Derashah VII giorno
Dei quattro figli della Haggadah il più intrigante è certamente l’ultimo. Per due motivi: a) dal momento che non sa fare domande e dunque non si esprime, è quello che meno rivela di sé. Il suo carattere resta un mistero; b) dal momento che è l’ultimo, non sappiamo chi verrà dopo di lui. Chi mai raccoglierà la sua eredità?
Ma prendiamo i motivi uno alla volta. Chi è “colui che non sa fare domande”? Possibile che esista un bambino che di fronte a qualsiasi novità non sia in grado neppure di formulare la domanda del semplice: “Che cos’è questo?” Se è un problema di età, già a un anno i bambini parlano e domandano, magari a modo loro, ma domandano. E se non sono ancora in grado di domandare è improbabile che la Haggadah suggerisca al padre di anticipare loro le risposte. Meglio aspettare che siano un po’ più grandi. E’ un bambino che non riesce a parlare? Difficile pensare che la Haggadah prenda in considerazione categorie così particolari e fortunatamente circoscritte. Ho piuttosto ragione di ritenere che i “colui che non sanno fare domande” siano assai numerosi nella comunità umana. E’ forse colui che non parla la nostra lingua? Irrilevante. Gli si risponderà nella sua lingua…
“Colui che non sa fare domande” non è una caratterizzazione di età, né di lingua, né di capacità intellettuali. E’ un bambino con potenzialità non diverse da chiunque altro. Il suo problema è di natura differente. Voglio soffermarmi su almeno due possibili identificazioni di questo “tipo” di figlio. La prima ipotesi è che possa trattarsi di una questione di conoscenza, o meglio, di mancanza di conoscenza. Vi sono a ben vedere due tipi di persone prive di conoscenza su un certo argomento. La prima è l’ignorante che tuttavia si rende conto di non sapere e perciò domanda. Farà anche la più banale e generica delle domande, ma sente il bisogno di farla: è il ritratto del tam, il semplice che non avendo alcuna cognizione su Pessach e l’Uscita dall’Egitto domanda semplicemente: “che cos’è questo?” La seconda è l’ignorante che non si rende neppure conto di non sapere e quindi non prova necessità alcuna di porre alcuna domanda. “Colui che non sa fare domande” è in sostanza colui che è ignorante anche e soprattutto della propria ignoranza[1]. Vuoi perché è talmente lontano dalla vita ebraica, vuoi perché viceversa è talmente compreso di sé da credere di sapere già tutto e di non aver bisogno di domandare (e forse queste due figure sono in realtà assai meno distanti fra loro di quel che si crederebbe a prima vista)… Il quarto figlio ha un solo merito: quello di seguitare a venire al Seder, di sedere a tavola insieme a suo padre e ai suoi fratelli. Nonostante tutto, è ancora disposto ad ascoltare. Tocca senz’altro al padre attaccare il discorso.
E’ peraltro possibile un’ulteriore identificazione del quarto figlio. “Domandare” può avere a sua volta due significati in ebraico. “Domandare per sapere”, come il latino quaero, ed è il senso nel quale ci siamo mossi finora. Ma anche “domandare per ottenere”, come il latino peto. Seguendo questo nuovo filo logico, “colui che non sa fare domande” diviene “colui che non sa neppure chiedere per ottenere” i suoi bisogni vitali. In altre parole “colui che non è in grado di provvedere a se stesso”. Per quale ragione? Per pigrizia. Come dice Mishlè, 19,24: “il pigro affonda la sua mano nel piatto, ma non riesce nemmeno a portarla alla bocca”. Il pigro non rivolge richieste neppure a se stesso, perché non ha la forza morale di soddisfarle[2]. Nel pensiero dei nostri Maestri la pigrizia è fonte di grande rovina “per il corpo e per l’anima… Se tuttavia nel perseguimento dei beni materiali chi è ricco può permettersi di vedere la propria attività svolta tramite intermediari, ben diverso è il caso del Servizio Divino”[3].
E’ noto che quando i Figli d’Israel si trovarono con il Mar Rosso di fronte e gli Egiziani che li inseguivano alle spalle, Moshe si rivolse a H., ma il S.B. gli rispose: non è tempo di pregare, parla ai Figli di Israel e di’ loro che partano[4]. Il Midrash racconta che Nachshon ben ‘Amminadav, il capo della tribù di Yehudah, si buttò nel mare. Solo quando l’acqua gli giunse al collo, dal momento che con le sue sole forze egli non avrebbe potuto proseguire, allora H. gli venne in aiuto e il mare si aprì. Ma un’altra versione racconta i fatti in modo differente, alludendo a un’antica rivalità politica fra le tribù di Yehudah e Binyamin. In Tehillim 68,28 è detto: שם בנימין צעיר רודם, שרי יהודה רגמתם“Il giovane Binyamin scendeva nel mare רד ים , ma i principi di Yehudah gli scagliarono pietre”. Spiega questo Midrash che al momento di attraversare il Mar Rosso quelli di Binyamin si erano in realtà avventurati per primi ma i principi di Yehudah, temendo di vedersi sottratto il primato che era stato promesso alla loro tribù, si avventarono contro di loro, tanto che i Beniaminiti si ritirarono e Nachshon ben ‘Amminadav, capo di Yehudah, ebbe il merito di passare per primo[5]. Entrambi i contendenti avevano i migliori propositi, ma i Beniaminiti peccarono di debolezza e pigrizia. Avrebbero dovuto resistere alla spietata concorrenza di Yehudah. Qualche secolo più tardi Shemuel ricordò questo episodio a Shaul della tribù di Binyamin quando questi ebbe pietà di Agag capo degli Amaleciti e lo risparmiò, nonostante l’ordine Divino in contrario. Shaul era stato scelto come re per il merito che la sua tribù aveva preso l’iniziativa di passare il Mar Rosso per prima, ma non sarebbe stato destinato a durare. Come al tempo degli Egiziani, ancora una volta nella guerra contro ‘Amaleq Binyamin si era dimostrato debole e pigro, non all’altezza della leadership. Ancora una volta il primato sarebbe passato a Yehudah e David avrebbe inaugurato la propria dinastia[6].
Ignoranza della propria ignoranza e pigrizia sono entrambe fonte di immobilità. Non per nulla il figlio “che non sa fare domande” è semplicemente l’ultimo della serie. Dopo di lui non c’è più nessuno. Come dobbiamo immaginarci la generazione successiva alla sua? Ci sono due opzioni possibili. O saranno figli che non vengono più, ormai talmente straniati da aver perso qualsiasi afflato verso le tradizioni paterne, da essi considerate come un fardello obsoleto e incomprensibile. Oppure rimpiangeranno ciò che nel frattempo è andato perduto, si rimetteranno alla ricerca di Maestri che troveranno lontano dal loro entourage, al fine di instradarsi in un percorso di recupero disperato ma mai insperato. Questi figli non si vergogneranno di fare domande, partendo dalle più semplici, come il tam. Potrebbero persino ribellarsi a un establishment nel quale non si riconosceranno più e che paradossalmente li considererà dei resha’im. Ma alla fine saranno dei nuovi Chakhamim. Saranno loro i garanti del nostro futuro, inaugurando un nuovo ciclo dei “quattro figli” della Haggadah: a ritroso! Scrive un importante Maestro vissuto agli albori dell’età moderna[7]: “E’ nelle facoltà dell’individuo capovolgere la propria natura e trasformarla, per mezzo della fatica e dell’impegno. Solamente avvezzandosi all’estremo opposto riuscirà a ritrovare il proprio equilibrio e ad attestarsi sul giusto mezzo. L’uomo ha il controllo del proprio spirito e ha il potere di fare ciò che vuole. לפום צערא אגרא In base all’impegno profuso sarà la sua ricompensa[8]”.
[1] Ben Ish Chay di Baghdad, comm. alla Haggadah di Pessach Orach Chayim.
[2] Ibn Yachyà ad loc., che mette questo versetto e il seguente in rapporto esplicito con i “quattro figli” della Haggadah. Sulla doppia accezione del verbo shaal, sempre in relazione al pigro, cfr. anche Mishlè 20,4.
[3] R. Eli’ezer Papo di Sarajevo, Pele Yo’ètz, s.v. ‘atzlùt.
[4] Shemot 14,15 e Rashì ad loc.
[5] Shochar Tov ad loc.
[6] Targum Yonatan a 1Shemuel 15,17: ואמר שמואל הלא מן שריותך הויתא שיט וחלש בעיני נפשך ברם זכות שבטא דבנימין אבוך גרמא לך די בעו למעבר בימא קדם בני ישראל בדיל כן רביך ה’ למהוי מלכא על ישראל .
[7] Pele Yo’ètz ad loc.
[8] Avot 5,29.