Cosa ricorda e simboleggia la matzà
Pesach è, come molti sanno, Chag ha matsot, festa delle azzime. E’ l’azzima, il pane non lievitato, il simbolo principale della ricorrenza, l’elemento che la caratterizza e la distingue. E’ sulla matsà da una parte, e dall’altra sull’astensione dal chamets, il lievito, che si gioca l’intero senso di Pesach . Ben lo sanno coloro che si preparano ad osservare con scrupolo le regole degli otto giorni della ricorrenza, pulendo la casa da ogni resto di sostanza lievitata ed accingendosi ad acquistare i prodotti casher le Pesach, ed in particolare i pacchi di matsot di vario genere, “croce e delizia” degli apparati digerenti degli ebrei di tutto il mondo. Ma cosa è veramente la matsà? Che cosa simboleggia? Cosa ci ricorda ogni anno, quando, almeno nel corso del Seder, dobbiamo mangiarla? E quale senso ha l’astensione dal lievito? cosa è veramente il lievito nella prospettiva dell’insegnamento dei maestri della tradizione ebraica? Le riflessioni che seguono, derivate dagli scritti di Rav Uttner, di Rav Friedlander e di Rav Neventzal, vogliono proporre alcune linee di interpretazione per rispondere a queste domande.
La matsà dell’imprevisto previsto
La Torah racconta che, per la fretta di uscire dall’Egitto, a quel punto scacciati dagli egiziani impauriti dall’ultima piaga, gli ebrei non fecero a tempo a far lievitare gli impasti che avevano preparato; da questo, apparentemente, deriverebbe il senso della matsà durante Pesach. Il concetto viene esplicitamente affermato durante il Seder quando, ricordando a nome di rabban Gamliel le tre cose che devono essere pronunciate e capite per uscire dall’obbligo di Pesach, sollevando una matsà ci domandiamo per quale ragione la mangiamo. In questa prospettiva il pane azzimo sarebbe simbolo di libertà, di una libertà improvvisa, più veloce del tempo della lievitazione di un impasto. Tutto filerebbe liscio se non si analizzasse con più attenzione l’insieme dei brani della Torah che narrano i momenti precedenti all’uscita dall’Egitto. Leggendoli si viene a scoprire, con stupore in realtà, che in altri due punti, precedenti alla vera e propria fuga del popolo dalla terra dove era stato schiavo, si parla di matsot. All’inizio del mese di Nissan Dio prescrive al popolo l’obbligo del sacrificio pasquale e della celebrazione, la sera tra il 14 e il 15 del mese, di una cena che assomiglia molto al nostro Seder, durante la quale, in attesa di uscire dall’Egitto e mentre fuori infuria la decima piaga, gli ebrei dovranno mangiare l’agnello pasquale insieme a azzime ed erbe amare. E poco più avanti, ma sempre prima del vero e proprio frettoloso esodo, Dio stabilisce per tutte le generazioni la celebrazione di Pesach con la astensione dalle sostanze lievitate. La paradossale contraddizione emerge in tutta la sua chiarezza: da una parte la matsà sembra simbolo di libertà e di fretta di ottenerla, dall’altra è prescritta ben prima della fretta stessa, si sa già che sarà il simbolo della festa ed, anzi, gli ebrei la hanno mangiata quando erano ancora in Egitto. In questa prospettiva contraddittoria la matsà sembra assume un nuovo senso, o almeno un doppio senso: è segno di libertà ormai acquisita ma insieme anche simbolo di schiavitù, per cui la chiamiamo all’inizio del Seder “pane dell’oppressione”. Ci ricorda l’improvviso cambiamento di condizione, dalla schiavitù alla libertà, ma ci segnala contemporaneamente che questo stesso passaggio era previsto, stabilito da Dio nel suo tempo specifico, e che dunque non era un imprevisto. Tutto questo, forse, per indicarci quanto, di fronte alla grandiosità di alcuni eventi, ed in particolare di fronte alla comparsa della dimensione divina nella esistenza umana, davanti all’intervento di Dio nella storia, l’uomo sia, per quanto preparato, sempre assolutamente impreparato.
Tra la matsà ed il chamets : i diciotto minuti della differenza
Quando si parla di proibizione del lievito durante Pesach non sempre se ne ha chiaro il senso: spesso si crede che sia proibito aggiungere quella sostanza che aiuta la fermentazione dell’impasto. In realtà i Maestri della tradizione rabbinica stabiliscono che qualsiasi impasto di acqua e farina di cinque specifici cereali (grano, orzo, avena, spelta e segale), quando non manipolato per più di diciotto minuti, è da considerarsi chamets, sostanza lievitata.
La matsà è dunque una sorta di pre- chamets; o, da un altro punto di vista, il chamets non è altro che una potenziale matsà che ha, da impasto, riposato troppo. Ciò che rende un impasto matsà o chamets è dunque il tempo, un tempo assai ridotto se si considera la differenza assoluta che c’è tra queste due categorie, l’una assolutamente proibita durante Pesach, l’altra permessa ed, anzi, la prima sera obbligatoria. Se la matsà è simbolo di libertà ed il chamets rappresenta la negatività egiziana da cui gli ebrei si devono liberare, allora questa differenza minima – rappresentata dai diciotto minuti di inattività dell’impasto che lo fanno passare da matsà a chamets – è lo scarto infinitesimale che separa l’una dall’altra. E’ il piccolissimo passo che mancava, agli ebrei, per essere condannati a restare per sempre in Egitto. Ed è d’altra parte il minimo ma enorme spazio che separa la schiavitù eterna dalla libertà. I Maestri, indicandoci questi diciotto minuti, ci dicono in sostanza che questo è stato il tempo della fretta, il piccolo varco temporale attraverso cui un gran numero di persone – due milioni? – è uscito dall’Egitto. E ci dicono anche che il popolo ebraico nasce come tale sotto il segno del particolare, del minuscolo, della lieve ma grande differenza. Un evento grandioso come la liberazione dalla schiavitù egiziana – anticipazione per molti versi della redenzione finale che verrà con il Messia – non passa solamente attraverso grandi principi e dichiarazioni altisonanti; passa piuttosto attraverso diciotto brevi minuti, attraverso la capacità di percepire le differenze e di conservarle come ricchezza nelle generazioni. In questa prospettiva la storia, i cambiamenti e le trasformazioni anche epocali, si fondano su particolari minimi, apparentemente insignificanti, di cui – parte costitutiva dell’identità ebraica – si deve essere sempre coscienti. E’ attraverso il particolare, sembrano dirci i Maestri quando parlano di chamets e di matsà, così come quando distinguono tra venerdì e shabbat o tra cibi casher e non casher, che ogni ebreo può stabilire la sua collocazione nella realtà; è sul microscopico che si costruisce un’identità.
Ma la differenza tra chamets e matsà passa anche attraverso la opposizione tra attività ed inattività, tra lavoro e riposo, tra impegno e disimpegno: il chamets è una matsà che ha riposato troppo, il pane è una potenziale azzima che non è stata costantemente lavorata. Dio, nell’uscita dall’Egitto che ricordiamo a Pesach, interviene direttamente nella storia ed agisce in favore del popolo di Israele; ma l’uomo non può limitarsi ad attendere: per meritare la sua porzione di matsà deve fare la sua parte. Se vuole aprire la piccola porta da cui entrerà il Messia, ed avvicinare con questo il tempo della liberazione completa, non può solamente aspettare. Deve essere attento ai particolari e, come insegnano i Maestri nel Talmud, fare la teshuvà e le buone azioni.