Shaykh ‘Abd al-Wahid Pallavicini
Intervento di Rav Ariel Di Porto – Circolo dei Lettori – 28/3
Buonasera a tutti, ringrazio per il cortese invito alla presentazione di oggi del libro dell’imam Pallavicini dal titolo “Il nome di D. nell’Islam”, concentrandomi in particolare sul settimo capitolo, “Il monoteismo abramico contro il terrorismo”.
Il discorso dell’imam, pronunciato a Treviso nel settembre 2015 nella Sala conciliare del Palazzo dei Trecento, in occasione della conferenza, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri “Libertà di coscienza, di pensiero e di religione: quali limiti al progresso sociale, economico e culturale?”, si interessa principalmente del problema del riconoscimento reciproco delle religioni monoteistiche come chiave per contrastare la strumentalizzazione del discorso religioso, che vede come conseguenza l’insorgere del fenomeno del terrorismo, concentrandosi sul diabolus, ciò che divide, piuttosto che riferirsi al symbolum, ciò che unisce.
Ciò che si deve contrastare, secondo l’imam, è “l’esclusivismo confessionale”, e per questo è necessario che ciascuna religione – il discorso è riferito principalmente alle tre fedi monoteistiche – affermi la validità salvifica di ogni Rivelazione. Affrontando questo tema l’imam si riferisce anzitutto alla Chiesa cattolica, riferimento principale nel volume. La Chiesa, con la dichiarazione Nostra aetate del 1965 ha effettuato un importante passo in avanti, individuando elementi di verità anche nelle religioni non cristiane e riconoscendone la validità. Questo passaggio è notevole, perché tocca uno dei capisaldi che hanno orientato la storia dell’Occidente per quasi due millenni e lascia spazio, dal punto di vista teologico, al passaggio da una visione esclusivista della fede ad una inclusivista, che considera ancora la propria via come la più adeguata, senza per questo dichiarare che le altre vie siano a loro volta necessariamente false. Da vari anni molti teologi cristiani sono impegnati su questo fronte, anche alla luce dello sviluppo del dialogo interreligioso, e, a dispetto dei risultati altalenanti, sta lentamente e faticosamente arrivando alla revisione di alcune posizioni.
E’ interessante sviluppare questo tema anche da un punto di vista ebraico, avvalendomi principalmente delle riflessioni di uno dei rabbini che più ha affrontato questo tema negli ultimi decenni, Rav Jonathan Sacks, ex rabbino capo del Commonwealth, autore del best-seller Not in God’s name sul fenomeno del fondamentalismo religioso, pubblicato due anni fa, e di un altro testo meno conosciuto, ma altrettanto interessante, dal titolo Future tense, oltre al libro, tradotto in italiano, La dignità della differenza, che si interroga sulle strategie da adottare per evitare lo scontro di civiltà nel mondo contemporaneo.
Probabilmente è superfluo ricordare come gli ebrei nel corso della loro storia, in duemila anni di Diaspora, abbiano ampiamente pagato un conto molto salato a causa dell’idea dell’esclusivismo confessionale. Tuttavia si deve notare un fatto, che le persecuzioni nei confronti del popolo ebraico, che è vissuto nei secoli in molti contesti differenti fra di loro, confrontandosi con varie e numerose civiltà, sono state perpetrate nell’ultimo millennio pressoché totalmente in società influenzate dal Cristianesimo e dall’Islam, mentre ad esempio in Cina e in India non c’è praticamente mai stato antisemitismo.
Semplificando il discorso ed enunciandolo per sommi capi, la radice di questo fenomeno ha delle solidi basi teologiche, derivanti anzitutto dall’individuazione di una radice comune nella figura di Abramo, e il superamento della religione più antica con l’insorgere della nuova. Come conseguenza i fedeli della vecchia religione sono considerati inferiori e disprezzati dalla divinità, con ripercussioni politiche notevoli. Agostino per esempio giustificava l’esilio del popolo ebraico, perché questo veniva identificato con Caino, destinato a girovagare per la terra. E’ possibile pertanto che la radice dell’odio e della persecuzione possa risiedere in un elemento accomunante. Differenze che in momenti di tranquillità non vengono neanche notate, in situazioni di tensione possono portare a tremendi sconvolgimenti.
Per molti secoli l’unico modo per trovare un proprio posto ed una propria dimensione, spirituale e fisica, per gli ebrei era quello della conversione. Gli ebrei hanno avuto la tenacia di affermare con vigore la richiesta di rispettare la propria differenza, contrastando l’assimilazione e l’imposizione di valori, credenze, sensibilità e rituali provenienti dal mondo circostante. Questa tenacia ha contribuito a condurre il mondo circostante, in primis quello cristiano e islamico, a riabilitare il valore della tolleranza.
Da un punto di vista teologico c’è un altro aspetto importante da sottolineare: il Cristianesimo e l’Islam si presentano come monoteismi universali, l’ebraismo come un monoteismo particolare. Levinas in Difficile libertà scriveva che il significato del giudaismo è forse nel fatto che la tolleranza possa inerire alla religione senza che quest’ultima perda la sua esclusività. Le conseguenze di questo assunto sono notevoli. L’ebraismo non si dichiara l’unica via possibile per ottenere la salvezza. E’ risaputo che la dottrina rabbinica desume dalle fonti due vie di accesso alla salvezza, una, la Torah, destinata al popolo ebraico, ed una, quella dei sette precetti noachidi, riservata a tutto l’umanità. Questi precetti sono: il divieto di ogni culto estraneo a quello monoteistico, il divieto della bestemmia, l’obbligo di costituire tribunali, il divieto dell’omicidio, del furto, dell’adulterio e dell’incesto e il divieto di mangiare parti strappate ad animali in vita. Secondo la tradizione ebraica i Giusti delle nazioni, coloro che aderiscono a questi principi generalissimi, hanno parte nel mondo futuro. Per essere buono o saggio non serve essere ebreo. Il D. di Israele è il D. di tutti, ma la religione di Israele non è la religione di tutti. Come è noto, il mondo ebraico è stato sempre riluttante ad accettare proseliti, tanto da apparire chiuso al mondo esterno. Secondo la visione dei profeti alla fine dei giorni le nazioni del mondo non abbracceranno l’ebraismo e le sue complesse regole, ma semplicemente riconosceranno D. L’ebraismo non mira a convertire nessuno. Per ottenere la salvezza non è quindi necessario sottoporsi a tutti i comandamenti che il popolo ebraico deve rispettare.
Fra i molti elementi in comune, questo aspetto non è confluito nelle altre fedi, ed effettivamente è più logico così. Infatti, se D. è il D. di tutti, deve essere portatore di una verità universale, che riguarda tutti indistintamente allo stesso modo. Secondo la visione ebraica non è però così: universale e particolare rimangono in tensione e convivono. Ma perché, se l’ebraismo si considera, al pari degli altri, portatore di un messaggio veritiero, non deve porsi l’obiettivo di convertire gli altri all’unica vera fede?
Secondo la Bibbia l’universale si trova solo all’inizio e alla fine della storia umana. I primi undici capitoli della Genesi e la fine dei giorni. Quello che c’è in mezzo è dominato dalla molteplicità. Molteplicità di lingue, molteplicità di culture, molteplicità di religioni. Questo risulta evidente già dalla narrazione biblica della costruzione Torre di Babele, quando l’umanità aveva “una sola lingua ed una parlata comune”, e dell’esito disastroso di questa impresa. Nel linguaggio comune non c’è nulla di male, per carità, ma il pericolo si cela dietro all’imposizione di valori comuni e la repressione violenta del dissenso. Babele è la prefigurazione dei futuri totalitarismi. I grandiosi edifici dell’antichità, le ziggurat, le piramidi, erano la rappresentazione fisica della centralizzazione del potere, richiamando già nella propria forma l’esistenza di una chiara gerarchia, al punto da essere costruiti a costo di tramutare gran parte della popolazione in schiavi. Il popolo ebraico fonda la propria esperienza su due migrazioni, quella di Abramo e l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto, che hanno in comune l’abbandono di una superpotenza politica e militare per recarsi in un luogo, la terra d’Israele, che forniva delle prospettive molto meno grandiose e più a portata d’uomo. Le migrazioni dei nostri tempi, che ben conosciamo, hanno evidentemente caratteristiche opposte. Nella Bibbia troviamo una critica radicale dell’idea di impero e dell’uso della forza. Gli imperatori dell’antichità si dichiaravano divinità o figli di dei, mentre la Bibbia afferma veementemente che siamo tutti, senza eccezione alcuna, creati a immagine divina, opponendosi attraverso questa dichiarazione all’intero universo politico dell’antichità.
Ogni vita è sacra. Ciascuno ha la propria dignità. Mentre gli esseri umani impongono l’uniformità, D. lascia spazio alla differenza. Un maestro dell’800, Shimshon Refael Hirsch, afferma che il simbolo del patto del Signore con Noè e l’umanità, l’arcobaleno, mostra come l’unica luce divina venga rifratta dando luogo a numerosissimi colori. La visione biblica non accetta l’idea secondo cui extra ecclesiam nulla salus, affermata dal vescovo africano Cipriano nel III secolo e ribadita, portandola alle estreme conseguenze, da Bonifacio VIII nella bolla Unam sanctam del 1302.
L’odio nasce dall’incapacità di accettare l’altro in quanto tale. Nella narrazione biblica i non ebrei hanno un ruolo determinante, basti pensare alla figlia del Faraone che salva Mosè. L’alterità è il cuore dell’ebraismo. Abramo, colui che ispira quasi due miliardi e mezzo di cristiani, oltre un miliardo e mezzo di arabi e tredici milioni di ebrei, è colui che discute con la divinità per salvare Sodoma, dicendo, con l’espressione più audace che un uomo abbia rivolto a D. “il giudice di tutta la terra non farà giustizia?” Il nostro scopo non deve essere quello di dominare il mondo o convertirlo, ma essere fonte di benedizione per il mondo, improntando i nostri gesti seguendo gli ideali di giustizia e moralità, come è stato detto allo stesso Abramo “poiché Io lo prediligo affinché raccomandi ai suoi figli e alla sua famiglia avvenire di osservare le vie del Signore operando carità e giustizia sì che Io, Signore, compia nei suoi riguardi quello che ho detto”. Nella molteplicità di religioni non vi è nulla di male, sino a quando la religione non conduce alla degenerazione morale. R. Yehudah nel Talmud (63b) affermava che l’assurdità dell’idolatria salta agli occhi di tutti, ma ci si abbandona ad essa perché giustifica la perversione pubblica.
Se vogliamo affermare la superiorità della nostra moralità, non dobbiamo farlo attraverso un moto imperialista rivolto all’esterno, ma bruciando all’interno, sollecitando il nostro senso di responsabilità.