אם נבלת בהתנשא, ואם זמות יד לפה
“Se sei stato malvagio è per superbia; e se sei stato punito, mano sulla bocca!” (e taci – Mishlè 30,32).
La Parashat Sheminì riporta una delle pagine più tragiche della Torah: il racconto della morte dei due figli maggiori di Aharon, Nadav e Avihù. Essi furono così puniti dal Cielo, fulminati per aver offerto “dell’incenso (letteralmente: del fuoco) estraneo che non era stato loro comandato”[1] in occasione dei sacrifici per l’inaugurazione del Mishkan.
Un commentatore riassume il problema in questi termini: “Per quale ragione uomini integri sono morti in quel luogo e tempo, in giovane età e di una morte del tutto innaturale?”[2] I Maestri del Midrash formulano almeno tre ipotesi in proposito. 1) I due ragazzi hanno preso l’iniziativa per voler insegnare una Halakhah al cospetto dei loro Maestri, Moshe e Aharon; 2) I due ragazzi erano ubriachi; 3) I due ragazzi sono stati puniti per una ragione completamente diversa: non avevano figli[3]. Le tre opinioni sono molto diverse fra loro e richiedono di essere raccordate. Esiste un denominatore comune che ci riporti al pensiero dei nostri Maestri su questo episodio? E’ quanto cercherò di fare nel tempo limitato di cui dispongo.
A tale scopo partirò da due Mishnayyot consecutive a nome di Hillel nel primo capitolo dei Pirqè Avot che leggeremo oggi. Nella prima הלל אומר: הוי מתלמידיו של אהרן. אוהב שלום ורודף שלום, אוהב את הבריות ומקרבן לתורה “Hillel soleva dire: “Sii dei discepoli di Aharon: amante della pace, che persegue la pace, che ama le creature e le avvicina alla Torah”[4]. Un commentatore osserva che l’espressione “amante della pace” diviene superflua a fronte del fatto che della stessa persona è poi detto che “persegue la pace”! Ma l’ovvietà è solo apparente. Ci sono persone che si prestano a fare da pacieri, soprattutto nelle liti altrui, non perché davvero amino la pace, ma per “fare carriera”, acquistarsi un nome e farsi onore[5]. Va riconosciuto che l’azione meritoria è da essi compiuta comunque. Ma in una Mitzwah si deve distinguere fra le due componenti: il ma’asseh (atto concreto) e la kawwanah (giusta intenzione). Aharon appianava le liti senza secondi fini. Nel padre e Maestro azione e giusta intenzione si sovrapponevano perfettamente. Dai rapporti con il prossimo il principio può essere agevolmente esteso ai rapporti con H. Immaginiamo che Nadav e Avihù, almeno in quel caso, non si siano comportati come “discepoli di Aharon”, ancorché fossero i suoi figli. Anzi, pretesero di insegnare una Halakhah in presenza del loro padre e di Moshe loro Maestro[6]. Nella nuova generazione ma’asseh e kawwanah erano scissi. Cercavano un nome e un onore. E di ciò si ubriacarono. Di cosa? Di ambizione e di potere.
Ma perché subire una punizione così drastica? Nella Mishnah successiva
הוא היה אומר: נגד שמא – אבד שמיה, ודלא מוסיף – יסיף, ודלא יליף – קטלא חייב, ודאשתמש בתגא – חלף. “Hillel afferma ancora: Chi ambisce a un nome perde anche quello che ha già. Chi non accresce il suo sapere (ispirandosi al comportamento degno dei discepoli di Aharon) lo esaurisce e chi non impara (da costui) è passibile di morte. Mentre chi trae vantaggio personale dalla corona (della Torah) è finito”[7]. Il “fuoco estraneo” con cui la Torah bolla il cattivo comportamento di Nadav e Avihù è a sua volta una metafora. Anzi, una doppia metafora. Il fuoco simboleggia la Torah in quanto tale: “invero la Mia Parola è come fuoco, dice H.”[8]. Scindendo l’azione meritoria dalla giusta intenzione Nadav e Avihù distorsero la Torah e la Mitzwah: “offrirono del fuoco estraneo che non era stato loro comandato”. Ma il fuoco rappresenta anche l’accensione della controversia. Fra chi e chi? Fra loro e H., naturalmente.
“Aharon rimase pietrificato”[9]. Nessun’altra reazione sarebbe stata più giustificata. Ma appare significativo che la “pietrificazione” di Aharon sia seguita non all’incidente mortale, ma alla spiegazione che Moshe ne ha dato: “Da coloro che mi sono più vicini Io sarò santificato”. Se il rimprovero avesse riguardato l’azione concreta, una mancanza di ordine pratico, si sarebbe prestato a una controbattuta. Ma a fronte di un difetto tutto interiore, relegato alla sfera del sentimento, nessuna risposta poteva essere neppure lontanamente abbozzata. Non rimaneva che tacere, accettando la sentenza Divina. Dopo tutto la trasgressione riguardava proprio la sfera più intima dei rapporti con H. Rashì commenta che questo fatto giovò a Aharon. Subito dopo H. si mise in comunicazione diretta con lui, anziché attraverso Moshe, per rivelargli le regole sul divieto delle bevande alcoliche per i Kohanim in servizio. E’ questa una prova che il silenzio di Aharon non fu dettato semplicemente dalla tristezza per la perdita dei figli. Se questo fosse stato il solo motivo, H. non gli avrebbe parlato. Sappiamo che la Presenza Divina si manifesta solo dove c’è gioia e non dove c’è tristezza[10]. Il silenzio di Aharon ha ricucito la frattura con il S.B.
Resta da comprendere la terza opinione del Midrash: cosa c’entra la morte di Nadav e Avihù e la motivazione che ne abbiamo dato con il fatto che non avessero figli? Credo che questo possa essere inteso a sua volta in senso “allargato”. L’assenza di figli non è semplicemente la causa della punizione, ma anche la sua conseguenza. Attraverso l’esempio tragico dei figli di Aharon i Chakhamim ci vogliono insegnare che la perpetuazione della Torah richiede da noi alcuni sforzi. Anzitutto il limmud, lo studio continuativo dei testi e un rapporto personale e intellettuale con un Maestro. Se ciò è necessario, non è ancora tuttavia sufficiente. “Coloro che si sforzano nella Torah fine a se stessa ne escono per loro acque dolci e il versetto ne dice: ‘la Comunità bevve con i suoi animali’[11]; Coloro che invece non si sforzano nella Torah fine a se stessa ne escono per loro acque amare e il versetto ne dice: ‘amareggiarono la loro vita con duro servaggio’ [12].
Non è sufficiente aderire alle Mitzwot solo in ossequio a regole pratiche di comportamento, come se fossimo i membri di un club che le richiede formalmente ai suoi adepti e che ci coinvolgono solo per garantire il funzionamento dell’istituzione. Lo studio e l’osservanza della Torah richiedono anzitutto kawwanah, una profonda spinta interiore conseguenza del legame che abbiamo con il S.B. A questo punto possiamo ragionevolmente sperare che il ma’asseh, l’azione concreta da noi compiuta abbia effetti significativi e duraturi, sugli altri, ma anche su noi stessi. L’Ebraismo deve essere coltivato, con pazienza e perseveranza. Solo così facendo riusciremo a dare un seguito alla nostra identità.
[1] Wayqrà 10,1.
[2] Abrabanel ad loc., domanda n. 8.
[3] Cfr. Bemidbar 3,4.
[4] 1,12.
[5] R. Yossef Ibn Sussan in Midrash Shemuel ad loc.
[6] Cfr. Bemidbar 3,1 e Rashì ad loc.
[7] 1,13. Abbiamo tradotto la Mishnah seguendo il comm. Midrash Shemuel.
[8] Yirmeyahu 23,29.
[9] Wayqrà 10,3. Nella traduzione abbiamo seguito A. Neher, “L’esilio della Parola”, Marietti, Casale Monf., 1983, p. 48.
[10] Cfr. Tzeròr ha-Mor ad loc.
[11] Bemidbar 20,11.
[12] Shemot 1,14. Zohar, P. Pinechas, f. 229b.