Rav Somekh in “Rabbini italiani del ‘900” – C. Bibl. Roma – 27/04
Da una conferenza tenuta in ebraico al Bet ha-Kenesset italiano di Yerushalaim il 31 dicembre 2009, in occasione degli Sheloshim dalla scomparsa del Maestro, ora riproposta in Italia.
“Il Valore Etico delle Mizvoth” è il titolo complessivo di una raccolta di articoli su argomenti di vita ebraica che il mio compianto Maestro, Rav Sergio J. Sierra, pubblicò per la prima volta sul mensile “La Voce della Comunità di Roma” nel lontano 1956. Essi furono subito dopo raccolti a cura di Rav Elio Toaff “in un volumetto da dare in lettura a coloro che vogliono avvicinarsi –pur non essendo per nulla preparati- allo studio delle più importanti e vitali tradizioni ebraiche” (dalla Prefazione alla 1^ edizione: Roma, 12 Adar 1° 5717, 13 febbraio 1957).
Il libretto fu successivamente ripubblicato nel 1980 a cura dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia. “Siamo certi –scriveva in questa occasione un altro mio Maestro, l’allora Presidente Rav Elia Kopciowski z.l.– che il volume contribuirà ad una migliore conoscenza delle Mizvoth e, quindi, ad una più cosciente comprensione delle espressioni quotidiane della Tradizione ebraica”. Una ristampa anastatica della prima edizione in 250 esemplari è stata curata da Guido e Arianna Ottolenghi di Bologna nel 2016, in occasione del Bar Mizvà del loro figlio Amedeo.
Volendo riassumere l’approccio di Rav Sierra all’Ebraismo quale emerge da queste pagine, credo che tre siano i perni intorno ai quali egli fa ruotare la nostra Tradizione. Il primo si può riassumere con la parola ebraica chinnukh, istruzione o meglio educazione: egli vede ne nostri valori una forza pedagogica in se stessa. Il secondo perno può essere definito come etica o moralità: aldilà dei contenuti spirituali, i precetti ebraici contengono un messaggio etico apprezzabile anche dall’uomo moderno secolarizzato. Il terzo punto è di natura sociale: al centro della Torà trovano espressione i concetti di libertà, eguaglianza, democrazia e, più in generale, progresso della società. Si tratta di temi particolarmente cari alla cultura italiana nell’epoca della maturità del Maestro.
Nel primo articolo, intitolato “Il Valore permanente ed etico delle Mizvoth” Rav Sierra esordisce con una breve analisi del passo talmudico in cui R. Tarfon e R. Akivà si interrogano se sia più importante lo studio o la pratica della Torà. In conclusione viene riportata l’opinione di tutti i Maestri, per cui “è più grande lo studio in quanto esso conduce alla pratica” (Kiddushin 40b). Commenta Rav Sierra: “Tradotto in termini pedagogici, lo studio serve a provocare nel discente dei mutamenti intellettuali, emozionali e di comportamento. Su questa base lo studio della Torà serve come educazione alle Mizvoth, ma si deve inoltre aver presente che la stessa pratica delle Mizvoth, quando viene trasmessa come un’abitudine sin dalla prima infanzia, diviene una vera e propria seconda natura dell’individuo, per cui quei ragazzi che avranno appreso ad esempio la Mizvà della osservanza del Sabato o dei Moadim in famiglia sin dalla più tenera età, quando verranno ad acquistare cognizione di queste stesse Mizvoth attraverso lo studio, avranno la sensazione di sapere quanto vengono apprendendo; perciò lo studio per loro non sarà un’arida sovrapposizione di nozioni che non hanno nessun legame con l’esperienza quotidiana, ma sarà una riflessione, un approfondimento di cose che fanno parte integrante della loro stessa vita” (p. 9).
In altre parole: le strutture della vita ebraica non sono semplici nozioni da apprendersi solo allorché si è acquisita la maturità intellettuale per affrontarle. Al contrario lo studio lascia la sua traccia nell’individuo nel momento in cui questi abbia già assimilato la pratica delle Mizvoth nel vivere quotidiano fin dalla tenera età. Solo facendo precedere la pratica allo studio questo può contribuire in modo significativo all’interiorizzazione dei precetti e del loro significato, formando una coscienza ebraica. La fonte di Rav Sierra è nel commento del Maimonide alla massima di R. Chaninà figlio di Dossà: “Colui nel quale il timor del peccato preceda la sapienza, la sua sapienza si mantiene; ma colui nel quale la sapienza precede il timor del peccato, la sua sapienza non si mantiene”. (Pirqè Avòt 3,11; cfr. anche i commenti di R. Yonah da Gerona e R. ‘Ovadyah da Bertinoro). Scrive Maimonide: “E’ cosa pienamente accettata anche dai filosofi che se l’abitudine alle virtù (herghèl ha-ma’alot) precede la sapienza in modo da diventare un’acquisizione salda (qinyàn chazàq) e solo successivamente (la persona) studi in modo che questo lo sproni verso quei beni, sarà più gioioso e amerà di più la sapienza e ne vorrà sempre di più. Infatti essa lo spinge verso ciò cui è già stato abituato. Ma se i beni intellettuali vengono prima (del timor del peccato e non studia allo scopo di mettere in pratica), la sapienza che lo trattiene dalle trasgressioni e dalla follia del suo cuore cui si era assuefatto nel frattempo gli sarà di peso e la pianterà”. Conclude Rav Sierra: “E’ necessario dunque stabilire delle abitudini, mediante la pratica delle Mizvoth, nei fanciulli e nei ragazzi destinati ad essere gli ebrei adulti di domani, ma è soprattutto essenziale approfondire le motivazioni che sostengono certe ‘abitudini’” (p. 11). “Le Mizvoth pertanto, grazie all’idea etica da cui sono pervase, possono servire a forgiare il carattere morale dell’Ebreo, purché esse non siano considerate fine a se stesse, ma mezzo di educazione e di elevazione di un vivere sociale illuminato dall’idea etica di Dio” (p. 12).
Come è noto, le Mizvoth possono essere distinte fra Mizvoth ben Adam la-chaverò (“doveri pratici intercorrenti fra l’uomo e il suo prossimo”) e Mizvoth ben Adam la-Makòm (“doveri fra l’uomo e il S.). Le prime comprendono, a titolo d’esempio, il divieto di rubare, o l’obbligo di fare tzedakà (“beneficenza”); appartengono invece al secondo gruppo le norme alimentari (kashrut). Le prime, scrive Rav Sierra, sono più facilmente comprensibili, perché fanno riferimento all’idea di “monoteismo etico” che è alla base dell’Ebraismo. Come spiegare invece le seconde, che si tende piuttosto a considerare dei “formalismi”? Scopo di queste Mizvoth è proprio quello di creare in noi delle abitudini, un vero e proprio esercizio di ripetizione. Originale il paragone che segue con la ginnastica. “Come la disciplina e l’educazione fisica con esercizi apparentemente assurdi, riescono ad allenare il corpo che può rendere il 100% delle sue naturali capacità in particolari circostanze, così l’animo, esercitato nella continua pratica delle Mizvoth, può reagire istintivamente in maniera corrispondente al valore etico che anima quelle stesse Mizvoth pratiche. Nell’Ebraismo, infatti, le Mizvoth sono un efficace mezzo per accrescere la nostra forza morale e spirituale; un mezzo cioè per potenziare la nostra capacità di realizzare il Divino che è in noi” (p. 12).
In ogni Mizvà della Torà vi è dunque un valore etico profondo che è nostro dovere scoprire attraverso lo studio. In quanto “popolo del Libro” noi Ebrei siamo particolarmente tenuti a testimoniare l’Unità Divina che si riflette nell’unità del genere umano e diffonderne i valori proprio attraverso l’osservanza delle Mizvoth. Il punto di vista che pretende di ridurre le Mizvoth a semplici atti religiosi formali è destituito di qualsiasi fondamento. D’altro canto –sostiene Rav Sierra- è vero che il sentimento religioso necessita di espressione per conto suo. Egli spiega il concetto ricorrendo ad un aneddoto. “Una donna ebrea aveva un bravo figliolo. Il ragazzo compiuto il tredicesimo anno di età e il suo Bar-Mizvà, incominciò ad indossare quotidianamente i Tefillin. Un giorno alcuni suoi compagni deridendolo gli dissero: ‘Ma cosa è mai questo uso di indossare i Tefillin? Puoi essere ugualmente sincero ed attaccato a D., amarlo, senza seguire queste prescrizioni formali!’ Il ragazzo subì l’influenza dei compagni ed una mattina si rifiutò di mettere i Tefillin. Sua madre non tentò di persuadere il figliolo a compiere il suo dovere di Ebreo poiché egli le assicurava che avrebbe potuto essere ugualmente fedele a D. e alla Torà senza prendersi il disturbo di assoggettarsi a dei formalismi tradizionali. In cuor suo però la mamma pensava alla maniera per correggere il figlio dal suo errore. Una sera quando il ragazzo venne a darle l’abituale bacio della buonanotte ella lo respinse dolcemente, ma con fermezza, dicendogli: ‘Non è necessario, so che tu mi vuoi bene!’ ‘Ma –replicò il ragazzo- io voglio manifestarlo il mio affetto, mamma!’ Al che la madre aggiunse: ‘Se tu credi che sia necessario esternare simbolicamente con un bacio il tuo affetto per me, perché allora ritieni che sia una formalità stare a manifestare attraverso l’osservanza delle Mizvoth il tuo amore verso D.?’” (p. 36).
Per Rav Sierra il valore più alto dell’Ebraismo resta comunque la libertà e l’eguaglianza di tutti gli uomini in quanto creati ad immagine e somiglianza della Divinità. Questa è la chiave tramite la quale egli spiega in modo estremamente originale, per esempio, la Mizvà del Talled. “Accanto al valore strettamente religioso del Talled è opportuno porre in rilievo il suo valore simbolico da un punto di vista sociale. Il Talled indossato dagli Ebrei nel Tempio vuol ricordare che tutti gli uomini sono uguali di fronte a D., dinanzi alla cui maestà non esiste differenza tra ricchi e poveri, tra Maestri e semplici fedeli” (p. 33). Il manto di preghiera, scrive Rav Sierra, ispira la sensazione che in qualche modo tutti gli Ebrei presenti nel Bet ha-Kenesset siano uguali e sacerdoti come scrive la Torà: “e voi sarete per me un reame di sacerdoti” (Shemot 19, 6). E’ significativa la conclusione: indossando il Talled ogni Ebreo si riallaccia spiritualmente al passato del suo popolo, riafferma la sua fedeltà alla Torà e mettendosi intimamente in comunicazione con l’anima di ogni fratello sparso per il mondo rinnova ogni giorno il vincolo che fa di Israele un popolo uno, il popolo del D. Unico.
Un ruolo importantissimo riveste la preghiera, la Tefillà. Non si tratta mai dell’espressione di un singolo, ma la manifestazione corale di una collettività, delle sue esigenze e delle sue aspirazioni. La preghiera ebraica, scrive Rav Sierra, “esprime spessissimo l’auspicio che cessino gli odi, le malvagità, l’ingiustizia nel mondo; la Tefillà si può ben definire ‘preghiera etica’ perché in essa l’idea della liberazione individuale si trasforma rapidamente in idea di redenzione dell’umanità” (p. 14). E’ un concetto che trova la sua più elevata e compiuta esternazione nei Giorni Penitenziali. Nel dotto capitolo su “Le Selichot e il valore della Preghiera Ebraica” così egli medita sul fatto che la confessione dei peccati (Viddui) è sempre espressa al plurale, riecheggiando la nota affermazione talmudica per cui “tutti gli Ebrei sono garanti l’uno per l’altro” (Shevuot 39a). “Può sembrare assurdo per molti di noi leggere in questa confessione collettiva taluni peccati che certamente molti individui non hanno commesso. Proprio in questa confessione collettiva vibra il valore etico-sociale. Ognuno di noi infatti è responsabile –in un certo senso- della condotta del compagno in seno alla Comunità di Israele; ognuno di noi ha il dovere di arginare la rottura e di sanare le deficienze morali che possono comparire in seno alla collettività di cui facciamo parte; ognuno di noi è in parte responsabile del corso generale degli eventi umani, dell’indifferenza del prossimo” (p. 79).
Nello stesso anno 1957 Rav Dario Disegni z.l. tradusse il formulario delle “Preghiere della festa di Rosh ha-Shanà” secondo il rito italiano nella duplice edizione destinata alle Comunità di Torino e di Milano. Rav Sierra scrisse la prefazione, ampliando il tema in oggetto. Egli annota ancora una volta che la collettività d’Israele non è solo un fatto sincronico, ma anche diacronico. Esso implica cioè uno stretto legame fra generazioni differenti, con tutta la responsabilità di trasmissione dei valori che ciò comporta. Così egli si esprime: “Soprattutto nella preghiera del Mussaf la nota universale, che –celebrando la regalità del S., creatore dell’Universo ed agente nella storia umana- s’inserisce nella specifica storia di Israele, fa della preghiera ebraica veramente un coro di generazioni, le cui aspirazioni ideali si risolvono tutte nella grande visione messianica, che rappresenta il trionfo delle conquiste morali dell’Umanità nei suoi rapporti sociali”.
Nel pensiero e nella visione ebraica di Rav Sierra il ritorno a Sion e la ricostituzione di uno Stato Ebraico nella Terra dei Padri occupano indubbiamente un posto speciale. Ecco che il precetto biblico di versare il mezzo Shekel (Shemot 30, 12-15), osservato annualmente all’epoca del Santuario per contribuire all’acquisto degli animali che venivano sacrificati a nome del popolo, assume oggi una forma e un significato nuovi. Fin da antico esso aveva una portata sociale e una componente egualitaria oltremodo rilevanti, nel fatto che tutti recavano in offerta la medesima somma di denaro. “Il ricco non doveva dare di più del povero affinché quello non vantasse un maggior privilegio nella cura della cosa pubblica. A proposito vogliamo rilevare che l’Ebraismo ha sempre sottolineato il valore morale dell’offerta che ha la stessa importanza di fronte a D., sia essa quella più cospicua del ricco, sia quella più modesta del povero. Ognuno è obbligato a compiere il proprio dovere e a contribuire secondo le proprie possibilità, tuttavia il valore del sacrificio e della devozione di ognuno è uguale dinanzi al S. Nel passo sopraccitato poi ci sembra che la Torà, esigendo la stessa entità di contributo per il Santuario, abbia voluto appunto maggiormente significare che il contributo del povero e del ricco per la cosa sacra e collettiva ha la stessa importanza morale e la stessa nobiltà ideale… Questa offerta aveva un netto carattere democratico e nel trattato talmudico Menachot noi possiamo riscontrare che perfino i Cohanim, i sacerdoti, i quali generalmente erano esenti da ogni tassa e contributo in quanto non possedevano beni fondiari, non erano tuttavia esenti dal tributo dello Shekel” (p. 104-105).
Oggi il Bet ha-Mikdash di Yerushalaim è distrutto, ma con il sorgere del moderno Sionismo il contributo ha assunto –spiega Rav Sierra- una forma nuova (che peraltro non sostituisce, giova ricordarlo, la Mizvà della Torà che oggi non siamo in grado di eseguire). “L’Organizzazione Sionistica Mondiale… ogni anno emette lo Shekel. Tutti gli Ebrei che hanno coscienza del valore della ricostruzione ebraica che si va attuando nel paese d’Israele hanno perciò il dovere di acquistarlo affinché possano influire democraticamente –attraverso i loro delegati che li rappresentano al Congresso Sionistico Mondiale- a quell’elevata opera di ricostruzione d’Israele che è la premessa necessaria per un completo risorgimento spirituale di tutto il popolo ebraico” (p. 106). Inviare il proprio contributo economico sotto qualsiasi forma alla causa per la ricostruzione nazionale in Eretz Israel non è solo un dovere. E’ un mezzo indispensabile per esprimere il legame indissolubile esistente fra le Comunità della Diaspora e la Terra dei Padri, ma è anche un modo attraverso il quale il nostro passato si riallaccia naturalmente al rinnovato presente. Grazie a ciò Israele potrà rimettersi nella condizione di esercitare gli ideali di giustizia ideale cui fin da antico l’eredità etica e spirituale del nostro popolo si era reso indissolubilmente legata. Vorrei infine integrare questo breve studio con alcune considerazioni su un altro testo. Mi riferisco all’intervento su “La donna nel mondo ebraico biblico” che Rav Sierra pubblicò molto più tardi, nel 1985, a seguito di un Convegno tenutosi presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Genova ove prestava attività di docenza. Egli interpreta in modo originale la differenza fra uomo e donna nel diritto ebraico basata su una serie di esenzioni anziché sull’imposizione di obblighi. Questi ultimi, a ben vedere, sono in misura maggiore destinati all’uomo. “Alla donna (la Bibbia) non ha limitato i compiti o assegnato una ben definita posizione nella vita etico-religiosa del popolo ebraico…”. Le conseguenze sono di vasta portata. “Perciò possiamo ben dire che proprio grazie a questa incertezza sulla posizione giuridico-sociale della donna nell’antico Israele, tutto quello che apprendiamo di positivo sulla donna nell’Antico Testamento è frutto di un posto che la donna stessa ha saputo conquistarsi nella storia ebraica, non mercé l’attuazione di un ordine scritto, ma grazie all’opera da lei stessa ideata e compiuta”. Nei momenti salienti della storia ebraica, come durante la rivelazione del Sinai, le donne vengono addirittura prima degli uomini. Rav Sierra richiama qui il fatto che nel capitolo che precede i Dieci Comandamenti H. si rivolge a Moshe in via preliminare: “così dirai alla Casa di Ya’aqov, parlerai ai Figli d’Israel” (Shemot 19,3). Rashì spiega che la Casa di Ya’aqov si riferisce alle donne, mentre i Figli d’Israele sono gli uomini. “L’influenza della donna nella Bibbia viene presentata nei suoi aspetti positivi e negativi; così una figura di donna che influì notevolmente negli affari politici interni e il cui marito seguì remissivamente le sue parole fu Izebel”, crudele verso l’esterno, ma generosa con suo marito. Rav Sierra insiste particolarmente sulla funzione della donna come madre, non solo sul piano biologico, ma anche per quanto concerne l’educazione dei figli. Qui ritorna un tema caro al Maestro. “La vita della donna viene così a intrecciarsi in una funzione eterna nei confronti dell’uomo e dell’essere vivente. La pietà della donna che è madre di ogni creatura e l’amore materno, che fuoriescono dai limiti della sua personalità, superano il suo egoismo per riversarsi sul prossimo a cui la donna si lega con tutta l’anima e per il quale è pronta a sacrificare la vita stessa e a rinunciare alle proprie comodità”. Quanti sarebbero ancora oggi pronti a condividere questa visione dell