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Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz. e note di Ralph Anzarouth
Commento di Rav Somekh
Capitolo 8 – Come acquistare lo Zelo
I mezzi con cui si raggiunge lo zelo sono gli stessi con cui si acquisisce la prudenza1 e anche i vari gradi sono gli stessi; come già ricordato, le loro caratteristiche sono molto simili, se non che lo zelo si applica ai precetti positivi (i comandamenti) mentre la prudenza si riferisce ai precetti negativi (i divieti). E quando l’uomo si rende conto del grande valore delle Mitzvot e dell’importanza dell’obbligo che ha di compierle, il suo cuore si desta certamente al servizio di D-o e non se ne distoglie.
Tuttavia, osservare l’immensa bontà che il Santo, benedetto Egli sia, prodiga verso l’uomo in ogni momento e in ogni circostanza può incrementare questa presa di coscienza, così come le grandi meraviglie che gli dispensa sin dalla nascita e fino al suo ultimo giorno. E più osserva e riflette a queste cose, più capisce di avere un immenso debito verso il Signore che gli prodiga quel bene; e questi saranno gli strumenti grazie ai quali non si impigrisce né si scoraggia dal proprio servizio di D-o, poiché non potendo certamente ripagare Id-io benedetto per la Sua bontà, perlomeno ringrazierà il Suo Nome e compirà i Suoi precetti.
E infatti non c’è una persona in qualsiasi situazione, povero o ricco, sano o malato, che non veda nella propria condizione numerose meraviglie e atti di bontà. Infatti, il ricco e il sano sono già in debito con D-o benedetto per la loro ricchezza e salute. Il povero è in debito con Lui perché, perfino nella sua miseria, gli fornisce il suo sostentamento per vie miracolose e prodigiose e non lo lascia morire di fame; il malato [è in debito con Lui] perché lo sostiene nelle difficoltà della sua malattia e delle sue piaghe e non lo lascia deperire.
E si può tenere lo stesso ragionamento in tutte le altre situazioni, dimodoché non troverai nemmeno una persona che non riconosca di essere in debito con il Creatore.
E in chi osserva quei favori che riceve dal Signore benedetto nascerà certamente una aspirazione a impegnarsi nel Suo servizio, come esposto in precedenza, e a maggior ragione se rifletterà al fatto che tutto il proprio benessere dipende da Lui. Ciò che gli è necessario e indispensabile proviene da D-o benedetto e da nessun altro; perciò sicuramente non si distrarrà dal compiere il servizio del Signore benedetto e non mancherà ai propri obblighi verso di Lui.
E noterai che ho incluso qui [nella sezione sullo zelo] gli stessi tre livelli che ho descritto [nella sezione] sulla prudenza, poiché rispondono agli stessi criteri e si possono dedurre l’uno dall’altro2:
- per coloro il cui livello di comprensione è ottimo, lo stimolo proviene dal senso del dovere e [dalla consapevolezza] del valore e dell’importanza delle proprie azioni;
- per coloro che si trovano un gradino più in basso, [lo stimolo è] l’Olam Haba (il Mondo Futuro) con gli onori [che ci si aspetta di ottenere], onde evitare la vergogna di scoprire, al momento di ricevere la ricompensa, il bene che si sarebbe potuto ottenere3 e che invece è andato perso;
- e per le masse, [lo stimolo è dovuto a] questo mondo e al tornaconto personale, come spiegato in precedenza.
Note del Traduttore:
[1] Si veda il capitolo 2.
[2] Si veda il capitolo 4.
[3] Dedicandosi maggiormente alle Mitzvot.
Commento al capitolo 8
Il suo cuore si desta certamente al servizio di D. e non se ne distoglie. Come già per la vigilanza (zehirut), così anche per lo zelo (zerizut) è necessario uno studio preliminare approfondito. Nel momento in cui si dovesse invalidare del tutto una certa attitudine negativa senza rendersi conto che in alcuni casi specifici potrebbe invece presentare aspetti positivi, questi ultimi seguiterebbero a reclamare attenzione e a rafforzare lo Yetzer ha-Ra’. Per debellare il male è infatti necessario conoscere la sua differenza rispetto al bene fin nei minimi dettagli. Per esempio: R. Sa’adyah Gaon scrive che la pigrizia rappresenta un’illuminazione del Mondo a Venire (Sefer ha-Emunot we-ha-De’ot, 10,16). Se dicessimo a chi è pigro che il suo atteggiamento è sbagliato in assoluto, non otterremo molto. Ma se gli spiegassimo che la sua pigrizia è semplicemente fuori posto e che nel frattempo si deve lavorare, ecco che si alzerebbe dal letto (presupponendo naturalmente una volontà di fondo della persona a compiere il proprio dovere).
Così come le grandi meraviglie che gli dispensa fin dalla nascita e fino al suo ultimo giorno. E’ qui espresso il tema della gratitudine. Come si può davvero pensare di descrivere tutte le opere di H. e di ricompensarlo commisuratamente? Ramchal risponde che l’uomo può esprimere la sua gratitudine a H. mettendo in pratica la Torah e le Mitzwòt. Il Talmud (Meghillah 18a) commenta il versetto: “Chi può narrare tutte le prodezze di H.? Chi può far udire tutta quanta la Sua lode?” (Tehillim 106,2) nel senso: A chi si addice di narrare tutte le prodezze di H.? A chi è in grado di pronunciare tutta la Sua lode: cosa che nessuno è in grado di fare senza correre il rischio di limitarla e di diminuirne la portata. Il Maharal di Praga (Ghevurot H. 1) distingue perciò fra una descrizione della Divinità di tipo filosofico, che è proibita, perché definire H. è impossibile, e una enumerazione delle Sue virtù finalizzata a esprimerGli il nostro ringraziamento, che invece è commendevole in quanto parte degli obblighi morali dell’essere umano.
Un immenso debito verso il S. che gli prodiga quel bene. Per Ramchal il mondo è fondamentalmente buono (cfr. Bereshit 1,31), ancorché non sempre comodo. Per questa ragione è compito dell’uomo localizzare gli elementi positivi della propria vita e rafforzarli, perché costituiscono l’essenza della sua stessa presenza in questo mondo. Maimonide (Moreh Nevukhim, II, 13) scrive che il bene è ciò che esiste. Ciò che non esiste in quanto tale non è male, proprio perché non esiste. La sofferenza è l’esito della mescolanza in cui viviamo fra ciò che esiste e ciò che non esiste. Occorre compensare e riempire ciò che non esiste tramite un “aiuto” che gli si contrapponga (cfr. Bereshit 2,13).
E infatti non c’è una persona in qualsiasi situazione, povero o ricco, sano o malato, che non veda nella propria condizione numerose meraviglie e atti di bontà. Già Maimonide (Moreh Nevukhim 53,3) scrive che l’esistenza stessa dell’uomo è il chessed Divino per eccellenza. La perfezione dell’uomo non si esprime nelle sue funzioni fisiologiche e anche qualora fosse affetto da handicap o da gravi malattie, ciò non gli impedirebbe di essere comunque un individuo completo.
E in chi osserva quei favori che riceve dal S. benedetto ascerà certamente una aspirazione a impegnarsi nel Suo servizio. Cfr. Maimonide, Hil. Yessodè ha-Torah 2, 1-2: “E’ Mitzwah amare e temere il D. glorioso e possente (cfr. Devarim 6,5).. E come si può giungere ad amarlo e temerlo? Allorché l’uomo si concentra sulle Sue azioni e sulle Sue creature meravigliose e attraverso queste scorge la Sua sapienza, che non ha valore né limite definito, immediatamente egli ama, loda, encomia (il Creatore) e prova un gran desiderio di conoscere il Suo grande Nome”. Mentre Maimonide pone soprattutto l’accento sull’aspetto intellettualistico della “conoscenza” di H., Ramchal invece insiste sull’aspetto pratico: la grandezza della creazione spinge a obbedire al suo Creatore e a osservare le Mitzwòt. “Tre feste di pellegrinaggio festeggerai per Me nell’anno” (Shemot 23,14). Le feste annuali commemorano i miracoli che H. fece per noi: ci trasse dall’Egitto (Pessach), ci diede la Torah sul Monte Sinai (Shavu’ot), ci fornì riparo nel deserto per 40 anni con le “nubi di gloria” (Sukkot). Ricordare questi miracoli “a suo tempo” è anzitutto un atto di doverosa gratitudine nei Suoi confronti. Non solo. Scrive il No’am Elimelekh che se effettivamente manifestiamo gioia per questo, la nostra gioia si comunicherà in Alto, risveglierà la Misericordia Divina e H. rinnoverà per noi altri miracoli di cui potremmo aver bisogno come in antico. עיני ה’ אל צדיקים“Gli occhi di H. sono rivolti ai Giusti” (Tehillim 34,16): Egli guarda come questi si comportano durante le feste e ne trae ispirazione affinché la Sua provvidenza si riversi vigile su di noi per tutto il resto dell’anno.
Per coloro il cui livello di comprensione è ottimo, lo stimolo proviene dal senso del dovere e dalla consapevolezza del valore e dell’importanza delle proprie azioni. Torna anche qui, come già a proposito della zehirut, la distinzione fra coloro che aspirano alla shelemut e gli individui normali. I primi sono chiamati a impegnarsi nelle Mitzwòt fini a se stesse: non per il risultato che conseguono le buone azioni, ma per il loro valore intrinseco e perché vi scorgono uno strumento di elevazione. Per gli altri sarà invece di stimolo la prospettiva di una ricompensa.
Capitolo 9 – Gli ostacoli dello Zelo e come evitarli
I fattori che ostacolano lo zelo sono gli stessi che incoraggiano la pigrizia. Il più deleterio di tutti consiste nella ricerca dell’ozio fisico, l’avversione allo sforzo e la passione sfrenata per i piaceri. Infatti, una persona con queste caratteristiche troverà sicuramente molto pesante il servizio del Creatore, poiché chi desidera consumare i suoi pasti in tutta calma e tranquillità e dormire senza alcun disturbo, rifiutando di incamminarsi se non al proprio passo lento e tutto questo genere di cose – sarà difficile per lui alzarsi la mattina per recarsi in sinagoga o abbreviare la durata del proprio pasto per dedicarsi alla preghiera di Minchà prima del tramonto o uscire per compiere una Mitzvà anche quando il momento non è il più agevole; e a maggior ragione, [gli sarà difficile] affrettarsi a compiere una Mitzvà o a studiare la Torà. E chi prende quelle abitudini perde la capacità di imporre a sé stesso il comportamento contrario qualora lo desiderasse, poiché la sua volontà è ormai prigioniera di quell’abitudine, diventata per lui una seconda natura.
E infatti l’uomo deve prendere coscienza di non trovarsi in questo mondo per riposare, bensì per impegnarsi e darsi da fare; e ci si deve comportare unicamente come salariati che lavorano per il loro datore di lavoro, come disse [Rav Nachman bar Yitzchak] (Talmud Bavli, trattato Eruvin 65a): “Noi lavoriamo alla giornata“; e come i soldati che partono in azione, i cui pasti sono consumati di volata, il cui sonno è fugace e che sono costantemente pronti alla battaglia. E di ciò è detto (Giobbe 5, 7): “Perché l’uomo è nato per faticare“. E quando si abituerà a condursi in questo modo, troverà di certo che il compito gli è facile, poiché non gli mancheranno l’attitudine e la preparazione per [effettuarlo]. E così dissero i nostri Maestri di benedetta memoria nelle Massime dei Padri (Avot 6, 4): “Questa è la via della Torà: mangerai pane e sale, berrai acqua con misura e dormirai per terra“, il che rappresenta il massimo distacco dall’ozio e dai piaceri.
Un altro degli ostacoli allo zelo è costituito dall’eccessivo timore e dalla grande apprensione per il futuro e per ciò che esso porta con sé: poiché una volta si teme il freddo o il caldo, un’altra gli ostacoli, un’altra i malanni, un’altra il vento e così via. È ciò che disse il re Salomone, che la pace sia su di lui (Proverbi 26, 13): “Dice il pigro: c’è un sciacallo per strada, un leone tra le vie!” E i nostri Maestri hanno già deplorato questo vizio e lo hanno attribuito ai peccatori. E un testo corrobora la loro opinione, poiché è scritto (Isaia 33, 14): “I peccatori di Tzion si sono impauriti, il terrore ha colto gli adulatori“. Finché uno dei grandi [Maestri] disse a un suo allievo, vedendolo spaventato (Talmud Bavli, trattato Berakhot 60a): “Sei un peccatore1!” Invece fu detto a questo riguardo (Salmi 37, 3): “Abbi fiducia in D-o e fai il bene, risiedi nel paese e coltiva la fede“.
Il principio generale è che l’uomo deve considerare provvisorio il proprio passaggio in questo mondo, ma permanente il proprio servizio divino: che di tutte le cose di questo mondo si accontenti e gli basti ciò che gli capita, che prenda [solo] ciò che gli arriva in mano, che stia lontano dall’ozio e vicino al lavoro e allo sforzo, che il suo cuore abbia saldamente fiducia nell’Eterno e che non tema gli eventi futuri né eventuali traversie.
E se ribatterai che i Maestri hanno sempre imposto l’obbligo all’uomo di fare la massima attenzione alla propria persona e di non mettersi mai in pericolo, perfino quando si tratta di un giusto che può contare sulle sue [buone] azioni; e dissero (Talmud Bavli, trattato Ketubot, 30a): “Tutto è nelle mani del Cielo, tranne febbri e raffreddori2“. E la Torah dice (Deuteronomio 4, 15): “E farete molta attenzione alle vostre vite“; ciò significa che non bisogna contare su questa sicurezza [nella Provvidenza] in modo assoluto e dissero (Talmud Bavli, trattato Pesachim 8b) [che questo è vero] “perfino quando si compie una Mitzvà“. La risposta è che ci sono più tipi di timore: c’è il timore appropriato e c’è il timore sciocco; c’è la sicurezza e c’è la stupidità, perché il Signore, benedetto Egli sia, ha dotato l’uomo di un intelletto capace e di un ragionamento raffinato affinché si comporti come si deve e si astenga dalle cose nocive, create per punire i malvagi. E colui che sceglie di non comportarsi con saggezza mettendosi in pericolo non fa prova di fiducia, bensì di stupidità. E così costui commette peccato perché trasgredisce la volontà del Creatore, benedetto sia il Suo Nome, che vuole che l’uomo faccia attenzione a sé stesso.
E così, oltre al pericolo in cui incorre in questo modo a causa della sua mancanza di prevenzione, costui si rende personalmente meritevole di essere punito a causa del peccato che commette ed è proprio questo peccato che lo conduce alla punizione3.
Perciò questa cautela e questo timore basato sul primato della saggezza e della ragione sono il [comportamento] più appropriato, del quale fu detto (Proverbi 22, 3): “L’uomo accorto, quando scorge il pericolo, si nasconde; invece gli stupidi proseguono e vengono puniti“. Il timore stupido è quello di colui che accumula precauzioni su precauzioni, fobie su fobie e si cautela eccessivamente, oltre alle precauzioni già prese, finendo per tralasciare la Torà e il servizio di D-o.
E la regola per distinguere questi due tipi di timore è quella usata dai nostri Maestri di benedetta memoria, che dissero (Talmud Bavli, trattato Pesachim 8b): “Laddove il danno è frequente, il caso è diverso“, perché dove il danno è frequente e conosciuto bisogna fare attenzione, ma in un luogo che non è considerato pericoloso, non bisogna temere4. E a questo proposito fu detto (Talmud Bavli, trattato Chulin 56b): “Non ci si preoccupa di un problema che non è stato [ancora] constatato5.”
[E il detto] “Il saggio6 può contare solo su ciò che che vedono i suoi occhi” è proprio il senso del versetto citato in precedenza “L’uomo accorto, quando scorge il pericolo, si nasconde“, che si riferisce a chi si nasconde da un pericolo visibile e non da una ipotetica eventualità futura. Ed è veramente il significato del versetto che ho citato in precedenza “Dice il pigro: c’è un sciacallo per strada ecc.”. E i nostri Maestri di benedetta memoria l’hanno interpretato questo problema come una barriera fisica, per mostrare a che punto la paura immotivata riesca a impedire all’uomo il compimento di una buona azione. E dissero (Midrash Deuteronomio Raba 8,6): “[Il re] Salomone disse sette cose riguardo al pigro. Quali? Dicono al pigro: Il tuo maestro è in città, vai a imparare la Torà da lui, e quegli risponde: Io temo il leone che si trova lì in strada; Il tuo maestro è nel quartiere, risponde: Io temo che il leone sia già nelle nostre vie; gli dicono: Ecco [il tuo maestro] è a casa tua, risponde: Se vado a trovarlo, troverò la porta chiusa; gli dicono: È aperta, e quando non sa più cosa rispondere, risponde loro: Che la porta sia aperta o chiusa, io voglio dormire ancora un po’, ecc.7 si consulti colà”.
Hai quindi capito che non è la paura che suscita in lui la pigrizia, ma è la pigrizia che innesca la sua paura. E l’esperienza quotidiana in tutte queste cose insegna che accade proprio così e per la maggioranza delle persone è ovvio e risaputo che questo comportamento è abituale per lo stolto; chi ragiona su questo argomento lo troverà assolutamente corretto e chi è intelligente capisce facilmente8.
Ritengo di avere ormai esposto il concetto di zelo quanto basta per destare il cuore: il saggio approfondirà la sua saggezza e continuerà ad arricchirsi di insegnamenti morali.
E vedi che lo zelo merita di essere posto un gradino sopra la prudenza, perché nella maggior parte dei casi l’uomo non diventa zelante senza aver prima acquisito la virtù della prudenza. Poiché chi non guida il proprio cuore ad agire con cautela e a valutare [il proprio] servizio divino e le sue componenti (ciò che definisce la virtù della prudenza, come già esposto in precedenza9) difficilmente servirà D-o con entusiasmo e con ardore, lanciandosi appassionatamente verso il proprio Creatore. Questo succede perché è ancora immerso nelle tentazioni materiali e rincorre la propria routine, che lo allontana da tutto ciò. Invece, dopo avere aperto gli occhi per osservare i propri atti e agire con prudenza, avendo calcolato il valore delle Mitzvot (precetti) a fronte delle Averot (trasgressioni), come abbiamo ricordato in precedenza, è più facile allontanarsi dal male e desiderare il bene affrettandosi a compierlo. E questo è evidente.
Note del Traduttore:
[1] Il Maestro era Rabbi Yishmael Berabbi Yossi. Il motivo del rimprovero era che la paura appartiene ai peccatori, come anticipato dal versetto di Isaia citato in precedenza.
[2] Questa espressione “Tzinim Pachim” era già stata usata nel libro dei Proverbi di re Salomone (22, 5) per indicare (secondo la maggior parte dei commentatori) spine e ostacoli. Nella versione del Talmud si propende piuttosto per malanni causati dall’eccessiva esposizione al caldo e al freddo. In ogni caso, si tratta di guai da cui l’uomo può e deve guardarsi.
[3] In pratica, chi si espone ai pericoli commette un peccato e conducendosi come un incosciente si merita i danni che si è procurato da sé.
[4] È forse il caso di ricordare quanto abbiamo studiato altrove, che i guai che affliggono l’uomo sono spesso da imputare al suo stesso comportamento: per esempio, quando si mette in pericolo o quando si imbarca in futili litigi, vendette e ripicche.
[5] L’autore cita adattandolo un principio della Ghemarà che riguarda le regole alimentari.
[6] Il lettore attento avrà riconosciuto in questa frase una versione appena diversa da quella utilizzata nel Mishné Torà di Rambam (Libro sui Giudici, Leggi del Sanhedrin 23, 9), in cui è applicata al giudice anziché al saggio: quando deve giudicare un accusato o stabilire chi ha torto tra due contendenti, il giudice (che possiede unicamente una conoscenza indiretta dei fatti) deve fare il migliore uso possibile dei dati oggettivi di cui dispone.
[7] La serie di pretesti narrati nel Midrash non finisce con questa dormita, anzi ricomincia l’indomani mattina…
[8] Bella citazione da Proverbi 14, 6. Nella sua versione originale, il versetto dice che chi ha studiato molto e bene, quando cerca una informazione nella sua memoria la trova facilmente.
[9] Si consiglia a chi avesse già dimenticato questi concetti di ripassarli nel capitolo 2.
Commento al capitolo 9
Che incoraggiano la pigrizia. Il mondo fisico tende all’entropia, cioè all’inerzia. Similmente la pigrizia è legata alla corporeità. D. invece è attivo e sollecita attività: “La Shekhinah non è presente… nella pigrizia” (Berakho t31a). L’uomo stesso è fatto anche di anima e ciò dovrebbe spingerlo all’azione. Antidoto alla pigrizia è darsi un obbiettivo importante e ambito per il proprio futuro.
E chi prende quelle abitudini perde la capacità di imporre a se stesso il comportamento contrario qualora lo desiderasse. Lungi dall’essere una manifestazione di libertà e di affrancamento dai propri impegni, la pigrizia è a sua volta una forma di soggezione: il pigro è schiavo della propria pigrizia. Al contrario colui che è solerte è veramente libero, perché tiene il proprio destino nelle sue mani. A differenza del pigro, che si dispiace tutte le volte che è costretto a rinunciare alla propria pigrizia, perché è preso dal conflitto fra ciò che non fa e ciò che invece dovrebbe fare, il solerte quando deve lavorare lo fa con gioia ed entusiasmo e anche nei momenti di riposo sarà felice e soddisfatto del lavoro compiuto nel resto del suo tempo. Cfr. Ralbag a Mishlè 15,19: “La via del pigro è per lui come costellata di spine: dovunque mette piede si fa male. Al contrario il cammino per gli uomini retti che non sono pigri è spianato e vi procedono facilmente”.
E ci si deve comportare unicamente come salariati che lavorano per il loro datore di lavoro. Anche il tempo altrui costituisce un valore che si presta a essere rubato, con la differenza rispetto ai beni materiali che mentre questi ultimi, una volta perduti, si possono recuperare e restituire, il tempo trascorso lo è per sempre. “Come il datore di lavoro ha la responsabilità di non sottrarre né ritardare la paga del lavoratore, così il lavoratore ha il divieto di sottrarre dal proprio impiego ai danni del datore di lavoro, perdendo del tempo qui o lì, in modo da trascinare la giornata alla fine con inganni. Deve invece essere esigente al massimo verso se stesso e il proprio tempo” (Maimonide, Hil. Sekhirut –Norme sull’impiego- 13,7; cfr. anche Tossafot a Bavà Metzi’à 83b). Vi sono halakhot particolari che regolano i rapporti di lavoro in maniera che il dipendente non sottragga nulla al tempo della sua attività persino per quanto riguarda la recita dello Shemà’, della Tefillah e delle Berakhot.
“Perché l’uomo è nato per faticare”. Il senso originale dell’espressione לעמל (“per faticare”) è, come in Qohelet, “per faticare invano”. Ma i nostri Maestri ne hanno capovolto il senso, dicendo: “siate impegnati עמלים nella Torah” (Rashì a Wayqrà 26,3; cfr. Torat Kohanim ad loc.). Nelle quattro lettere della parola לעמל sono state viste le iniziali della frase:
ללמוד על מנת ללמד (“per studiare allo scopo di insegnare”). Un commento afferma che lo studio della Torah è come la Tefillah, di cui è detto: “Colui che prega per un altro e ha la sua stessa necessità, verrà esaudito per primo” (Rashì a Bereshit 22,1; Bavà Qammà 92a). Allo stesso modo colui che studia allo scopo di insegnare agli altri, riceverà egli per primo il dono della sapienza e della conoscenza (Midrash Shemuel a Avot, cap. 6).
Il massimo distacco dall’ozio e dai piaceri. C’è nelle nostre fonti anche l’idea inversa, per cui la comodità agevola la concentrazione nello studio e l’impegno religioso: “una bella casa e una bella moglie allargano la mente dell’uomo”. L’ebraismo non è per forza ascesi. Maimonide concilia i due aspetti affermando che l’attaccamento ai piaceri terreni è solo una fase intermedia e che l’uomo, una volta raggiunta la shelemut, non proverà più alcuna attrazione per essi. Ramchal, invece, sostiene l’allontanamento dai piaceri come metodo per arrivare alla shelemut. Sta di fatto che il pigro talvolta è persino disposto a rinunciare ai propri piaceri e a “divorare la sua stessa carne” (Qo. 4,5).
Dall’eccessivo timore e dalla grande apprensione. La paura è sintomo di instabilità mentale e può essere solo una conseguenza della trasgressione (cfr. Berakhot 60a). Spiega Maharal che la paura è legata al rischio di una perdita e ciò che è integro non è destinato a perdersi (Netzach Israel 5). Rav Kook spiega a sua volta che la paura è conseguenza di un disadattamento del singolo rispetto alla realtà. “Finché la persona si comporta rettamente rimane aderente al proprio intelletto e non si espone alla paura; ma se si distacca dall’intelletto per seguire la fantasia, allora c’è spazio per il timore” (‘Eyn Ayah a Berakhot 9). La preoccupazione non è necessariamente un valore negativo. Può essere anzi un segnale che qualcosa non va. Ci sono paure istintive che ci spronano all’azione. La paura diviene invece un fattore negativo nel momento in cui ci ferma. In tal caso è lecito supporre che il timore sia un ennesimo “trucco” che l’istinto cattivo elabora nei nostri confronti affinché giustifichiamo la nostra pigrizia. La Torah parla dei coscritti che vengono rimandati a casa perché paurosi in questo senso e quindi pericolosi, in quanto atti a fermare l’entusiasmo e la dedizione degli altri (Devarim 20,8. Rashì parla anche qui di paura delle proprie trasgressioni!). Se consideriamo la paura un fattore superabile è positiva, perché ci stimola all’attenzione in ciò che facciamo. Ma se la vediamo come un ostacolo insuperabile, più forte di noi, allora dobbiamo metterci in guardia: chi si convince di non avere alcun controllo sui propri timori, finirà per servirsene allo scopo di esentarsi dalle proprie responsabilità.
I peccatori di Tzion sono impauriti. Anche questo versetto è inteso da Ramchal in modo originale. Yesha’yahu avverte i trasgressori a temere le conseguenze dei propri atti. Ramchal ribalta i termini e lo legge nel senso che i paurosi diventano peccatori, in quanto la paura costituisce per essi un alibi per non compiere le Mitzwòt.
Tranne febbri e raffreddori. L’antidoto alla paura è il bittachon, la fiducia in H. Ma anche questo ha i suoi limiti. Non si deve aver paura, ma attenzione. Ci sono accidenti nella vita dai quali il buon comportamento di per sé non ci garantisce alcuna difesa. Il S.B. non è un vigile del traffico e se non stiamo attenti rischiamo di venirne travolti, per quanto giusti possiamo essere. La fiducia in H. non può essere trasformata in un dato assoluto, al punto di esentarci dalla responsabilità di badare a noi stessi. Colui che a ciò non si dedica, in definitiva è causa del suo male e non può attribuirne la ragione a D.
Non ci si preoccupa di un problema che non è stato ancora constatato. Nella Halakhah è nota da un lato l’espressione: “e fate un argine intorno alla Torah” (Avot 1,1) allo scopo di proteggere l’osservanza delle prescrizioni bibliche con estensioni rabbiniche. D’altro canto “non si istituisce un ulteriore decreto rabbinico per proteggere un decreto già esistente”, altrimenti la cosa non avrebbe fine. A sua volta l’invito: “E sarete molto attenti alle vostre persone” (Devarim 4,15) si riferisce a situazioni di pericolo conclamate. Se il rischio è elevato non è lecito astenersi dalle precauzioni trincerandosi dietro l’argomento della protezione Divina. Ma se il rischio è improbabile si invoca piuttosto il versetto: “H. protegge gli sprovveduti” (Tehillim 116,6), dove con questo termine si intendono non gli imprudenti, ma coloro che sono esposti a eventualità imponderabili dalle quali non possono guardarsi le spalle senza ridursi nell’inerzia.