Per l’80° compleanno del’Ing. Franco Segre
ויעתק משם ההרה מקדם לבית אל ויט אהלה
“Si mosse da lì verso il monte davanti a Bet El (lett. “Casa di D.”) e piantò la sua tenda” (Bereshit 12,8). “Da lì”, dove? Conosciamo già il luogo di partenza dai versi precedenti! Non sarebbe bastato che qui si scrivesse semplicemente: “Si mosse”? Dobbiamo dedurre che mi-sham, “da lì”, contenga un’allusione differente. Quale?
Vi è una particolare Mitzwah della Torah che prevede che chi abbia dimenticato un covone nel campo durante le operazioni di imballo del grano non torni a riprenderselo, ma lo lasci ai poveri. E’ la Mitzwah della Shikhchah: come dice la parola stessa, essa viene osservata solo nella misura in cui il covone in questione sia stato effettivamente lasciato sul campo per dimenticanza. In caso contrario siamo liberi di tenercelo ovvero di dedicarlo lo stesso ai poveri, ma non stiamo osservando questa particolare Mitzwah. La Torah stabilisce che una regola analoga vada adottata anche in relazione alla raccolta della frutta sugli alberi. “Quando batti i rami dell’olivo non puoi raccogliere i frutti che sono rimasti dietro di te: rimarranno per lo straniero, l’orfano e la vedova” (Devarim 24,20).
Non tutti gli alberi, peraltro, si prestano a essere considerati “dimenticati”. I criteri in proposito sono fissati dalla Legge Orale. La Mishnah (Peah 7,1) stabilisce per esempio che se un certo albero è particolarmente conosciuto non va considerato “dimenticato” neppure se appare tralasciato, perché si presume che sia comunque presente nella coscienza dell’agricoltore e i frutti sono suoi in ogni caso. I parametri che fanno dell’albero in questione un’entità indimenticabile sono tre: che l’albero sia noto 1) in relazione al luogo (maqom) in cui si trova; 2) in relazione a un nome (shem) particolare che gli è stato attribuito; 3) per l’abbondanza dei suoi prodotti (ma’assim).
Nel Salmo dello Shabbat leggiamo: צדיק כתמר יפרח “il giusto fiorirà come una palma” (92,13). Un antico Midrash spiega che talvolta anche nella Torah si adopera l’immagine dell’albero non in modo letterale, ma per indicare il giusto. Così Rashì spiega, per esempio, l’invito rivolto da Moshe agli esploratori affinché verifichino se nella Terra d’Israele vi fosse un albero. Presa alla lettera, la richiesta suona strana: è ovvio che qualsiasi terra contiene almeno un albero. Perché proprio un solo albero al singolare? Perché Moshe ha usato qui una metafora: “Controllate se vi sia un uomo per bene (adam kasher) che con i suoi meriti sia in grado di proteggere gli altri” (a Bemidbar 13,20), proprio come un albero ricovera sotto le sue fronde i passanti e, in un clima come quello di Eretz Israel, fornisce loro ombra coprendoli dal sole cocente.
Avraham, di cui si parla per la prima volta nella Parashah odierna, rispondeva a tutti questi requisiti. Non solo ospitava i viandanti nella sua tenda e dava loro da mangiare “sotto l’albero”, come avverrà con i tre angeli, ma perorava la causa dei malvagi dinanzi al Giudizio Divino, come accadrà con Sodoma e Gomorra. Di più. Se dovessimo domandarci che tipo di albero fosse Avraham in relazione alla Mitzwah della Shichkhah diremo senz’altro che la giustizia di Avraham fa di lui un albero importante e quindi non soggetto a essere dimenticato. Egli si distingueva per il luogo (maqom) in cui si era stabilito, Eretz Israel. Se fosse rimasto in Babilonia, sua terra d’origine, la luce della sua personalità non avrebbe brillato. Egli si distingueva per il suo nome (shem), come testimonia il versetto: ואגדלה שמך “renderò grande il tuo nome” (Bereshit 12,2). Infine la sua memoria è strettamente legata alla grandezza delle sue azioni (ma’assim). Le iniziali delle tre parole ebraiche in questione, la mem di maqom, la shin di shem e l’altra mem di ma’assim, formano il termine mi-sham. Il versetto “Si mosse da lì” non contiene dunque un’informazione geografica. Ci riferisce che Avraham nostro Padre dovunque si spostasse recava con sé la propria grandezza che lo rendeva indimenticabile agli occhi di chiunque lo incontrasse.
Molti luoghi hanno ancora oggi una figura che ci ricorda Avraham Avinu, una personalità che con i suoi meriti vigila su tutta quanta la Comunità e lega la propria storia personale indissolubilmente a quella del posto in cui vive. Tanto più se si tratta di una città come Torino, ricca di tradizioni, il cui nome “procede dinanzi a lei” ed è noto per la sua grandezza nelle virtù dell’intelletto e della cultura. E se a ciò si aggiunge la passione per le stupende montagne che la circondano, il quadro si arricchisce notevolmente. A tutto questo parrebbe alludere nel nostro versetto il termine ha-hàrah “verso il monte”, leggibile con un po’ di ardimento quasi come se fosse… Piemonte! Ma accanto al luogo, non sono meno importanti il nome e le opere. Parliamo di una personalità impegnata soprattutto nell’avvicinare le persone all’Ebraismo e nel difendere strenuamente i minhaghim del Bet Et, la “Casa di D.”, il Bet ha-Kenesset della sua città. Il nome Segre, a sua volta, potrebbe essere messo in relazione con la radice s.g.r. di misgheret, il termine usato nella Torah per designare la corona che fregiava tutto intorno i bordi superiori di alcuni arredi del Mishkan, il Tabernacolo nel Deserto (cfr. Shemot 25,25).
Nello scrivere ויט אהלה “e piantò la sua tenda”, infine, il versetto denuncia una stranezza: ci saremmo aspettati la scrittura con la waw אהלו che alludesse alla tenda di lui e invece la parola termina con la he come se parlasse della tenda… di lei! A cogliere la sfumatura il commento di Rashì. Ogni volta che si spostava –spiega- Avraham si dedicava a piantare la tenda di Sara prima della sua propria. Accanto a ogni grande uomo c’è una grande donna…
Caro Franco, a 80 anni Moshe Rabbenu trasse il nostro popolo fuori dall’Egitto. Hai ancora tanti meriti davanti a Te da acquisire e da far acquisire. Nel ringraziarTi per quanto hai fatto finora noi Ti auguriamo ogni successo e ogni bene possibile, con l’auspicio di ritrovarci fra quarant’anni a festeggiare insieme a Te e Alda una nuova puntata di questo viaggio avvincente. Con affetto.