Fra gli più straordinari documenti che risalgono al periodo della Shoah vi sono certamente i Responsa Mima’amaqim del Rav Efraim Oshri, miracolosamente arrivati a noi. Questi responsa ci danno una struggente rappresentazione della vita religiosa nel ghetto di Kovno in Lituania, mostrandoci i terribili dilemmi morali che attanagliavano gli abitanti del ghetto sotto il dominio nazista. In un responsum (III, 6) Rav Oshri descrive la storia di un chazan, che, iniziate a recitare timorosamente le birkot ha-shachar (benedizioni del mattino), arrivando alla berakhah shelò ‘asani ‘aved (che non mi hai fatto schiavo) si fermò e disse di non poter recitare questa benedizione.
Come è possibile recitare una berakhah propria degli uomini liberi, quando le catene della schiavitù soffocano sempre di più gli abitanti del ghetto? Recitare questa benedizione sembrerebbe una forma di scherno, o ancora peggio una bugia conclamata! Questo avveniva ogni giorno, sino a che parte del pubblico si convinse della giustizia delle parole del chazan, ed iniziò a fare altrettanto. Si tratta di un comportamento lecito? Secondo il Rav non lo è, perché non si è compreso il senso della berakhah. Per assurdo, Shelò ‘asani ‘aved ritrova il proprio valore autentico proprio nei momenti più bui. Non si riferisce alla libertà dalla schiavitù fisica, ma alla libertà spirituale che abbiamo acquisito con l’uscita dall’Egitto, una dimensione che può sfuggire al dominio altrui, per quanto questo possa essere opprimente. Perciò in quei momenti terribili, in cui i nemici possono fare degli ebrei ciò che vogliono, assume un senso molto importante dichiararsi uomini liberi. Il corpo è asservito ma non l’anima. Il discorso di Rav Oshri, per quanto possa apparire paradossale, riprende pienamente le parole, che, in una situazione totalmente differente, Rav Kook scrisse in un discorso dal titolo Cherutenu, la nostra libertà. La differenza fra schiavi e liberi non è una differenza di condizione. Possono esserci schiavi con il cuore è pieno di libertà e uomini liberi con il cuore di uno schiavo.
Essere fedeli a se stessi sino in fondo, all’immagine divina che è in ognuno! In quel momento la vita dell’uomo acquisisce uno scopo e un grande valore. Secondo Rav Kook questa predisposizione è rappresentata dalla matzah, ingredienti genuini, senza il lievito, che è paragonato all’istinto malvagio, e ci impedisce di seguire il nostro programma. Chi invece ha lo spirito di uno schiavo non trae il senso della propria vita dal proprio carattere, ma da ciò che è bene per gli altri, che in qualche modo li dominano, formalmente o moralmente. Come è noto in ebraico si distingue fra chofesh e cherut, “libertà da” e “libertà di”. Chi è chofshì, non è costretto da un qualche elemento esterno, e si comporta come vuole. Chi è invece ben chorin non è sotto l’influenza di chi vuole forzare la sua volontà. L’inizio della liberazione dalla schiavitù è un passaggio obbligato, ma non un punto di arrivo. Questo è simboleggiato nell’espressione di R. Gamliel nella haggadah: “chi non ha pronunciato queste tre espressioni di Pesach non è uscito d’obbligo: Pesach, Matzah e Maror”. Il qorban Pesach è simbolo, di libertà, il maror di servitù, mentre la matzah rappresenta entrambi. Ma ciò che colpisce nell’espressione di R. Gamliel è l’ordine. Ci saremmo aspettati di trovare il maror all’inizio, e non alla fine! Spiegano i maestri della chassidut che solo per chi sa cosa voglia dire essere liberi la schiavitù ha un sapore amaro. Chi non si sente in esilio non soffre per la sua condizione. Per questo è tanto importante comprendere cosa significhi veramente essere liberi.
Una società fondata sul chofesh inizia nell’anarchia e sfocia nella tirannia. Una società che si basa sul cherut è invece una società dove ogni libertà è rispettosa di quella altrui, una società modellata sulla giustizia e sulla compassione. In questo tipo di società non è necessario avere forze di polizia. Possiamo lasciare l’automobile aperta e sentirci sicuri di ritrovarla. Questo diviene possibile solo quando la legge diviene connaturata agli individui. Se la legge è un’imposizione esterna, sarà necessario fare ingenti sforzi affinché questa venga rispettata. Se invece gli uomini conoscono a fondo e condividono la legge, non saranno necessari dispositivi particolari. Potremmo stupirci al pensiero che nella Torah il termine cherut non compare mai, e la sua radice si trova solo quando la Torah descrive la scrittura delle tavole, dove lo scritto è “charut ‘al ha-luchot”, inciso sulle tavole. L’incisione è una forma di scrittura molto particolare, perché quando scriviamo con una penna l’inchiostro rimane impresso sulla carta, ma non diverrà carta a sua volta. Inchiostro e carta rimarranno due cose distinte. La tecnica dell’incisione è differente, perché non si avvale di un ausilio esterno per la scrittura. Lo scritto rimane impresso nella pietra ed arriva dall’interno della pietra stessa. Questo è il senso profondo della nostra legge, e la nostra concezione della libertà.