Conversazione con Franco Segre in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica 2016
Il primo linguaggio biblico
Il primo riferimento biblico alla nascita di un linguaggio si trova in Genesi, 2, 19: “Il S. D. che aveva formato dalla terra tutte le bestie dei campi e tutti i volatili del cielo, li portò all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati; qualunque nome l’uomo avesse dato agli esseri viventi sarebbe stato il suo nome”. Quale significato si può attribuire a questo prima traccia di linguaggio, sorto ancor prima che nascesse l’esigenza di comunicazione?
Nell’ebraismo la dimensione linguistica ed acustica predomina certamente su quella visuale. Uno dei momenti maggiormente solenni, quello della rivelazione divina, è caratterizzata in modo esclusivo dall’ascolto, prescindendo totalmente dalla vista (Deut. 4,12): “voi udiste il suono delle parole, ma non vedeste immagine alcuna; soltanto una voce udiste”. Linguaggio e verità rivelata sono indissolubilmente legati[1], sebbene i Maestri del Talmud discutano sull’esclusività dell’ebraico; infatti secondo un opinione nel trattato di Shabbat (12b) la Torah è stata rivelata in tutte le lingue. I primi capitoli della Genesi suscitano una serie di interrogativi, affrontati nei secoli dalle varie tradizioni religiose, relativi al linguaggio. Che lingua parlava D. quando ha creato il mondo? Come comunicava con Adamo? Qual è l’unico linguaggio che si parlava ai tempi della torre di Babele? Tutti questi problemi sono collegati fra di loro, e il nostro approccio per risolverli influenza in modo significativo il nostro approccio nei confronti del linguaggio.
Quando nella Torah è scritto che il nome che Adamo avrebbe attribuito agli esseri viventi sarebbe stato “il suo nome”, cosa si intende dire? Che, come per esempio recepisce la Vulgata, che traduce l’ebraico hù shemò con nominibus suis, i nomi che Adamo attribuisce alle creature rispondono alla loro essenza, o, più semplicemente, che, da quando Adamo ha scelto arbitrariamente questi nomi, noi ne facciamo uso? Questa indecisione è riflessa nella discussione fra Cratilo ed Ermogene nel Cratilo platonico. L’uno sosteneva infatti che una forza sovrannaturale avesse generato i nomi, mentre l’altro credeva che questi fossero arbitrari, ipotesi poi accolta da Aristotele nel De interpretatione. L’approccio nel vicino oriente è certamente differente dal nostro. Il linguaggio è anzitutto veicolo del sacro, lo strumento attraverso il quale la divinità si rivela agli uomini. Proseguendo con la narrazione biblica in Genesi 2,23 sentiremo per la prima volta la voce viva di Adamo, che attribuisce questa volta un nome alla sua compagna, che verrà chiamata ishah (nella Vulgata virago), in quanto derivante da ish. Anche il suo nome proprio sarà Chawwah, perché madre di tutti i viventi (em kol chay). Da questo passo emerge con netta evidenza che il linguaggio non è arbitrario, ma quantomeno etimologicamente corretto[2].
Questo emerge anche da un altro passo in Genesi Rabbah, quando il Signore, confrontandosi con gli angeli circa la creazione dell’uomo, dice loro che la sua saggezza sarà superiore alla loro, e per dimostrarlo fa vedere come, al contrario dell’uomo, gli angeli siano incapaci di dare un nome agli esseri viventi, come risulterà ulteriormente da altri brani nei capitoli successivi della Genesi, come quelli dell’assegnazione del nome a Qain e Noach, per i quali la rispondenza fra il nome e la sua giustificazione funziona solo per l’ebraico. Se i nomi fossero arbitrari questo scarto fra uomini e angeli non sarebbe così evidente. Tale visione non è tuttavia condivisa da tutti gli autori: Maimonide e i suoi discepoli per esempio sostengono la teoria convenzionalista del linguaggio. Nachmanide considera questa posizione al limite dell’eresia, perché rischia di negare la natura divina della Torah. Hirsch nel suo commento alla Torah[3] si dilunga sulla questione: solamente il Signore è in grado di conoscere la vera essenza delle cose. L’uomo può solo giudicare in base al proprio punto di vista individuale, ed è sottoposto agli stimoli esterni, in base ai quali attribuisce i nomi alle cose. E nonostante la fallacia delle sensazioni umane, i nomi che attribuisce sono veri, perché il Signore ha concesso all’uomo il privilegio di attribuire i nomi, e la fede in D., che ha dato all’uomo questo potere, è alla base della veridicità delle conoscenze umane. Togliendo la fede alla scienza, se ne mina il fondamento.
Babele
Un solo linguaggio, una sola intenzione, un solo obbiettivo, un solo ordine sono le caratteristiche della vita collettiva di Babele, che mira alla potenza assoluta, all’impero mosso da una sola volontà. La conseguente nascita delle differenze dei linguaggi, pur essendo fonte di incomprensioni e di rivalità, rappresenta per contro la nascita di culture diverse, che poste a confronto, possono favorire e stimolare il dialogo e il progresso. La multi-etnicità può quindi essere considerata un arricchimento reciproco, una vittoria anziché una sconfitta?
Se facciamo attenzione la posizione del brano sulla torre di Babele nella Genesi è quantomeno sospetto. Infatti nel capitolo precedente, il capitolo 10, dove viene illustrata la discendenza dei figli di Noè, e la suddivisione dell’umanità in settanta nazioni, già si parla per ben tre volte, e non può quindi trattarsi di un caso, di varie lingue. Se è così, e dovessimo rispettare l’ordine cronologico nella narrazione, anche se sappiamo che non è un elemento indispensabile nell’esegesi rabbinica, la differenziazione delle lingue non sarebbe pertanto una punizione, ma un fatto assolutamente naturale. Anzi, attenendoci al testo, il voler parlare un’unica lingua, l’avere pertanto un unico obiettivo, in questo caso contrastare la divinità per mezzo della torre, è uno dei presupposti di quanto avverrà poco dopo, anche se, dobbiamo notare, le conseguenze non saranno disastrose come quelle del diluvio, che portò l’umanità sull’orlo della scomparsa. L’unità, la vicinanza fra gli esseri umani, anche se per perseguire una finalità errata, è ciò che scongiurerà una catastrofe, che avrebbe potuto avere effetti ben più devastanti.
E’ interessante vedere come vari autori arabi[4] abbiano letto questo episodio: la confusione delle lingue nasce dalla terrificante esperienza del collasso della torre. I disastri come distruttori di culture. Ironicamente Voltaire nel Dizionario filosofico scrive di non capire perché Babele è sinonimo di confusione, perché il termine, molto usato nelle capitali dell’antichità, non vuol dir altro che “città di D.”, ed invece rappresenta doppiamente la confusione, la confusione delle lingue e quella degli architetti, che non riuscirono a portare a termine la costruzione[5]. I testi apocrifi e pseudoepigrafi forniscono una serie di elementi interessanti: dopo la confusione delle lingue l’ebraico rimane patrimonio esclusivo di Shem ed ‘Ever, e pertanto dei figli di Israele.
In questi testi l’ebraico viene chiamato lingua della rivelazione o leshon ha-qodesh, lingua del santo. Il senso di quest’ultima espressione è stato variamente interpretato dagli studiosi: secondo alcuni infatti viene così chiamato in quanto utilizzato nel contesto sacrale, per altri perché lingua del Signore. Il Talmud Yerushalmì nel trattato di Meghillah intende l’espressione safah achat, un’unica lingua, che compare all’inizio della narrazione dell’episodio della torre, come la lingua dello yechidò shel ‘olam, l’Unico del mondo[6]. Questa lingua fra l’altro, secondo l’interpretazione di Sof. 3,9 sarà quella che caratterizzerà la fine dei giorni, quando l’umanità parlerà un unico idioma. Questa lingua verrà “impastata”, “diluita” (balal) nelle altre.
Questo fatto di certo comporterà delle conseguenze negative, perché nella tradizione mistica la lingua ebraica ha poteri straordinari, ma possiamo consolarci pensando che in tutte le lingue è presente una porzione dell’ebraico[7]. Isidoro da Siviglia[8] considera la lingua come il principale fattore di divisione: “ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt”. In una società multiculturale, nella quale le differenze vanno salvaguardate, è necessario altresì ricercare un linguaggio comune, individuare i punti di contatto e comunicare, perché altrimenti la ricchezza dei linguaggi e delle culture, anziché rivelarsi elemento portatore di arricchimento reciproco rischiano di divenire fonte di divisione e di contrasto.
L’aramaico
L’aramaico, nato come linguaggio ibrido, generato dalla commistione di dialetti semitici diversi, ha fatto dimenticare l’impiego corrente dell’ebraico biblico, diventato lingua dotta ancor prima della dispersione diasporica degli ebrei. In quali luoghi e in quali tempi l’aramaico si è diffuso nel mondo giudaico, sostituendosi via via all’ebraico nell’oralità della tradizione, fino ad invadere le discussioni rabbiniche del Talmud?
L’abbandono dell’ebraico da parte degli ebrei è un fenomeno tutt’altro che recente, e trova le sue prime manifestazioni in un’epoca molto remota. L’aramaico, già a partire dall’VIII sec. prima dell’era volgare, si proponeva come lingua franca del Vicino Oriente, essendo parlato nei tre principali imperi della zona (assiro, babilonese, persiano). Per oltre tre secoli il popolo ebraico si trovò sotto l’influenza di tali imperi, e l’aramaico era tanto diffuso che, nel momento in cui gli ebrei passarono sotto il dominio dei greci, per oltre un secolo continuarono a parlarlo. Fitzmyer[9] individua cinque fasi nella storia di questa lingua: l’aramaico antico, ufficiale, medio, tardo e moderno.
Questo modello sarà adottato dalla maggior parte degli studiosi. Polemicamente nel libro di Nechemiah (13,24) si sottolinea che “la metà di loro parlava l’asdodeo, ma non sapeva più parlare l’ebraico”. Lo stesso testo biblico non è del resto rimasto immune dall’influenza dell’aramaico, tanto che parti considerevoli del libro di Ezrah e di Daniel sono scritti in quella lingua, e più precisamente in aramaico “ufficiale”, visto che gli autori dei libri erano a loro volta funzionari del governo persiano[10]. Varie strutture che compaiono nelle parti in ebraico del libro di Daniel e nel libro delle Cronache mostrano la familiarità degli autori con le strutture aramaiche[11]. E’ evidente che in un certo momento storico il popolo ebraico abbracciò l’uso della lingua aramaica, rinunciando gradualmente all’ebraico. L’aramaico era parlato, dopo la distruzione del Tempio, sia in Israele che in Babilonia. Questo fenomeno, che si manifestò in terra d’Israele sino al VII sec., ed in Babilonia per almeno altri tre secoli, rischiava di essere fatale per la lingua ebraica: pur essendo il linguaggio tipico delle discussioni rabbiniche, in certi ambiti i rabbini mostrano un certo sospetto nei confronti dell’aramaico: ad esempio già nella Mishnah, relativamente alla preghiera, nel trattato di Sotah (cap. 7) si afferma che alcune parti vanno recitate necessariamente in ebraico.
L’aramaico infatti stava divenendo, e così sarà sino al termine del periodo bizantino, anche la lingua della preghiera privata, tanto che poi i maestri del Talmud diranno (Sotah 33a) che le richieste individuali non devono essere formulate in aramaico perché gli angeli non comprendono l’aramaico[12]. Nel Talmud Yerushalmì nel trattato di Shabbat Rabbì Meir arriva a promettere la vita eterna a coloro che parleranno ebraico, ed allo stesso modo Rabbì Aqivà proibiva la parlata dei gentili. Terminato il periodo dei gheonim, i rabbini continuarono ad utilizzare l’aramaico, essendo la lingua del Talmud e dei Targumim, ma non più come lingua viva, e per questo ancora oggi frequentemente troviamo espressioni aramaiche nei testi rabbinici. L’eccezione più evidente rispetto a questo fenomeno è la composizione in aramaico dello Zohar, che gli studiosi, a partire da considerazioni anche di carattere linguistico, attribuiscono a Moshè de Leon (XIII sec.). In realtà si tratta di un fenomeno ben più esteso fra gli autori medievali, sopratutto in ambito mistico, ed in misura minore in quello legale e poetico[13].
Ancora oggi degli ebrei provenienti dal Kurdistan, emigrati in Israele negli anni ‘50, parlano un dialetto neo-aramaico. Gli studi sull’aramaico sono molto vivi, e c’è da segnalare un progetto in particolare, chiamato CAL[14] (the Comprehensive Aramaic Lexicon), un repertorio lessicografico che accoglie tutti i testi scritti in aramaico, includendo ad esempio il Targum dello prsudo Yehonatan, che come vedremo non tutti gli studiosi avevano accolto nei repertori, per via della sua origine “mista”.
Le traduzioni dall’ebraico della Bibbia
Come si è posto il problema delle traduzioni dall’ebraico della Bibbia in altre lingue, fin dall’epoca della versione in greco dei Settanta? Come si sono affrontate nel tempo le opposte esigenze di universalismo nella conoscenza e nella diffusione dei messaggi biblici, e di salvaguardia dai rischi di travisamento (accidentale o provocato deliberatamente) dei contenuti?
L’abbandono dell’ebraico parlato è sempre stato argomento di discussione tra gli studiosi, già affrontando la questione della lingua parlata dagli ebrei ai tempi della distruzione del secondo Tempio. Sembrerebbe infatti che l’ebraico fosse una lingua parlata correntemente solamente presso alcuni gruppi, e fossero preferiti l’aramaico ed il greco. Molti studiosi considerano l’ebraico della Mishnah, che risente delle influenze dell’aramaico, una lingua erudita, ormai totalmente soppiantata dall’altra nell’uso quotidiano. Alcuni, come Abraham Geiger, l’autore della prima grammatica dell’ebraico mishnico, consideravano questa lingua un aramaico ebraicizzato per motivi religiosi e nazionali in seguito alla disfatta contro Roma[15], ma non la lingua che si parlava nella vita di tutti i giorni. La netta affermazione dell’aramaico è attestata dall’uso consolidato di parafrasare il testo biblico nella lettura sinagogale tramite il Targum, oltre alla redazione in questa lingua di documenti quali la ketubah, il contratto matrimoniale, ed il ghet, l’atto di divorzio. Anche una delle preghiere più popolari il Qaddish, recitato dalle persone in lutto, è scritto in aramaico. Poco sappiamo del periodo in cui fu istituito il Targum.
Secondo la tradizione rabbinica risale addirittura all’epoca di Ezrah, quando il testo biblico venne spiegato all’assemblea dai Leviti. In ogni caso la pratica di tradurre e spiegare il testo non venne istituzionalizzata allora[16]. Il Targum Onqelos alla Torah viene utilizzato ancora oggi, vigendo l’obbligo di leggere la porzione settimanale della Torah due volte nel testo ebraico ed una volta nella traduzione aramaica (shenaim miqrà we-echad Targum). Il Targum Onqelos, generalmente fedele all’originale ebraico, si distingue per la sua “guerra agli antropomorfismi”, inserendo pertanto all’interno della traduzione elementi, derivanti da convinzioni ideologiche, che non compaiono nell’originale. Nel XIX sec. gli studiosi dividevano il Targum in tre differenti tipologie: babilonese (il Targum Onqelos alla Torah e il Targum Yehonatan ai profeti), gerosolomitano (Targum Yehonatan alla Torah, noto anche Pseudo-Yehonatan), e misto (Targum delle cinque meghillot). Altra traduzione degna di menzione fra quelle nate in ambiente ebraico è la versione greca dei Settanta, nata per gli ebrei della diaspora in Egitto, la cui fama fu amplificata dall’utilizzo ambito cristiano. Dalle testimonianze della lettera di Aristea, di Giuseppe Flavio e del Talmud si può ricavare che questa traduzione fosse considerata ispirata.
Il Talmud[17] ritiene che attraverso di essa si concretizzò quanto detto nella Genesi, secondo cui la cosa più bella di Yefet (la lingua dei greci, che discendono da Yefet) risiederà nella tenda di Shem (il popolo ebraico). La traduzione dei Settanta sarà oggetto di discussione fra ebrei e cristiani, perché gli uni accuseranno gli ebrei di avere omesso dei passaggi, gli altri di voler inserire elementi caratterizzanti della propria fede non presenti negli originali. Nel Medioevo Sa’adià Gaon tradusse la Bibbia in arabo. Le traduzioni della Bibbia ebraica elaborate nel mondo cristiano, vista la canonizzazione determinata dalle numerosi citazioni presenti nei Vangeli, hanno svolto un ruolo centrale nell’opera di evangelizzazione di paesi lontani [18]. All’inizio dell’era moderna, la Bibbia venne tradotta nelle principali lingue europee, nel 1422 in spagnolo, nel 1534 in tedesco (la Bibbia di Lutero); nel 1611 venne autorizzata la traduzione in inglese (King James). Fra le traduzioni nate in ambiente ebraico, quelle che esercitarono maggiore influenza furono quella di Mendelssohn alla fine del XVIII sec., quella di Rosenzweig e Buber. In Italia videro la luce le traduzioni di Shadal, Reggio, e quella a cura dell’assemblea dei Rabbini di Italia, coordinati dal rabbino di Torino Dario Disegni, pubblicata mezzo secolo fa e tuttora ampiamente utilizzata.
I linguaggi e dialetti derivati dall’ebraico
Nei secoli scorsi sono sorti nella diaspora ebraica diversi nuovi linguaggi derivati dall’ebraico, tra i quali hanno avuto una particolare rilevanza il giudeo-spagnolo (chiamato anche ladino in spagnolo) nel mondo sefardita, parlato soprattutto nella penisola iberica, e lo yiddish nel mondo ashkenazita, usato nei paesi europei nord-orientali, entrambi nati da esigenze di connubio tra l’ebraico e la lingua locale. Anche in Italia sono sorti nelle varie regioni parecchi dialetti ibridi, come miscugli di parlate locali e di vocaboli ed espressioni dell’ebraico. Come si sono sviluppati e quale impatto hanno avuto sulla cultura e sulla vita ebraica?
Con l’esilio del popolo ebraico nella vita quotidiana si parlava la lingua dei paesi in cui si viveva, anche se con alcune particolarità, che con il tempo diedero vita a nuovi idiomi. Non si tratta di un fenomeno isolato nella storia dell’umanità; infatti ha coinvolto anche altri gruppi religiosi, principalmente cristiani e musulmani. Recentemente i sociolinguisti Hary e Wein hanno introdotto la categoria concettuale di religioletto, “una varietà linguistica scritta e/o orale utilizzata da una comunità religiosa (o in una secolarizzata), in genere localizzata regione specifica[19]”. Gli ebrei mantennero il legame con l’ebraico attraverso la lettura della Bibbia, la preghiera e lo studio dei testi tradizionali. Spesso la corrispondenza era scritta in ebraico, e, quando si incontrava un ebreo proveniente da un altro paese, si comunicava in ebraico. Sino all’emancipazione gli ebrei vivono in uno stato di sostanziale diglossia, parlando nella lingua del luogo e scrivendo in ebraico[20]. Per questo le lingue dei paesi di residenza venivano trascritte in ebraico, perché spesso si trattava dell’unica lingua che gli ebrei sapessero scrivere. Unica eccezione è l’arabo, per via della sua somiglianza con l’ebraico e del suo prestigio culturale nel Medioevo[21].
Nei paesi musulmani la maggior parte degli studiosi e filosofi ebrei si esprimevano in arabo, tanto che alcune delle principali opere del pensiero ebraico, ad esempio la Guida dei perplessi di Maimonide, sono state composte in arabo e successivamente tradotte in ebraico. La maggior parte delle lingue vernacolari parlate dagli ebrei, il giudeo-arabo, il giudeo-persiano, il giudeo-greco, il giudeo-italiano, il giudeo-spagnolo, il giudeo-tedesco, più conosciuto come yiddish, si svilupparono nel Medioevo, spesso sopravvivendo sino ai giorni nostri, sebbene non siano più in molti a parlarle. Con ogni probabilità doveva esistere anche un giudeo-francese, e l’opera di commento di Rashì di Troyes è stata in questo senso molto preziosa, perché, per via della trascrizione in ebraico di termini francesi dell’XI sec. ha permesso di salvaguardare numerose espressioni di quella lingua. Fra tutti questi idiomi certamente quello che ha esercitato l’influenza più forte è l’yiddish, lingua che presenta un forte elemento germanico, affiancato da un nucleo di termini ebraici e aramaici, oltre che francesi e romanzi. In yiddish, sin dal medioevo, sono state scritte molte opere, in particolare dedicate alle donne che non conoscevano l’ebraico. Fra queste si deve segnalare lo Tze’ena ure’ena, una parafrasi del Pentateuco e delle haftarot.
In epoca moderna furono pubblicate centinaia di testate in yiddish in tutto il mondo. Prima della seconda guerra mondiale l’yiddish era la madrelingua di 11 milioni di ebrei. L’yiddish, assieme al ladino e al giudeo arabo dell’Italia meridionale, ha la particolarità di non essere una lingua locale, parlata dalla maggioranza, trascritta in caratteri ebraici, ma un linguaggio differente da quello della maggioranza[22]. Vari fattori, fra cui la dispersione della diaspora ebraica sefardita dopo la cacciata degli ebrei da Spagna e Portogallo, e la crescita demografica, condussero il ladino e l’yiddish ad affermarsi a diascapito di altri idiomi a partire dal XVI secolo. Un caso interessante è quello del giudeo-italiano. Con questo termine, nato in ambito accademico, e impostosi rispetto a “italchiano”, coniato dal Birnbaum nel 1942, ci si riferisce a due differenti realtà, la trascrizione del volgare in caratteri ebraici, tra l’alto Medioevo e l’alto Rinascimento, e le parlate degli ebrei italiani in età moderna e contemporanea. Una definizione che ebbe molta fortuna sulle parlate degli ebrei italiani fa quella di Umberto Cassuto, che parlò di “una specie di koiné degli ebrei italiani, di carattere nettamente centro-meridionale perché appunto nelle province centro-meridionali avevano prevalentemente le loro sedi gli ebrei italiani nell’antichità e per gran parte del medio evo[23]”.
L’ebraico moderno
Il linguaggio ebraico israeliano è nato dalla volontà, ben espressa dalle prime applicazioni degli ebrei immigrati in Israele, di stabilire nella lingua una continuità con il passato e un’apertura verso le esigenze moderne (p. es. tramite i neologismi imposti dalla modernità e le semplificazioni grammaticali e sintattiche). Come è potuto attuarsi questo processo, pressoché unico nella storia, di rivitalizzazione di una lingua antica? Inoltre l’attuale lingua israeliana può continuare a garantire, sotto il profilo semantico, uno stretto legame tra passato, presente e futuro?
Certamente gran parte del merito della sopravvivenza dell’ebraico spetta alla Bibbia[24]. La lingua che gli ebrei erediteranno sarà però ben diversa dalla sua progenitrice, i cui frutti letterari sono stati elaborati in un’epoca in cui la grammatica normativa era del tutto sconosciuta[25]. Questo processo in età moderna fu incoraggiato prepotentemente dagli esponenti dalla Haskalah, primo fra tutti Mosheh Mendelshonn (1729-1786), convinto che gli ebrei dovevano abbandonare l’yiddish, considerato una lingua bassa, e, in attesa di padroneggiare il tedesco, tornare all’ebraico biblico. Mendelshonn promosse una traduzione tedesca della Bibbia, oltre a un commentario in ebraico, il Beur, che riprendeva il commento di Rashì, introducendo idee in sintonia con i tempi. Inoltre crebbe l’interesse nei confronti della filologia ebraica, portando alla nascita del periodico Ha-measef, scritto in ebraico, che, pur uscendo con una certa discontinuità, incuriosì gli ebrei di tutta Europa.
A metà del XIX sec. si iniziò a pubblicare romanzi in ebraico, ma questo esperimento mostrò l’inadeguatezza dell’ebraico biblico per riferirsi agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana nel mondo moderno. I maskilim difatti erano costretti a utilizzare circonlocuzioni azzardate e spesso incomprensibili per esprimere concetti che non erano presenti nel linguaggio biblico. Per questo motivo nella seconda parte del secolo vari autori attinsero anche alle opere della letteratura rabbinica. Ma l’ebraico, sino a questo momento, rimaneva una lingua esclusivamente scritta. Il parlarlo infatti non rientrava nei programmi della Haskalah. Proprio in questi anni emerse però la figura di Eli’ezer ben Yehudah (1858-1922) che si era convinto del fatto che fosse possibile parlare l’ebraico a livello collettivo. Appena ventenne, nel 1878 scrisse un appassionato articolo sul mensile Ha-shachar, in cui esortava gli ebrei a tornare nella terra dei padri, dicendo che “noi ebrei abbiamo il vantaggio di possedere una lingua con cui possiamo ora scrivere tutto ciò che vogliamo e che è in nostro potere parlare se solo lo desideriamo[26]”. A Ben Yehudah dobbiamo il conio di numerosi termini indispensabili nella vita quotidiana.
Ben Yehudah per incoraggiare la rinascita dell’ebraico, formò varie associazioni, ma iniziò ad incidere veramente solamente nel 1904, quando in conseguenza della seconda ‘aliah la situazione in Israele si modificò sensibilmente. Nel 1894 Ben Yehudah iniziò a dedicarsi all’opera della sua vita, assolutamente straordinaria se pensiamo che è stata portata avanti da un solo uomo, che iniziò a vedere luce nel 1910, terminando, postuma, nel 1959: un Thesaurus della lingua ebraica antica e moderna, che conterà complessivamente 16 volumi. Attraverso l’opera di Ben Yehudah vennero mostrate le potenzialità dell’ebraico, e all’inizio del ventesimo secolo questo tornò ad essere una lingua parlata nella vita quotidiana. La spinta definitiva arrivò però con la nascita dello stato d’Israele, quando l’ebraico tornò a essere la lingua ufficiale di uno stato sovrano. Nel XX secolo la letteratura ebraica fiorì, portando Agnon a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1967.
[1] G. Scholem, The name of God and the linguistic theory of the Kabala, Diogenes 79, pp. 59-80.
[2] Vedi U. Eco The search for te perfect language, Blackwell 1995, pp. 7-8.
[3] Gen. 2,19.
[4] Idea riportata in U. Eco, The search for te perfect language, cit., p. 9.
[5] J. Derrida, Difference in translation, translated by Joseph F: Graham, Cornell University press 1985, p. 219.
[6] Vedi M. Levy Rubin, The language of creation or the primordial language: a case of cultural polemics in antiquity, Journal of jewish studies, 1998, p. 311.
[7] Vedi Donatella Di Cesare, Grammatica dei tempi messianici, Milano 2008, pp. 15-16.
[8] Etymologiae IX
[9] J.A. Fitzmyer, “The Phases of the Aramaic Language,” in J.A. Fitzmyer, A Wandering Aramean: Collected Aramaic Essays (Missoula, 1979), pp. 57-84.
[10] W. Schniedewind, Aramaic, the death of written hebrew, and language shift in the Persian period, in Margins of writing, origins of cultures, Chicago 2006, pp. 137-147.
[11] M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica, Giuntina 1994, p. 40.
[12] M. Levy Rubin, The language of creation or the primordial language: a case of cultural polemics in antiquity cit., p. 315
[13] Vedi Y. Liebes, Hebrew and aramai as languages of the Zohar, Aramaic Studies 4.1, pp. 35-52.
[14] Il progetto, dopo un periodo presso l’università Johns Hopkins di Baltimora, è stato trasferito persso l’Hebrew Union College/Jewish institute of religion a Cincinnati, sotto la direzione del professor S. Kaufman.
[15] M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica ,cit., pp. 44-45.
[16] M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica, cit., pp. 47.
[17] TB, Meghillah 9.
[18] S. Zeitlin, The Need for a Jewish Translation and Interpretation of the Hebrew Bible, The Jewish Quarterly Review, New Series, Vol. 64, No. 4 (Apr., 1974), p 269.
[19] Citazione da Piero Capelli, Giudeo lingue e giudeo-scritturein Contatti di lingue-contatti di scritture. Multilinguismo e multigrafismo dal Vicino Oriente Antico alla Cina contemporanea, Venezia 2015, p. 168.
[20] M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica, cit., pp. 73.
[21] M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica, cit., pp. 84.
[22] Piero Capelli, Giudeo lingue e giudeo-scritture, cit., p. 167.
[23] Umberto Cassuto, Saggi delle antiche traduzioni giudeo-italiane della Bibbia in Annuario di studi ebraici 1934, p. 107
[24] M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica, cit., p. 25.
[25] M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica , cit., p. 31.
[26] Citato in M. Hadas Lebel, Storia della lingua ebraica, cit., p. 105.