Tutte le mitzwot sono divise in due categorie principali: quelle che riguardano i rapporti con il Signore (ben adam lamaqom) e quelle che riguardano i rapporti interpersonali (ben adam lachaverò). Per ottenere l’espiazione delle proprie colpe è indispensabile ottenere il perdono, dal proprio prossimo e da D. La visione ebraica del perdono (mechilah), tema che ha suscitato molto interesse in ambito filosofico negli ultimi decenni, ha alcune caratteristiche fondamentali: a) l’obbligo di perdonare consegue al pentimento e alle scuse; b) non tutti i peccati sono perdonabili; c) non si può perdonare a nome di qualcun altro[1].
Questa visione è molto differente da quella cristiana, che impone il perdono a prescindere dal pentimento e dalla gravità della colpa. In questi differenti approcci c’è anche un importante messaggio educativo: perdonare senza che vi sia stato un pentimento è pressoché inutile, se non controproducente. Infatti sarebbe un atteggiamento ingiusto: al peccato corrisponde una punizione, al pentimento il perdono.
Nella mishnah nel trattato di Yomà[2] è detto che “per le trasgressioni fra l’uomo e D.- il giorno di Kippur espia, per le trasgressioni fra un uomo e il suo compagno il giorno di Kippur non espia, sino a quando non chiederà benevolenza al suo compagno”. Questo insegnamento viene ricavato da R. El’azar ben ‘Azariah dal verso[3] “vi purificherete da tutti i vostri peccati davanti a D.”. E così viene stabilito dallo Shulchan ‘Arukh nelle norme relative a Kippur, nel cap. 606 di Orach Chayim, intitolato “che ciascuno chieda scusa al proprio prossimo la vigilia di Kippur”.
In generale possiamo chiederci perché vi sia un obbligo particolare prima del giorno di Kippur, quando in assoluto si è obbligati a scusarsi subito dopo avere offeso un altro. Le persone sono portate a rimandare, per vergogna o per qualsiasi altro motivo, ma la vigilia di Kippur è un limite invalicabile. Inoltre, dice Rabbi Ysrael Salanter, quando tutti chiedono perdono, la cosa sarà meno difficile da compiere.
Se non si chiede perdono al proprio prossimo, i peccati ben adam laMaqom vengono perdonati? Da quanto scrive la mishnah sembrerebbe infatti che le due cose siano collegate: dobbiamo chiedere perdono al nostro prossimo affinché vengano perdonate le nostre colpe di fronte a D. Dalla Toseftà[4] impariamo che “quando ti mostri misericordioso, il Misericordioso avrà misericordia nei tuoi confronti”. A D. chiediamo di avere un atteggiamento che va ben oltre rispetto a quanto richiesto a noi, di perdonare incondizionatamente, sebbene non abbiamo delle azioni da presentare per ottenere il perdono, così come diciamo nell’Avinu malkenu.
Quante volte bisogna chiedere perdono? La ghemarà nel trattato di Yomà spiega le modalità attraverso le quali si deve chiedere il perdono “disse Rav Chisdà, deve conciliarsi con tre file di tre uomini”. Spiega Rashì che deve andare per tre volte, ciascuna volta con tre uomini. Il Rambam[5] scrive “… e anche se avesse danneggiato il compagno solo a parole, deve lo stesso placare la sua ira e fare appello ai suoi sentimenti fino a ottenerne il perdono. E se l’offeso non vuole perdonare gli si portano tre suoi amici, disposti a cercare di convincerlo. Se anche questo non funziona gli si portano altre tre persone e altre tre ancora. Se tutti questi tentativi rimangono infruttuosi ed egli insiste nel suo ostinato risentimento, si abbandona oltre ulteriore tentativo e l’offeso, ostinato nel suo rancore, diventa lui il colpevole”. La Mishnah Berurah[6] scrive che se una persona vuole insistere ulteriormente, è consentito, a patto che non vi sia disprezzo per la Torah. Dalle parole del Rambam si deduce che chi non è disposto a perdonare, oltre ad essere crudele, come impariamo dalla ghemarà in massekhet Bavà Qamà (92a), è anche “il peccatore”, con l’articolo determinativo. Litshuvat ha-shanah scrive persino che chi non perdona prende su di sé il peccato di colui che voleva riappacificarsi. Come si spiega? A nome delle Zohar è detto che ogni peccato costituisce una realtà concreta nel mondo, e cercando di riappacificarsi il peccatore fa tutto ciò che è nelle sue possibilità per farlo scomparire, e per questo è l’altro, che porta rancore, a fare il modo che il peccato sia ancora al mondo. Il peccatore, che a cercato di riappacificarsi, una volta fatto il proprio dovere, non ha perso nulla, ed avrà modo di espiare il proprio peccato con il giorno di Kippur. Avendo fatto tutto ciò che era tenuto a fare, la sua colpa diviene “ben adam lamaqom[7]”.
Molti si chiedono se è possibile chiedere perdono per iscritto o per procura. La Mishnah berurah[8] scrive che “è giusto che vada in prima persona e non mandi inizialmente un tramite che lo convinca a riappacificarsi, e se gli è difficile andare di persona per primo, o se sa che la riappacificazione sarà più probabile per mezzo di un tramite, può avvalersene”. Molti riportano un insegnamento di Rav Ytzchaq Blazer[9] secondo cui il peccatore deve abbassarsi di fronte a chi ha offeso, e per questo è fondamentale che vada in prima persona. Secondo alcuni questo è l’aspetto principale nella richiesta di perdono, tale da impedire, se non effettuato, l’espiazione della colpa. Per questo motivo è indispensabile chiedere perdono anche se siamo certi che il nostro compagno non porta alcun rancore.
R, Bechayè fornisce un grande insegnamento nel suo commento alla Torah (Bereshit 50,17): come sappiamo la vendita di Yosef ha portato delle conseguenze molto gravi nella storia ebraica successiva (‘asarah harughè malkut), e sappiamo dalla Torah che i fratelli hanno chiesto perdono, ma non leggiamo nella Torah che Yosef abbia perdonato i fratelli, anche se da alcune espressioni e comportamenti possiamo dedurre che fosse così. Dalle conseguenze però possiamo arguire che il loro peccato non è stato perdonato. Per questo motivo è fondamentale che chi perdona lo dica a chiare lettere.
Attraverso il nostro perdono, auguriamoci che si verifichi quanto detto dal profeta Yechezqel[10]: “E se un malvagio si ritirerà da tutte le sue colpe che aveva commesse, terrà presenti tutti i Miei statuti e agirà secondo giustizia e diritto, egli vivrà, non morrà. Non sarà per lui tenuto conto di nessuna delle colpe che aveva commesse; egli vivrà per le buone azioni che avrà compiute. Desidero forse che il malvagio muoia? dice il Signore. Non desidero forse invece che si ritiri dalla sua condotta e viva?”. Il perdono umano è chiamato mechilah, e regola i rapporti fra gli uomini. Per D. e solo per lui si parla di selichah, la cancellazione dei peccati dalla realtà, come se non ci fossero mai stati[11].
[1] D. STATMAN, Kamma he’arot al mechilah bemassoret ha-yehudit, al da’at ha-qahal 1, p. 123-156.
[2] Yomà 8,9.
[3] Vaiqrà 16,30.
[4] Bavà Qamà 9,11.
[5] Hilkhot teshuvah 2,9. Traduzione tratta da MAIMONIDE, Ritorno a D. Norme sulla teshuvà, Giuntina 2004, pp. 43-44.
[6] 606, 5.
[7] Perì Chadash.
[8] 606,2.
[9] Rav Ytzchaq Blazer (1837-1907), allievo di Ysrael Salanter, fu uno dei leader del movimento del Musar.
[10] Ez. 18,21-23.
[11] Malbim, ha-Karmel, voce salach.