http://www.anzarouth.com/2009/07/mesilat-yesharim-5-ostacoli-prudenza.html
Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz. e note di Ralph Anzarouth
Commento di Rav Di Porto
Gli ostacoli che impediscono di acquisire la prudenza e che allontanano[1] da essa sono tre:
- le occupazioni e le preoccupazioni terrene;
- le frivolezze e le pagliacciate;
- le cattive compagnie.
E ora parleremo di ognuno di essi.
Abbiamo già parlato delle occupazioni e delle preoccupazioni (1). Poiché l’uomo è tormentato delle sue occupazioni materiali, i suoi pensieri sono prigionieri del peso che li opprime e quindi non possono vigilare sul comportamento. E vedendo questo i Maestri, la pace sia su di loro, dissero nelle Massime dei Padri (Avot 4, 12): “Occupati poco del commercio e dedicati alla Torà[2]“. Difatti, se l’attività lavorativa è necessaria per l’uomo ai fini del suo sostentamento, tuttavia non è necessario eccedere nel dedicarsi al proprio lavoro al punto da non lasciare più spazio al proprio servizio [di D-o]. Perciò ci è stato comandato di fissare dei tempi regolari per lo studio della Torà. E abbiamo già ricordato che [lo studio della Torà] è quanto c’è di più necessario per acquisire la prudenza, come detto da Rabbi Pinchas (2): “La Torà conduce alla prudenza”. E senza di essa non la si ottiene mai ed è ciò che dissero i Maestri di benedetta memoria (Avot 2, 6): “L’ignorante non diventa un devoto[3]“.
E questo succede perché il Creatore, benedetto sia il Suo Nome, creò l’istinto malvagio e fu Lui stesso a creare la Torà per sedarlo, come è detto (Talmud Bavli, trattato Kiddushin 36b): “Ho creato l’istinto malvagio e ho creato la Torà che gli faccia da antidoto”. Ed è chiaro che se il Santo, benedetto Egli sia, ha creato solo questo unico rimedio per quella piaga, è assolutamente impossibile che l’uomo ne guarisca senza utilizzarlo. E sbaglia chi crede di scampare facendone a meno; alla fine vedrà il suo errore, quando morrà nel peccato. Poiché in effetti lo Yetzer Harà (l’istinto malvagio) è molto forte nell’uomo e continua a rafforzarsi e a dominarlo senza che egli nemmeno se ne accorga; e chi ricorresse a tutti gli stratagemmi del mondo, rinunciando però a usare il rimedio creato appositamente per lui, cioè la Torà, come già detto, non si accorgerebbe nemmeno dell’aggravamento del proprio malanno: se ne renderà conto solo quando morrà nel suo peccato e la sua anima andrà persa.
A cosa ciò può essere paragonato? A un malato che consulta i dottori: questi hanno individuato la sua malattia e gli hanno prescritto una determinata medicina. E lui, invece, senza possedere alcuna conoscenza medica, accantona quella medicina e sceglie di testa sua una cura diversa – è certo che quel malato morrà! Così è nel nostro caso, perché nessuno conosce il malanno dello Yetzer Harà e la forza di cui è dotato, fatta eccezione per il Creatore che lo ha creato e che ci ha avvertito che la cura contro lo Yetzer è la Torà. Chi può dunque abbandonarla, scegliere qualcos’altro in vece sua e uscirne vivo? È ovvio che le tenebre e la materialità continueranno a sopraffarlo progressivamente[4] e non se ne renderà nemmeno conto, fino a che non sarà invischiato nel male e così lontano dalla verità che l’idea di ricercarla non gli verrà neppure in mente.
Se invece si dedica alla Torà, quando vedrà le sue vie, i suoi comandamenti e le sue messe in guardia, finalmente si desterà in lui la presa di coscienza che lo condurrà sulla retta via. E questo è ciò che dissero i Maestri di benedetta memoria (Midrash Eikha Rabba, introduzione, 2): “Magari abbandonassero Me e [invece] osservassero la Torà, poiché la luce che essa contiene li riporterebbe sulla retta via[5] (3).” E infatti questa regola richiede anche di fissare dei tempi per riflettere alle [proprie] azioni e al loro miglioramento, come già ricordato. E inoltre, se è saggio, non sprecherà niente del tempo libero[6] che gli rimarrà dopo essersi occupato delle sue attività; anzi, lo prenderà al volo e non lo lascerà più, in modo da occuparsi di sé stesso e del perfezionamento del proprio servizio [Divino]. E tra gli ostacoli [all’acquisizione della prudenza] questo [che è causato dalle occupazioni e dalle vicissitudini terrene], malgrado sia il più generico, è il più facile da evitare per chi volesse scamparne.
Invece il secondo, che riguarda chi indulge in lazzi e buffonate[7], è molto problematico, poiché chi sprofonda in questo comportamento è come se annegasse nel vasto mare, dal quale è molto difficile scampare. Difatti, la buffoneria conduce l’uomo alla perdita della ragione, al punto che il buon senso e il raziocinio non hanno più presa su di lui: diventa come un ubriaco o un dissennato, ai quali non si possono proporre consigli o fungere da guida, poiché non accettano alcuna autorità.
Ed è ciò che disse il re Salomone, la pace sia su di lui (Ecclesiaste 2,2): “Del riso ho detto che è insensato e della gioia ho chiesto a cosa serva[8]“. E i nostri Maestri dissero nelle Massime dei Padri (Avot 3, 13): “Il riso e l’incoscienza abituano l’uomo alla depravazione”. Infatti, benché ogni persona ragionevole capisca la gravità della dissolutezza e abbia perciò timore di avvicinarsene, avendo già preso coscienza della reale entità del peccato e della sua dura punizione, malgrado ciò il riso e l’incoscienza lo attirano piano piano, un gradino alla volta, finché giungerà al peccato in sé e lo commetterà. E perché tutto ciò accade? Perché così come l’idea di prudenza dipende totalmente dall’attenzione che si presta alle cose, così l’essenza del riso non è altro che il distogliere la propria attenzione dalla riflessione corretta e profonda, cosicché il pensiero del timore [di D-o] non ha alcun accesso al cuore dell’uomo.
E nota quanto la buffoneria sia grave e dannosa: come uno scudo unto d’olio respinge e fa cadere le frecce e le getta in terra, impedendo loro di giungere al corpo dell’uomo, così agisce lo scherno di fronte al rimprovero e al biasimo, poiché basta una facezia e una piccola battuta per stroncare gran parte dello stimolo e dell’azione, cioè la presa di coscienza e gli effetti pratici che il cuore mette in atto autonomamente quando vede o sente qualcosa che gli ricorda [la necessità] difare i conti e di setacciare (4) le proprie azioni. E per effetto dello scherno tutto ciò cade in terra e non avrà alcuna ripercussione concreta. E questo non accade perché ciò che ha indotto [la sua presa di coscienza] sia debole né perché lui stesso manchi di capacità di intendimento, bensì per colpa dello scherno che distrugge ogni ragionamento di morale e del timore [di D-o].
E infatti a questo riguardo il profeta Isaia strillava come una gru (5), poiché vedeva che era proprio questa attitudine ciò che impediva ai suoi rimproveri di avere effetto e spegneva le speranze dei peccatori, come dice il versetto (Isaia 28, 22): “E adesso, smettetela di fare i buffoni, altrimenti le vostre catene si rinforzeranno”. E i Maestri già decretarono che (Talmud Bavli, trattato Avodà Zarà, 18b): “Il buffone va a cercarsi i propri guai”. E la Bibbia stessa lo dice esplicitamente (Proverbi 19, 29): “Per i buffoni sono pronti i guai”. Perché la logica vuole che chi intraprende un cambiamento in seguito alla riflessione e agli studi non ha più bisogno di soffrire fisicamente, perché già si pente dei propri peccati anche senza [punizione], grazie all’effetto dei pensieri di Teshuvà che si faranno strada nel suo cuore, suscitati dai rimproveri e dagli insegnamenti morali che ha letto o ascoltato. Invece per emendare i burloni, che a causa della loro buffoneria non reagiscono ai rimproveri, non c’è rimedio all’infuori delle avversità, che i loro lazzi non riusciranno a respingere come avevano invece respinto i rimproveri. E infatti, il Vero Giudice ha disposto una grave punizione, in proporzione alla gravità del peccato. Ed è ciò che ci hanno insegnato i Maestri (Talmud Bavli, trattato Avodà Zarà, 18b): “Grave è lo scherno, perché comincia con le punizioni e termina con la distruzione, com’è detto (Isaia 28, 22): ’E adesso, smettetela di fare i buffoni, altrimenti le vostre catene si rinforzeranno. Perché ho udito un decreto di distruzione ecc.’.”
E il terzo fattore [che impedisce la prudenza] sono le [cattive] frequentazioni, cioè la compagnia di stupidi e di peccatori[9]. Ed è ciò che dice il versetto (Proverbi 13, 20): “E chi frequenta gli stolti diventa malvagio[10]“, poiché si osserva spesso che perfino dopo che l’uomo ha appurato l’obbligo di servire [D-o] e la necessità della prudenza a questo fine, malgrado ciò ne farà un uso limitato o ne negligerà alcuni aspetti per non essere schernito dai suoi amici o per assicurarsi la loro compagnia. Ed è proprio su questo che Shlomo [il re Salomone] mette in guardia dicendo (Proverbi 24, 21): “E non ti mischiare con i sovversivi (6).” Infatti, se qualcuno ti dice (Talmud Bavli, trattato Ketuvot 17a): “L’uomo deve sempre essere socievole(7) con le altre persone[11]“, rispondigli: “Di quali persone parla questo detto? Di quelle che si comportano come esseri umani e non di quelle che si comportano come bestie”.
E [il re] Salomone ammonì ancora (Proverbi 14, 7): “Sepàrati dallo stolto”. E il re David disse (Salmi 1, 1): “Felice l’uomo che non segue i consigli dei perversi, non si ferma sulla strada dei peccatori e non si siede insieme ai buffoni” e i Maestri di benedetta memoria spiegarono (Talmud Bavli, trattato Avodà Zarà 18b): “Se li segue finirà per fermarsi e se si ferma finirà per sedersi[12]“. E disse (Salmi 26, 4): “Non mi sono seduto con i bugiardi […] detesto la banda dei malfattori ecc.”. L’uomo deve necessariamente purificarsi, raffinarsi e allontanarsi dalle strade percorse dalle masse, impantanate nelle vanità del momento; e dirigersi verso la corte di D-o e i luoghi in cui Egli risiede. Ed è così che David stesso conclude (ibid.): “Laverò le mie mani con purezza, e girerò attorno al Tuo altare, o Eterno”.
E se gli capita di trovarsi in compagnia di persone che si fanno gioco di lui, che non faccia caso ai loro lazzi. Anzi, che si prenda gioco di loro e li svergogni; e che pensi in cuor suo che se si fosse trattato di guadagnare una grande somma di denaro, avrebbe forse rinunciato a intraprendere quella attività per evitare di essere schernito dai suoi amici? E a maggior ragione non vorrà perdere la propria anima per [evitare] lo scherno.
E i Maestri ci hanno messo in guardia in modo analogo (Avot 4, 2): “Sii coraggioso come una tigre ecc. nel compiere la volontà di tuo Padre che è in cielo[13]“. E David disse (Salmi 119, 46): “E parlerò della Tua testimonianza davanti ai re e non me ne vergognerò”; infatti, benché la maggior parte dei re della sua epoca si occupassero e parlassero principalmente di piaceri e di cose sontuose ed essendo anche David un re, in teoria parlare di morale e di Torà in loro compagnia, anziché dibattere dei piaceri e delle cose grandiose che si addicono a uomini del loro rango, dovrebbe essere una vergogna per lui; eppure, malgrado ciò, non se ne è per niente preoccupato e il suo cuore non ha prestato attenzione a queste vanità, avendo ormai capito la verità. E anzi, dice esplicitamente [nel versetto già citato]: “E parlerò della Tua testimonianza davanti ai re e non me ne vergognerò”. E così disse pure Isaia (Isaia 50, 7): “Perciò feci una faccia dura come la pietra, sapendo di non dovermi vergognare”.
Note del Traduttore:
[1] Si veda il capitolo 1.
[2] Si veda la Beraita nell’introduzione.
[3] Ovviamente il Midrash non suggerisce di abbandonare Hashem, che D-o ce ne scampi. L’idea è di invitare coloro che già si trovano in uno stato di lontananza dal Creatore a occuparsi (almeno) di Torà, la cui luce li riporterà sicuramente sulla retta via.
[4] Abbiamo già incontrato nel capitolo 3 le espressioni “fare i conti” e “setacciare”. Il lettore che avesse dimenticato questi concetti capirà meglio questo paragrafo dopo un breve ripasso.
[5] Espressione talmudica: strillare come una gru (dal trattato di Kiddushin).
[6] I Maestri danno spiegazioni diverse per il termine”Shonim”: Rashi attribuisce loro idee abominevoli e in ogni caso sembra esserci un consenso riguardo alla loro condotta ribelle.
[7] Il termine Meurevet usato in questo brano della Ghemarà significa “gradevole” ma anche “mescolato/a”. Il commento di Rashi sembra preferire la prima chiave di lettura, ma ho l’impressione che l’autore preferirebbe una sintesi, ciò che spiega la mia scelta.
Commento
[1] Gli ostacoli alla prudenza si dividono in due categorie: quelli che ci impediscono di ottenerla completamente, rendendoci inferiori alle bestie, e quelli che ci allontanano da essa, per i quali c’è rimedio, come descritto in questo capitolo.
[2] In questo caso l’invocazione di una necessità oggettiva non è ammissibile, perché fa parte degli stratagemmi dell’istinto cattivo, che ci mostra le nostre necessità come superiori a quelle effettive, tanto da sembrare così tanto impegnati da non avere più tempo per lo studio.
[3] In base a quanto scrive il Ramchal la mishnàh avrebbe dovuto dire che “l’ignorante non diventa prudente”, ma evidentemente la mishnàh si esprime secondo le categorie proprie di quell’epoca, nella quale uno studioso di Toràh poteva essere un ‘am ha-aretz, per via della mancata frequentazione di un talmid chakham, precludendosi di fatto il raggiungimento della chassidut. Il Ramchal esclude di proposito la prima parte delle frase, secondo cui “en bur ierè chet”, in quanto il bur non ha Toràh al pari dell’am ha-aretz, ma non ha neppure buone azioni e disposizioni, mentre qui si accenna agli enormi danni derivanti dal mancato studio della Toràh.
[4] Fra gli stratagemmi dell’istinto cattivo c’è anche quello di procedere gradatamente, provocando all’inizio danni impercettibili, tali da non dare loro peso, ma con il tempo divengono sempre più estesi, sino ad essere impossibili da curare.
[5] Lo studio della Toràh funge da lume per lo spirito. Prescindendo dallo studio, anche se un individuo si dedicasse esclusivamente ad attività onorevoli, passo dopo passo, brancolando nel buio, la spinta verso la materialità prenderebbe il sopravvento.
[6] Sebbene in assoluto sia bene avere dei momenti fissi per lo studio della Toràh, chi è veramente saggio dedica allo studio tutto il tempo libero a sua disposizione.
[7] Rashì, nel suo commento alla Toràh (18,3) riferisce il divieto di seguire gli statuti dei goyim al recarsi nei teatri e negli stadi.
[8] Secondo la ghemarà in Shabbat 30b il re Shelomò esclude in questa espressione la gioia propria della mitzwàh, che è invece degna di essere lodata.
[9] Il Rambam (Hilkhot de’ot 6,1) insiste molto sulla necessità di scegliere bene le proprie compagnie, ed accompagnarsi sempre agli tzadiqim, per imparare dalle loro azioni. Nelle birkot ha-shachar preghiamo di allontanarci dalle cattive compagnie.
[10] Come dicono i chakhamim nel Pirqè avot (4,14): “sii la coda dei leoni e non il capo delle volpi”. Il Pirqè deRabbì Eli’ezer (cap. 25) dice che chi va con il saggio diviene saggio, o secondo la nostra espressione “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”. Se si entra in una conceria, anche se non si compra assolutamente nulla, non si può evitare di rimanere impregnati dell’odore della pelle.
[11] Rashì (Ketubot 17a) riferisce questo insegnamento all’ambito materiale, nel senso che siamo tenuti a fare del bene al nostro prossimo, ma quando parliamo di compagnie, dobbiamo cercare sempre e solo quella degli tzadiqim.
[12] Il Sefer ha-chinukh (mitzwàh 16) scrive che dobbiamo fare la massima attenzione a non confidare nella nostra salda fede, convinti che i nostri principi ci salvino da queste compagnie, perché non è possibile che, anche se le incontriamo sporadicamente, non ne veniamo toccati.
[13] Il Tur e lo Shulchan ‘arukh si aprono con questo insegnamento, proprio per sollecitare le persone alla zehirut, ed evitare che rinuncino per il timore di essere sbeffeggiati per via della loro pratica delle mitzwot.