consiste nel far credere all’altro di avergli fatto un favore, quando non è così. “Qualsiasi azione, qualsiasi parola tramite le quali suscitiamo negli altri un’opinione di noi stessi più elevata di quella che realmente meritiamo, o ci guadagniamo più gratitudine di quella che veramente ci spetta, rientra nel divieto di ghenevat da’at” (Sh. R. Hirsch, Chorèv, par. 373).
“Non è concesso a nessun individuo di limitare la corretta capacità di valutazione di altre persone sia nel business che nelle relazioni interpersonali… Nel Talmud (Chullin 94a-b)… “afferma Shemuel: è vietato rubare la mente di qualsiasi individuo, sia esso ebreo o non ebreo”… Una persona non potrebbe invitare a un pasto un’altra sapendo da principio che quest’ultima rifiuterà;… è altresì fatto divieto di aprire una bottiglia di vino davanti ad una persona facendole credere di averla aperta appositamente per lei quando in realtà la bottiglia andava già aperta per altri motivi. Il Talmud ammette solo una deroga ai precedenti casi: vale a dire allorquando le reali intenzioni consistano nel conferire onore all’ospite.
“La ghenevat da’at trova applicazione, quindi, non solamente qualora l’inganno causi una perdita economica nella controparte, ma in tutti i casi in cui si generano false impressioni nel prossimo. Risulta interessante notare come, tra gli obblighi che ricadono sul venditore, non vi sia il fornire tutte le notizie in suo possesso ma solo quelle che, se non trasmesse, distorcerebbero la realtà. Viene riportato nel Talmud l’esempio di un macellaio il quale vende della carne non-kasher (e quindi non consumabile da parte di un ebreo) a un non-ebreo. Il suddetto cliente si rifornisce dal macellaio in questione principalmente perché vende kasher. La vendita in questione avviene quindi in un modo diverso da quello che si aspetta il cliente: egli si aspetta di acquistare carne kasher e invece, a sua insaputa, gli viene fornito un prodotto diverso. L’acquirente non-ebreo non viene in realtà danneggiato da tale acquisto (in quanto non ha comunque l’obbligo di mangiare cibo kasher come invece avrebbe un ebreo); inoltre non subisce danno o perdita economica acquistando della carne non kasher pur credendola kasher. Nonostante ciò, il semplice fatto che il macellaio non fornisca le informazioni necessarie e crei quindi delle false aspettative nel cliente (convinto di aver acquistato carne kasher) rientra nella regola della ghenevat da’at” (Gheula Canarutto, “Responsabilità sociale ed etica ebraica”, Egea, Milano, 2006, p. 19).
Zeh neheneh we-zeh lo chasser: “uno gode senza che l’altro ci perda”.
Il pensiero ebraico riconosce l’esistenza della proprietà privata, ma attraverso dei limiti. Il diritto romano definì la proprietà come “la prerogativa di disporre dei propri beni secondo la propria volontà”. Nel diritto ebraico il padrone non può fare con i suoi beni tutto ciò che vuole. Si prenda per esempio la seguente controversia talmudica. “Se uno occupa lo spazio di un altro a sua insaputa e la proprietà in questione non viene di solito affittata, che cosa accade? Può l’occupante dire al padrone “non ti faccio perdere alcun guadagno” e rimanere sul posto gratuitamente? Può invece il padrone dire all’occupante “hai tratto beneficio” e quindi esigere un pagamento?” (Bavà Qammà 20b). In nessun sistema legale convenzionale potremmo immaginarci un interrogativo simile. L’assioma secondo cui il proprietario ha poteri illimitati sull’oggetto di sua proprietà è un fondamento del diritto. Egli non solo ne controlla l’uso, ma può anche impedire ad altri di derivare benefici dalla sua proprietà. Argomentazioni come: “che perdita ti ho causato?” o “che danno ti ho provocato?” sono inconcepibili in questo caso.
Ebbene, il diritto ebraico la pensa diversamente. Nel trattato Avot è scritto che “chi dice: ‘Ciò che è mio è mio, ciò che è tuo è tuo” è un mediocre. Secondo una tradizione era questo il comportamento comune fra gli abitanti di Sodoma (5, 16). La tradizione ebraica ritiene che nel nostro caso l’occupante non ha l’obbligo di versare alcun affitto, dal momento che “gode del terreno senza provocare alcuna perdita o danno al padrone”, il quale aveva comunque rinunciato a trarne beneficio. Non si può ridurre tutto a profitto. Credo che se provassimo a ragionare in questo modo su scala mondiale, mettendo a disposizione gratuita dei meno fortunati i nostri beni sfitti, sui quali comunque abbiamo rinunciato in partenza a percepire guadagno alcuno, compiremmo grandi passi avanti verso una più equa distribuzione delle ricchezze e delle risorse a livello planetario. Contribuiremmo al benessere di tanti nostri fratelli realizzando l’ideale biblico: tzedeq, tzedeq tirdòf, “la giustizia, la giustizia perseguirai” (Deut. 17,20). Come si giustifica la ripetizione? Un commentatore rilegge il versetto nel modo seguente: “la giustizia con la giustizia perseguirai”. Nel pensiero ebraico il fine non giustifica i mezzi. Fini giusti possono essere perseguiti solo tramite mezzi giusti.
Le Mattenot ‘Aniyim
Queste prescrizioni vogliono costantemente risvegliare la nostra attenzione sugli strati meno fortunati della società, i poveri e i disagiati. Non si tratta di buoni propositi, ma di veri e propri obblighi nei loro confronti. Mi soffermerò sui tre versetti seguenti.
Devarim 15,7-8: “Quando in mezzo a te si trovi un povero, uno dei tuoi fratelli in una delle città del tuo paese che il Signore ti concede, non dovrai indurire il tuo cuore né chiudere la tua mano al tuo fratello povero. Dovrai invece aprire a lui la tua mano e prestargli quanto ha bisogno, ciò che gli mancherà”.
Wayqrà 19, 9-10: “E quando eseguirete la mietitura nel vostro paese non mietere del tutto l’angolo del tuo campo (peah), né raccogliere le spighe cadute durante la mietitura (leqet), non racimolerai la tua vigna (‘olelot), né raccogliere i chicchi caduti nella tua vigna (peret): li lascerai al povero e allo straniero; Io sono il S. vostro D.”
Devarim 24,19: “Quando mieterai il tuo campo e avrai dimenticato un covone, non tornerai indietro a raccoglierlo (shichkhah): sarà per il forestiero, l’orfano e la vedova, affinché ti benedica il S. tuo D. in ogni tua azione”.
E’ difficile tuttavia pensare che le Mattenot ‘Aniyim in quanto tali rispondano semplicemente a un programma politico di assetto sociale. Questi obblighi non hanno come unica finalità quella di aiutare il prossimo in difficoltà. 1) Colpisce anzitutto il fatto che le Mitzwòt in questione sono diversificate fra loro: quasi ogni stadio della produzione agricola si caratterizza con un precetto per conto proprio. Prima del raccolto vi è la Mitzwah della peah: lasciare l’angolo del campo non ancora mietuto a disposizione dei poveri; durante la mietitura vi è l’obbligo del leqet: lasciare le spighe cadute affinché i poveri le raccolgano; dopo la mietitura vi è il precetto della shikhchah: lasciare a disposizione dei bisognosi i covoni eventualmente dimenticati nel campo (Devarim 24,19). Se lo scopo fosse meramente affrontare problemi socio-politici non si spiegherebbe perché la Torah non abbia concentrato questi obblighi in una sola prescrizione. 2) Non tutti i precetti agricoli sono solo a tutela dei poveri, almeno esplicitamente. Si pensi ancora alle decime destinate ai Leviti, alla classe sacerdotale e agli abitanti di Yerushalaim (Devarim 14,22; 18,4); al divieto di mangiare il frutto dei primi tre anni dalla piantagione dell’albero (‘orlah); all’obbligo di presentare annualmente le primizie (bikkurim) al Santuario (Devarim 26,1 sgg.), alla prescrizione dell’anno sabbatico e del giubileo (Wayqrà 25,1 sgg.). 3) Tutti i versetti relativi fanno riferimento più o meno esplicito alla terra e alla sua proprietà. 4) Sono tutti obblighi passivi, o più esattamente, situazioni nelle quali viene chiesta al padrone della terra una recessione. 5) D’altronde anche i poveri sono chiamati a prender parte ai benefici loro destinati, questa volta come parte attiva: nel caso della peah, p. es., non potrà essere il padrone del campo a raccogliere per loro la parte loro spettante, ma dovrà lasciare che siano i bisognosi a farlo per sé (Cfr. Sefer ha-Chinnukh, prec. 203). A questi ultimi era dunque richiesto di chinarsi a raccogliere e a spigolare da soli con grande sforzo, affrontando l’eventuale concorrenza. A tale fine la Mishnah proibisce p.es. l’uso di falci e scuri affinché non si facessero male a vicenda (Peah 4,4).
E’ evidente che lo scopo di queste prescrizioni è anzitutto pedagogico: educare i membri del popolo ebraico, quali che fossero le loro possibilità economiche, a due valori, uno etico, l’altro religioso: ritrarsi dinanzi ai beni materiali e riconoscere che il vero Padrone del mondo non è l’Uomo, bensì D., che ha concesso la Terra alla collettività e il singolo Campo al privato, “D. dei mietitori e D. degli spigolatori” (Sforno a Wayqrà 23,22). Nonostante lo sforzo che investi nel coltivare la Terra, c’è una parte della tua proprietà che non ti appartiene…
Tzedaqah e Mishpat
La Mishnah Peah, 4, 10-11: sviluppa ulteriormente il diritto. “In che cosa consiste il Leqet (spigolatura)? Ciò che cade nel mietere (bi-sh’at ha-qetzirah). Se uno taglia un manipolo, o raccoglie una manciata, e uno spino lo punge, per cui gli cade a terra dalla mano, (anche ciò che cade) appartiene al proprietario (perché la caduta è avvenuta successivamente alla mietitura). Ciò che cade dall’interno della mano e della falce (appartiene) ai poveri; dal dorso della mano e della falce appartiene al proprietario; dalla estremità della mano e della falce R. Ishma’el dice: “Ai poveri”; R. ‘Aqivà dice: “Al proprietario”. (…) R. Meir dice invece: Tutti appartengono ai poveri, perché ciò di cui si dubita che sia Leqet, va comunque considerato Leqet (safeq leqet leqet – la Halakhah segue l’opinione di R. Meir)”.
Nel Talmud Bavlì Chullin 134a Reish Laqish si interroga sul significato del versetto: ‘anì wa-rash hatzdiqu, “fate Tzedaqah (favorite) al povero e al misero” (Tehillim 82,3)? Certamente non può riferirsi ai processi, perché in questi casi è richiesta l’imparzialità assoluta, essendo scritto: lo tatteh mishpat evyonekhà be-rivò, “Non inclinate il Mishpat (a favore) del povero nella sua contesa” (Shemot 23,6)? La conclusione è che siamo di fronte a due diverse applicazioni del concetto di giustizia. Si deve cioè distinguere fra giustizia nei processi (ciò che la Torah chiama Mishpat) e giustizia sociale (ciò che la Torah chiama Tzedaqah): “Non avrai per lui riguardo nella sua contesa, ma avrai riguardo per lui nelle donazioni che gli spettano”.
Scrive a questo proposito Malbim (acronimo di Meir Loeb ben Yechiel Mikhael, celebre Rabbino ed esegeta ottocentesco), nel suo Comm. “Ha-Torah we-ha-Mitzwah” a Wayqrà 19, n. 22: “Fra Mishpat e Tzedeq c’è differenza. Il Mishpat è oggettivo e non prende in considerazione eventuali circostanze attenuanti: “che la sentenza trapassi pure la montagna! (yiqqòv ha-din et ha-har)”. Lo Tzedeq implica invece uno sbilanciamento, rispetto alla linea del Mishpat, verso le regole della giustizia riequilibratrice, che richiedono di prendere in considerazione le circostanze, il caso in tutti i suoi aspetti, principi di rettitudine, ecc. Secondo il Mishpat puro e semplice, ove vi sia un dubbio si applica il principio: “Colui che pretende qualcosa dalla controparte deve provare di averne il diritto” (ha-motzì me-chaverò ‘alaw ha-reayah), altrimenti i soldi o i beni in questione restano per presunzione nelle mani di chi li detiene (ma’amidim be-chezqat ha-be’alim). Se così ragionassimo nel nostro caso, ciò di cui si dubita sia Leqet dovrebbe rimanere al proprietario del campo. Ma quando parliamo di poveri, a meno che non si tratti di un processo, si deve inclinare dal Mishpat allo Tzedeq “al di là della lettera della legge” (lifnim mi-shurat ha-din) e attribuire ai poveri anche ciò di cui si dubita che sia Leqet, perché non si tratta qui di risolvere una contesa (Mishpat), ma è una questione di Tzedaqah. C’è chi lo impara dal versetto di Wayqrà: “li lascerai al povero e allo straniero”; e c’è chi lo impara dal versetto in Devarim: “sarà per il forestiero, l’orfano e la vedova”. In realtà i due versetti si completano a vicenda. Il versetto “li lascerai…” ci insegna l’abbandono del Leqet da parte del proprietario del campo, che è l’inizio della procedura di trasferimento, mentre l’altro versetto: “sarà per il forestiero…” ci insegna l’ultima parte della procedura, ovvero l’acquisizione del Leqet da parte dei poveri”.
Viviamo oggi in una congiuntura economica difficile. Queste parole devono essere lette come uno spunto di ispirazione nei confronti di chi è meno fortunato di noi. Potrebbe trattarsi di tante persone che ci circondano, e forse non levano neppure la propria voce. La Torah ci spinge alla solidarietà e alla condivisione delle risorse disponibili, nei limiti del possibile. Ma il primo passo da compiere in questa direzione consiste certamente nell’abbattere le barriere del proprio ego. Come insegnava Hillel: “Se io non sono per me, chi sarà per me? Ma se io sono solo per me, che cosa sono io? E se non ora, quando?” (Avòt 1,15).