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Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz. e note di Ralph Anzarouth
Commento di Rav di Porto
17. Come acquisire la Purezza
Ecco, il modo per acquisire questa virtù è facile per chi si fosse già sforzato e avesse già acquisito quelle esposte in precedenza. Infatti, quando si pensa e si riflette ai difetti dei piaceri e dei beni di questo mondo, come già spiegato 1, si prova disgusto per loro e li si considerano niente di più che mali e difetti del mondo materiale buio e grezzo. E quando si realizza che si tratta proprio di mali e di difetti è certamente più facile separarsene e cacciarli dal proprio cuore. Perciò, più si insiste a riconoscere la pochezza della materialità e dei suoi piaceri, più diventa facile purificare i propri pensieri e il proprio cuore per non abbandonarsi assolutamente e in nessun modo al proprio istinto malvagio[1]. Anzi, si finisce per occuparsi delle faccende materiali esclusivamente come di una cosa che si è costretti a fare.
Infatti, così come abbiamo distinto la purezza del pensiero in due, atti materiali e atti del servizio divino, così bisogna operare la stessa distinzione quando si discute dei metodi per acquisirla. Perché per purificare il proprio pensiero nei confronti delle occupazioni materiali bisogna continuare a osservare la bassezza del mondo e dei suoi piaceri, come già ricordato. D’altra parte, per purificare il proprio pensiero rispetto alle azioni del servizio di Hashem bisogna insistere e prestare attenzione alla trappola tesa dagli onori e dai loro inganni; bisogna anche abituarsi a fuggirli. In questo modo, si evita di prestare attenzione durante il proprio servizio alle lodi e ai complimenti del prossimo e si dedica invece il proprio pensiero principalmente al nostro Signore, che è la nostra gloria, il nostro unico bene e la nostra perfezione, non ce n’é nessun’altra. Infatti è detto (Devarim 10, 21): “Egli è la tua gloria, Egli è il tuo Signore”.
E una delle azioni che conducono l’uomo a questa virtù è la preparazione al servizio divino e alle Mitzvot. Cioè, il compimento di una Mitzvà non deve essere estemporaneo, in modo tale che la propria attenzione non è ancora completa e quindi non ci si può concentrare su ciò che si sta facendo. Invece, bisogna predisporre la cosa, prepararsi con calma fino a raggiungere la concentrazione e in seguito riflettere a ciò che si sta per fare e davanti a Chi lo si sta facendo[2]. Questa preparazione permette di scacciare facilmente tutte le motivazioni inopportune e di fissare nel proprio cuore la motivazione 2 autentica e appropriata. E si noti che i primi devoti aspettavano un’ora prima di cominciare a pregare (Talmud Bavli, trattato Berakhot 30b), per poter dirigere il proprio cuore verso l’Eterno[3]. Ed è ovvio che essi non sprecavano un’ora inutilmente, anzi si concentravano e preparavano il loro cuore alla preghiera che stavano per cominciare, mentre cacciavano via i pensieri estranei e si caricavano del timore e dell’amore [di D-o] necessari. Ed è detto (Giobbe 11, 13): “Se prepari il tuo cuore e tendi le tue mani verso di Lui”.
Ciò che impedisce questa virtù è la mancanza di attenzione a quanto sopra e cioè: l’ignoranza dell’inanità dei piaceri, la rincorsa agli onori e la poca preparazione al servizio di D-o. Perché i primi due tentano il pensiero e lo attirano verso le motivazioni esteriori, come un’adultera che avesse relazioni con estranei, pur essendo sposata a suo marito. E a questi pensieri inopportuni fu già dato il nome di “perversione del cuore”, come è detto (Numeri 15, 39): “E non vi pervertirete dietro ai vostri cuori e dietro ai vostri occhi, che vi inducono alla perversione”. Perché il cuore si distacca dalla visione integra, alla quale dovrebbe unirsi, e invece si dirige verso vanità e ingannevoli illusioni. E la scarsa preparazione [al servizio di D-o] impedisce di sradicare l’ignoranza naturale che deriva dall’attaccamento alle cose materiali e che con il suo fetore inquina il servizio divino. E ora spiegheremo la virtù della devozione.
Note del traduttore:
[1] Si veda il capitolo 15.
[2] Il termine originale “Kavanà” è praticamente intraducibile in italiano. Per dare un’idea, la Kavanà appropriata richiede che il nostro pensiero sia corretto: sia nella forma (concentrazione, motivazione) sia nel contenuto (intenzione, significato) sia riguardo al contesto (“Sappi di fronte a Chi ti trovi”). Per quanto complicata da raggiungere, la Kavanah è necessaria per dare efficacia alle nostre preghiere e alle nostre Mitzvot.
18. La Devozione (Chassidut)
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La virtù della devozione richiede veramente una lunga spiegazione, perché parecchie persone osservano molti riti e usanze dando loro il nome di devozioni, benché essi non siano altro che simulacri di devozione, non avendone né l’apparenza, né la forma né l’effetto[4]. E ciò è dovuto alla mancanza di attenzione e di riflessione concreta da parte di coloro che seguono questa linea di condotta, perché non hanno fatto lo sforzo e non si sono dati da fare per scoprire le vie di Hashem in modo chiaro e diretto[5]. Invece, essi hanno scelto la loro devozione adottando la prima opinione in cui si sono imbattuti senza approfondire l’argomento e senza soppesarne gli elementi sulla bilancia della saggezza[6]. In questo modo, essi hanno corrotto il concetto di devozione nelle menti delle masse, inclusi alcuni intellettuali, dando adito alla convinzione che la devozione dipenda da cose inutili o contrarie al buon senso e alla valida conoscenza; essi pensano che la devozione consista unicamente nel pronunciare numerose suppliche, lunghe confessioni[7] ed esagerati piagnistei[8] e genuflessioni[9], infliggendosi penitenze esotiche 1 con le quali l’uomo giunge allo stremo, come l’immersione nel ghiaccio e nella neve e cose di questo tipo.
Essi infatti non sanno che malgrado alcune di queste cose siano necessarie a chi fa Teshuvà e alcune altre siano appropriate ai Prushim, ciononostante la devozione non si basa assolutamente su di esse: poiché se è vero che la migliore di quelle usanze può essere adatta ad accompagnare l’azione del devoto, tuttavia la devozione in sé consiste in qualcosa di molto profondo che va capito correttamente ed è basata su principi di grande saggezza e sul perfezionamento totale dell’azione[10], ciò che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni persona saggia, poiché solo i saggi lo possono raggiungere veramente. E dissero i Maestri di benedetta memoria (Massime dei Padri 2, 5): “L’ignorante non può essere un devoto”.
E spiegheremo questo argomento con ordine: l’essenza della devozione consiste in ciò che dissero i Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Berakhot 17a): “Felice colui che si impegna nella Torà e dà soddisfazione al suo Creatore[11]“. Ciò significa che le Mitzvot comandate a tutti gli Ebrei sono già conosciute ed è noto pure il limite degli obblighi da esse imposte; e comunque, chi ama veramente il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, non intende accontentarsi di mettere in pratica solamente ciò che è notoriamente obbligatorio per tutti gli Ebrei in generale: al contrario, egli si comporta come un figlio che ama suo padre. E quando questi rivela una delle sue volontà, subito il figlio si prodiga a compierla e a metterla in atto in ogni modo. E anche se il padre ha solo abbozzato un unico e rapido cenno, questo basta al figlio per intuire la sua volontà e fare quindi per lui anche ciò che non è stato esplicitamente richiesto, poiché ha già capito da sé che questa sarà una fonte di soddisfazione [per suo padre] e non aspetta quindi di ricevere una ulteriore richiesta né una più esplicita. E vediamo costantemente[12] questo tipo di comportamento tra amici affezionati, tra congiunti, tra padri e figli. La regola dice che tutti coloro che si vogliono veramente bene, anziché prendere a pretesto il fatto di non avere ricevuto una richiesta più esigente e di aver comunque già eseguito tutto ciò che era stato loro comandato esplicitamente, piuttosto deducono dalla richiesta l’intenzione di chi l’ha espressa e fanno il possibile per realizzare ciò che si presuppone che gli farà piacere.
La stessa cosa succede anche a chi ama fedelmente il proprio Creatore, poiché anch’egli fa parte di coloro che amano e perciò le Mitzvot note e riconosciute gli servono unicamente come indicazione, per capire che quella è la direzione voluta e desiderata dal Signore, benedetto sia il Suo Nome[13]. E di conseguenza non si accontenta di eseguire solo ciò che è stato esplicitamente comandato, né pretende di assolvere i propri obblighi compiendo unicamente ciò che gli è imposto comunque. Invece, al contrario, avendo capito che la volontà del Signore, sia benedetto il Suo Nome, va in una determinata direzione, [il devoto] prende la decisione di impegnarsi proprio in quella direzione, dedicandosi a soddisfarne tutti gli aspetti che giudica essere visti di buon occhio da D-o benedetto. Questo si chiama “Dare soddisfazione [Nachat] al proprio Creatore”.
Ne risulta che la devozione è l’estensione del compimento di tutte le Mitzvot includendovi tutti i dettagli e le condizioni possibili e auspicabili.
Come vedi, la devozione appartiene alla stessa categoria dell’astinenza: solo che quest’ultima si riferisce ai precetti negativi 2, mentre la prima concerne i precetti positivi. Comunque, il concetto che caratterizza queste due qualità è lo stesso: aggiungere a ciò che ci è stato esplicitamente ordinato quelle aggiunte che, a giudicare da ciò che ci è noto, riteniamo che daranno soddisfazione a D-o benedetto. Questa è la dimensione della vera devozione. E ora ne vedremo le principali componenti.
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Note del traduttore:
[1] In particolare, penitenze e flagellazioni copiate dagli idolatri e che non hanno ovviamente nessuna validità.
[2] Come già esposto al capitolo 13, chi pratica l’astinenza allarga il perimetro dei precetti negativi per assicurarsi di non infrangere alcun divieto. Egli rinuncia quindi ad alcune cose permesse, trattandole come se fossero dei divieti.
Commento
[1] Come si dice, “mashiv ha-ruach morid ha-gheshem” chi vuole restaurare il proprio spirito (ruach), deve diminuire la materialità (gheshem/gashmiut). Se in un recipiente pieno d’olio entra una goccia d’acqua, ne esce una di olio. Allo stesso modo ogni concessione che viene fatta alla materialità comporta una rinuncia nella Torah.
[2] Ci sono due aspetti differenti: concentrarsi su cosa si sta facendo e davanti a chi si sta compiendo una certa azione, e chiaramente non si può escludere nessuno di questi aspetti.
[3] Nello Shulchan ‘Arukh (Orach Chayim cap. 98) viene delineata la preparazione alla tefillah ed è scritto che si deve pensare di avere la presenza divina davanti a sé, e allontanare pertanto ogni pensiero che ci assilla, perché se dovessimo parlare di fronte a un re in carne ed ossa prepareremmo con attenzione le nostre parole.
[4] Una massa informe, come del fango, non ha alcuna similitudine con l’oggetto del quale saranno materia, ed anche un oggetto che ha avuto una qualche lavorazione, come un asse di legno, non la ha, ed anche nella fase ulteriori della lavorazione, prima della sua conclusioni, a queste parti mancherà qualcosa. Questi atti di cui il Ramchal parla sono nella stessa relazione di queste materie incomplete rispetto alla chassidut.
[5] Oltre alla riflessione per raggiungere delle conclusioni corrette è indispensabile affaticarsi a dovere.
[6] Chakham è chi vede in anticipo le conseguenze e valuta l’influenza di ciascuna cosa. Senza questo tipo di ragionamento qualsiasi valutazione è monca e fuorviante.
[7] Sha’arè Teshuvah (4,21-22) scrive che il vidduy è una delle parti fondamentali della teshuvah, ma non come unità indipendente e comunque senza esagerare. Il vidduy è una parte di un processo.
[8] Sha’arè Teshuvah (1,15) scrive che anche il pianto è parte del processo di teshuvah, ma anche per esso vale quanto detto sul widduy.
[9] Lo Shulchan ‘Arukh (Orach Chayim, cap. 113) scrive che ci si deve inchinare solamente nei punti prescritti dai chakhamim, ma si riferisce solo alla ‘amidah, mentre nelle altre parti è consentito.
[10] La chassidut non è staccata dal corpo delle mitzwot e non costituisce un’unità indipendente, ma è un loro allargamento, come Ramchal scriverà esplicitamente alla fine del capitolo.
[11] Non si pensi, come molti fanno, che lo studio della Torah sia parte del “dare soddisfazione al proprio Creatore”, e che pertanto la scrupolosa applicazione nella pratica delle mitzwot sia la chiave per raggiungere la chassidut. Infatti per essere chassid ci si deve impegnare molto nello studio della Torah (“l’’am ha-aretz non è chassid”), ed anzi è impossibile che senza tale costanza si raggiunga questo livello, come è detto in massekhet Meghillah (6b): “ho trovato e non mi sono affaticato, non gli credere”. Troviamo lo stesso ordine nella quinta berakhah della ‘amidah (hashivenu) dove prima di avvicinarci al servizio divino, siamo tenuti a tornare alla Torah.
[12] Le mitzwot sono limitate nello spazio e nel tempo, ma il loro spirito accompagna gli individui in ogni luogo e tempo; inoltre vi sono delle mitzwot perpetue.
[13] Non si deve considerare la chasidut come un’aggiunta rispetto alle mitzwot, ma al contrario la Torah non è altro che una manifestazione di quanto essa cela. Allo stesso modo l’unica mitzwah che Adamo aveva e i sette precetti noachidi trovano ulteriore manifestazione nelle 613 mitzwot e nonostante questo diciamo che i patriarchi praticavano tutta la Torah. La differenza è però che l’estensione di “chi è comandato e fa” in questo modo si è allargato sensibilmente, ma rimane tuttavia spazio per il servizio individuale, proprio nella chassidut. I rishonim hanno detto che “tutto è compreso in Anokhì”, perché ad un grande sapiente questo sarebbe sufficiente per ricavarne tutta la Torah.