http://www.anzarouth.com/2009/07/mesilat-yesharim-4-acquisire-prudenza.html
Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz.e note di Ralph Anzarouth
Commento di Rav Di Porto
Ciò che generalmente[1] conduce le persone alla prudenza è lo studio della Torà[2], proprio come disse Rabbi Pinchas ben Yair all’inizio della Beraita (1): “La Torà conduce alla prudenza[3]“. In particolare, ciò che conduce [alla prudenza] è la riflessione sull’importanza del compito che incombe all’uomo e la severità del giudizio con il quale egli verrà giudicato[4]. E lo dedusse dall’approfondimento dei fatti esposti nei libri santi e dallo studio dei testi dei nostri Maestri di benedetta memoria, che esortano in questa direzione. E in questa riflessione ci sono tre tipi di stimoli: quello per le persone il cui livello di comprensione è ottimo; quello per le persone che si trovano al livello inferiore al loro; e quello per la massa nella sua totalità.
Le persone dall’ottimo livello di comprensione sono stimolate dalla presa di coscienza del fatto che la perfezione deve essere la loro unica aspirazione, all’infuori di ogni altra. E che non c’è male peggiore della mancanza di perfezione e della lontananza da essa. Poiché, quando questo concetto sarà chiaro per loro e avranno capito che gli strumenti per ottenerla sono le buone azioni e le virtù positive, essi non vorranno certamente mai più lesinare sull’uso di quegli strumenti o prenderli alla leggera: infatti, saranno ormai consci del fatto che se quegli strumenti fanno loro difetto o se vengono utilizzati fiaccamente, anziché con tutta la forza di cui hanno bisogno, essi non potranno acquisire per mezzo loro la vera perfezione; anzi, ne saranno privati nella stessa misura in cui hanno posto dei limiti al loro impegno. Si ritroveranno così in uno stato di imperfezione, ciò che è per loro una grande pena e una grossissima avversità.
Perciò sceglieranno sempre di incrementare [l’uso di quegli strumenti, le Mitzvot] e di essere sempre esigenti nel modo di portarle a compimento; non saranno mai paghi né si potrà mitigare la loro preoccupazione di essere carenti in qualsiasi cosa che possa condurli alla perfezione a cui anelano. Ed è ciò che scrisse il re Salomone, la pace sia su di lui (Proverbi 28, 14): “Felice è l’uomo che ha sempre timore[5]“, che i Maestri di benedetta memoria hanno interpretato (Talmud Bavli, trattato Berakhot, 60a): “Quel [versetto] si riferisce a questioni di Torà”. E infatti in cima a questa scala si trova il timore del peccato, che è uno dei livelli più lodevoli e che richiede che l’uomo provi un timore costante e la preoccupazione che venga trovata in lui una qualsiasi traccia di peccato, ciò che potrebbe ritardare il raggiungimento della perfezione, il fine per il quale è tenuto a impegnarsi. E su questo hanno detti i Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Baba Batra, 75a): “[Ciò] insegna che ognuno è irritato dal baldacchino del prossimo (2).” Poiché ciò non è dovuto all’invidia, che si manifesta soltanto nei privi dei senno, come spiegherò in seguito con l’aiuto del Cielo, bensì al fatto di vedersi distante dalla perfezione, livello che avrebbe invece potuto raggiungere, così come altri ci sono riusciti. E tenendo conto di questa considerazione, chi è dotato di grande intelligenza non mancherà di certo di prestare attenzione al proprio comportamento.
Invece, coloro che si trovano al livello inferiore al loro conosceranno una sollecitazione in misura del loro discernimento, proporzionalmente all’interesse che provano per l’onore desiderato. E questo, perché è chiaro a ogni persona ragionevole che nel mondo reale, cioè l’Olam Haba (il mondo futuro), i vari livelli sono attribuiti unicamente in funzione delle [buone] azioni, e che ci si può elevare a un livello superiore solo se si sono compiute più azioni [meritevoli] rispetto agli altri. E colui che può contare su pochi atti [positivi] si ritroverà in posizione subalterna. Perciò, date queste premesse, come ci si potrebbe disinteressare delle proprie azioni o limitare il proprio impegno personale [per migliorarle] se in seguito si rimpiangerà di avere commesso degli errori, ormai irreparabili[6]?
E ci sono degli stolti che cercano unicamente di rendersi la vita facile, dicendo: “perché faticare tanto con tutti quelle devozioni e quelle astinenze? Perché non sarebbe sufficiente non fare parte dei malvagi che vengono condannati al Gehinnom? Non ci sforzeremo di arrivare fino alle sezioni più celesti del Gan Eden. Se pure non meriteremo una parte importante, riceveremo comunque almeno una piccola porzione: essa ci basta e non ci faremo carico di questo peso supplementare [per ingrandirla][7].”
Allora noi chiederemo loro: potrebbero forse sopportare facilmente di vedere in questo mondo fugace uno dei loro amici colmato di onori ed elevato sopra di loro per comandarli? E a maggior ragione se si tratta di uno dei loro servitori o di indigenti, che essi considerano miserevoli e spregevoli: potrebbero forse evitare di provare dispiacere e di sentirsi ribollire il sangue? No di certo[8]! Infatti, vediamo con i nostri occhi tutto lo sforzo dell’uomo per elevarsi sopra il maggior numero di persone possibile e prendere posto tra gli altolocati, perché questa è l’invidia [che si prova] verso i propri simili[9]. E se qualcuno che sta stagnando a un certo livello vede il prossimo elevarsi sopra di lui, la sofferenza che prova è certamente dovuta al fatto non può fare niente per impedirglielo e dentro di sé gli rode il cuore.
E adesso, se è così difficile per costoro trovarsi a un livello inferiore rispetto al prossimo in una graduatoria basata su criteri ingannevoli e illusori, nei quali l’insuccesso è solo apparente e il successo non è altro che vanità e menzogna, come potranno sopportare di trovarsi in condizione inferiore (rispetto a quelle stesse persone che li sovrastano oggi) anche nel luogo in cui il grado ottenuto è reale e i benefici durano in eterno (3)? Poiché, malgrado essi non conoscano oggi questo posto e non ne riconoscano il valore, un giorno certamente ne avranno una conoscenza esatta, per loro somma vergogna e dispiacere. Senza dubbio, questa non sarà altro per loro che una grande ed eterna sofferenza.
Hai capito ormai che questa rassegnazione con la quale si scrollano di dosso l’onere del servizio di D-o, non è altro che una tentazione illusoria con la quale il loro istinto li trae in inganno: essa non possiede nessuna dimensione reale.
Se invece avessero esaminato la questione nella sua realtà, non sarebbero caduti in questa tentazione. Ma poiché non se ne occupano per niente e anzi procedono confusi dai loro desideri, questa tentazione li abbandonerà solamente quando sarà ormai per loro del tutto inutile, perché non saranno più in grado di riparare ciò che hanno corrotto[10]. Ed è ciò che disse il Re Salomone, la pace sia su di lui (Ecclesiaste 9, 10): “Tutto ciò che sei in grado di realizzare, mettilo in atto, perché nella tomba verso cui procedi non ci sono né azioni, né progetti, né conoscenza, né saggezza”.
Questo significa che ciò che una persona non compie fintantoché il suo Creatore gliene dà la facoltà, ovvero il libero arbitrio che le è conferito durante tutti i giorni della sua vita, periodo durante il quale l’individuo è dotato di libera scelta[11] e gli è imposto di farne uso, non potrà più farlo nella tomba e nello Sheol (4), dove questa facoltà non è più in suo possesso. Poiché chi non ha compiuto molte buone azioni durante la sua vita [terrena] non potrà più compierle successivamente e chi non aveva ponderato i suoi atti [in precedenza] non potrà più farlo in seguito. E chi non ha acquisito saggezza in questo mondo non l’acquisterà nella tomba e questo è ciò che è detto (Ecclesiaste 9, 10): “Perché nella tomba verso cui procedi non ci sono né azioni, né progetti, né conoscenza, né saggezza”.
Invece ciò che stimola le masse sono la ricompensa e la punizione in sé, quando l’uomo prende coscienza della gravità del Giudizio e delle sue conseguenze, per le quali bisognerebbe costantemente temere e rabbrividire: poiché chi si ergerà nel giorno del Giudizio? E chi potrà giustificarsi davanti al proprio Creatore, la Cui vista coglie con precisione ogni cosa, piccola o grande che sia? E così dissero i nostri Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Chaghigà, 5a), riguardo al versetto (Amos 4, 13): “‘E rivela all’uomo il suo discorso’: al momento del Giudizio, viene rivelato all’uomo perfino il contenuto di ogni futile conversazione tenuta con sua moglie.”
E dissero (Talmud Bavli, Trattato Yevamot, 121b), riguardo al versetto (Salmi 50, 3): “‘E intorno a Lui una grande tempesta’: ciò insegna che il Santo, benedetto Egli sia è puntiglioso con i Suoi fedeli come lo spessore di un capello[12].” [Difatti, perfino] Abramo, proprio quell’Abramo amato dal suo Creatore al punto che la Torà dice di lui (Isaia 41, 8): “Abramo, il Mio beneamato”, neppure lui è scampato al Giudizio, a causa di qualche semplice parola pronunciata senza la dovuta precisione: per aver detto (Genesi 15, 8): “Come posso sapere (5)?”, il Santo, benedetto Egli sia, rispose (cf. Genesi 15, 13): “Per la tua vita, saprai certamente che la tua discendenza sarà straniera”. E riguardo all’alleanza che Abramo strinse con Avimelech, senza che il Signore gliene avesse dato l’ordine, il Santo, benedetto Egli sia, gli disse (Bereshit Raba 54, 4): “Per la tua vita, sospenderò la gioia dei tuoi discendenti per sette generazioni[13]“.
Riguardo a Yaakov (Giacobbe), per essersi adirato con [sua moglie] Rachel (Rachele) che gli aveva detto (Genesi 30, 1): “Dammi dei figli”, così riporta il Midrash (Bereshit Raba 71, 7): “Il Santo, benedetto Egli sia, gli disse: ‘Così si risponde alle afflitte? Per la tua vita, i tuoi figli si alzeranno davanti ai suoi’.” E per avere nascosto [sua figlia] Dina in una cassa per evitare che Esav (Esaù) la prendesse: malgrado la sua intenzione fosse sicuramente positiva, il Midrash disse che per avere evitato di fare del bene a suo fratello (Bereshit Raba 80, 4): “Il Santo, benedetto Egli sia, gli disse (Giobbe 6, 14): ’Chi è afflitto merita la bontà del prossimo.’ Non hai voluto darla in sposa a un circonciso? Finirà sposata a un incirconciso. Non hai voluto che si sposasse in modo lecito? Perciò si sposerà in modo illecito[14] (6).”
[Anche] Yossef (Giuseppe), per aver detto al coppiere (Genesi 40, 14): “Se ti ricorderai di me”, gli furono aggiunti [dalla Provvidenza Divina] due anni [di prigione], come dissero i nostri Maestri di benedetta memoria (Bereshit Raba 89, 2). Giuseppe stesso morì prima dei suoi fratelli (ibid. 100, 3), secondo alcuni per avere imbalsamato il corpo di suo padre senza il permesso del Signore e secondo altri per avere taciuto dopo avere sentito (7) [l’espressione] “nostro padre, tuo servitore”.
Il re David, per aver definito le parole della Torah “Zemirot” (canti), fu punito con l’errore commesso da Uza e la sua gioia fu compromessa [si veda il Talmud Bavli, trattato Sotà 35a che spiega l’episodio del Secondo Libro di Samuele 6, 1-8].
Michal (8) fu punita per avere rimproverato a David di aver ballato in pubblico davanti all’Arca Santa: ebbe figli solamente in punto di morte (Secondo Libro di Samuele 6, 20).
A [re] Chizkia, per aver mostrato i forzieri del tesoro ai ministri del re di Babele (Babilonia), fu decretato che i suoi figli diventino eunuchi alla corte del re di Babilonia.
E ci sono tanti altri esempi come questi.
E nel capitolo “Tutti sono obbligati” (Talmud Bavli, trattato Chaghigà, foglio 5a), [i Maestri] dissero: “Quando Rabbi Yochanan giungeva a questo versetto, piangeva (Malachia 3,5): ’E mi avvicinerò a voi per giudicarvi e sarò un testimone frettoloso.’ Come può cavarsela un servitore le cui mancanze minori vengono contate quanto i peccati gravi?”
E ovviamente l’intenzione di questo testo non è di dirci che la punizione è la stessa in ambedue i casi, poiché il Santo, benedetto Egli sia, retribuisce sempre secondo misura. Piuttosto, significa che nel giudicare le azioni vengono presi in conto sia i [peccati] gravi sia quelli più lievi, poiché i primi non fanno dimenticare i secondi e il Giudice non li trascurerà, esattamente come non trascurerà quelli gravi. Anzi, li osserverà tutti e li controllerà tutti con la stessa attenzione, per giudicare ognuno di loro e decretare per ognuno di loro una punizione appropriata.
Ed è ciò che disse il re Shlomo (Salomone), la pace sia su di lui (Ecclesiaste 12, 14): “Poiché D-o giudicherà ogni atto ecc.”. Poiché così come il Santo, benedetto Egli sia, non lascia che sia dimenticata nessuna buona azione, per quanto piccola essa sia, allo stesso modo Egli non permette che nessuna cattiva azione rimanga senza un giudizio e un rimprovero, per quanto piccola essa sia, in modo da smentire coloro che si lasciano tentare dal pensiero che il Signore, benedetto Egli sia, non giudicherà le piccolezze e non le prenderà in conto; anzi, è un principio (Talmud Yerushalmi, trattato Betzà 3, 8): “A chi pensa che il Santo, benedetto Egli sia, lasci correre [e glissi sui nostri peccati], si rilasceranno gli intestini!” E [i Maestri] dissero anche (Talmud Bavli, trattato Chaghigà, 16a): “Se il tuo Yetzer Harà (istinto malvagio) ti suggerisce di peccare e afferma che il Santo, benedetto Egli sia, ti perdonerà – non dargli retta!” E questo è ovvio e lampante, poiché l’Eterno è Signore di verità, come disse Moshè Rabbenu (il nostro Maestro Mosè, la pace sia su di lui, Deut. 32,4): “L’opera della Roccia (9) è integerrima, le Sue sono tutte vie di giustizia, è un D-o leale e non pratica l’ingiustizia”. Poiché, dato che il Santo, benedetto Egli sia, vuole la giustizia, glissare sulle mancanze sarebbe come ignorare i meriti. Perciò, se vuole [fare] giustizia, deve rendere a ogni persona secondo le sue azioni[15] con la massima precisione, sia nel bene sia nel “meglio” (10). E cioè (ibid.): “È un D-o leale e non pratica l’ingiustizia, Egli è Retto e Giusto”, ciò che i Maestri hanno interpretato “sia nei confronti dei giusti che nei confronti dei malvagi”, perché questa è la virtù: Egli giudica tutto, punisce ogni peccato e non si può sfuggire[16].
E se dirai: “ma allora a cosa serve la clemenza [Divina], visto che bisogna condurre il giudizio con la massima precisione riguardo a ogni cosa?” La risposta è: certamente la clemenza si trova nell’esistenza del mondo, che senza di lei non potrebbe assolutamente sussistere e malgrado ciò la severità del giudizio non viene meno; e questo perché, se ci si attiene a un giudizio rigoroso, il peccatore meriterebbe di essere punito immediatamente dopo il suo peccato e senza nessuna proroga, che la punizione stessa gli venga comminata con collera, come lo merita chi si ribella al Creatore e che non gli sia data nessuna possibilità di rimediare al suo peccato. Poiché come potrebbe l’uomo riparare ciò che ha distorto, avendo ormai già commesso il peccato? Ormai ha già ucciso il prossimo o ha già commesso l’adulterio, come potrà riparare questa azione? Potrà egli cancellare dalla realtà l’atto già commesso?
E invece proprio la clemenza [Divina] accorda tre vantaggi che sono il contrario di ciò che abbiamo elencato[17] e cioè:
- viene concesso tempo al peccatore, anziché eliminarlo dal mondo appena commesso il peccato;
- la punizione in sé non conduce all’eliminazione [del peccatore][18];
- e la Teshuvà viene concessa al peccatore con completa bontà, cioè la rimozione della volontà [di peccare] viene considerata come la rimozione dell’atto compiuto.
Ciò significa che quando il peccatore è cosciente del peccato, lo riconosce, riflette alla propria malvagità, se ne pente completamente proprio come ci si pente di una promessa che si vorrebbe non avere mai fatto, desidera e vorrebbe che l’atto non sia mai stato commesso, si dispiace profondamente in cuor suo del fatto che ormai la cosa sia successa e a partire da quel momento l’abbandona per fuggirne via per sempre[19] – allora, in quel caso, la rimozione della sua volontà [di peccare] sarà considerata come la rimozione di un suo voto e avrà così espiato il suo peccato. Ed è ciò che disse il testo biblico (Isaia 6, 6): “E il tuo peccato sarà rimosso e la tua colpa espiata”, nel senso che il peccato svanisce veramente dalla realtà e viene sradicato grazie al pentimento e al dispiacere che egli prova a posteriori riguardo a ciò che ha fatto.
Questa [opportunità di pentirsi] è certamente una bontà che esula dal rigore del giudizio, senza però contraddirlo completamente, per merito di una circostanza attenuante: [a bilanciare] la volontà di peccare e il piacere che se ne è ha derivato, ci sono ora il rimorso e il dispiacere. E infatti la proroga accordata non implica la rinuncia [a punire] il peccato, ma piuttosto un breve periodo di attesa per lasciare [al peccatore] la possibilità di fare ammenda[20]. E così è pure per tutte le altre espressioni di bontà. Per esempio (Talmud Bavli, trattato Sanhedrin, 104a): “Un figlio può procurare dei meriti al padre[21]“, o (Kohelet Raba 7, 25): “Una parte di una vita conta quanto tutta la vita” che implica, come ricordato nei testi dei Maestri, che accettare una parte come se fosse il tutto è un’espressione di bontà, senza per questo rinnegare l’equità del giudizio, perché in fondo ci sono buone ragioni per tenerne conto (11).
Invece, soprassedere completamente ad alcuni peccati sarebbe del tutto contrario alla giustizia, così come non prestare loro alcuna attenzione: in questo caso le azioni non riceverebbero un giudizio del tutto corretto e quindi questa eventualità non sussiste affatto.
E se non si troverà nessuna delle attenuanti di cui sopra per permettere al peccatore di sottrarsi [alla punizione], certamente il giudizio non resterà incompiuto, e così dissero i Maestri (Midrash Bereshit Raba 67, 4): “D-o trattiene la Sua collera ma riscuote ciò che è Suo”.
Il risultato è che l’uomo desideroso di tenere gli occhi aperti non può cedere alla tentazione di non prestare la massima attenzione al proprio comportamento e di non valutarlo con il massimo rigore. Queste sono le considerazioni di cui l’uomo, se è ragionevole, deve tenere conto per acquisire con certezza la virtù della prudenza.
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Note del Traduttore:
[1] Si ricordi qui la Beraita di Rabbi Pinchas ben Yair esposta nell’introduzione: “La Torà conduce alla prudenza, la prudenza conduce allo zelo, lo zelo conduce all’integrità, ecc.”
[2] ll Talmud insegna che in futuro il Signore farà un baldacchino per ogni giusto in funzione dei suoi meriti: chi vedrà che gli altri ne hanno meritato uno più grande si vergognerà di non avere raggiunto quel livello.
[3] Si parla del mondo futuro, ovvio.
[4] Nel nostro versetto questo termine è usato per indicare la tomba. Nei nostri testi sacri sembra a volte indicare aspetti poco gradevoli di ciò che attende chi non si è comportato bene durante la sua vita terrena.
[5] Tratto da Bereshit Rabba 46. Abramo aveva chiesto all’Eterno un segno riguardo alla Sua promessa di dare la Terra d’Israele in eredità alla sua numerosa discendenza, che anch’essa gli era stata appena assicurata.
[6] Dina, la cui tristissima vicenda è narrata nel capitolo 34 della Genesi, fu infatti rapita e violentata dal figlio di un re cananeo che ricevette in seguito la punizione meritata.
[7] Da parte dei fratelli, che non lo avevano riconosciuto. Riguardo all’episodio del coppiere, il testo su Fede e Sicurezza del Chazon Ish ne parla più in dettaglio.
[8] Sposa del re Davide, figlia del re Saul, morì durante il parto e quindi la Torà dice che non ebbe più figli “durante la sua vita”.
[9] Il termine ”Roccia” indica il Signore benedetto, ovvio.
[10] Qui ”meglio” sottintende il male, come si capisce dal contesto. Non perché il male sia meglio, per carità, ma perché i testi dei nostri Maestri non amano usare termini negativi e preferiscono farceli intuire. Una possibile fonte che giustifichi questa scelta potrebbe essere Salmi 34, 15:”Allontanati dal male e fai il bene”.
[11] Cioè è grande bontà da parte della Divina Provvidenza accettare una frazione come se si trattasse della totalità e tuttavia ciò non toglie che la piccola parte giustifichi questa bontà. Quindi non si tratta di una deformazione del giudizio.
[1] In alcune versioni del Mesilat Yesharim queste parole non sono presenti, a dire che l’unico modo per acquisire la prudenza è lo studio della Toràh.
[2] La Toràh, come già notato, non fa parte delle predisposizioni elencate nella Baraità di R. Pinchas ben Yair, ma è la base su cui questa è strutturata. Per questo motivo il Ramchal non si occupa separatamente dello studio della Toràh. Inoltre chi vuole ottenere lo studio della Toràh può sapere come fare studiando il capitolo 6 del trattato di Avot, chiamato qinian ha-Toràh. Lo studio della Toràh indirizza il nostro metro di giudizio rispetto alle cose di questo mondo, e ci suggerisce a cosa fare attenzione. Ramchal affronterà il tema dello studio nel capitolo successivo. Probabilmente il tema non viene approfondito in questo capitolo, perché la sua lettura potrà condurre gli individui allo studio della Toràh.
Il Ramchal dice che la Toràh porta generalmente alla prudenza, poiché in alcuni casi eccezionali non è sufficiente, come avviene nel mondo sensibile per la cura delle malattie: se un certo rimedio non ha effetto, si ricorre ad un rimedio più potente. Secondo la ghemarà in Berakhot (5a) nella lotta contro l’istinto malvagio ci si deve avvalere dello studio della Toràh, ma se questo non è sufficiente si dovrà leggere lo Shemà, e come ultima possibilità pensare al giorno della morte. La Toràh è un rimedio efficace per i sani, ma non per i malati, che necessitano di un altro tipo di intervento.
Lo studio della Toràh precede anche lo studio del Musar, il quale privato della Toràh, darebbe solo degli effetti fugaci.
[3] Lo stesso concetto viene espresso dal Pirqè Avot (2,5): “l’ignorante non teme il peccato”.
[4] Oltre alla conoscenza della halakhàh è indispensabile la riflessione sulla provvidenza divina, che conduce al timore del peccato.
[5] Avere sempre dei dubbi sulla propria condotta (chiaramente senza arrivare a desistere) è un segno distinto del desiderio di migliorarsi.
[6] Questo secondo livello porta comunque a compiere delle buone azioni, ma per via dell’invidia, anche se la competizione fra studiosi è vista positivamente, perché accresce la sapienza.
[7] Questo ragionamento è molto pericoloso, perché parte dal presupposto che i propri meriti siano superiori alle trasgressioni, ma non è detto che sia così, perché, come ha scritto Rambam nelle Hilkhot Teshuvàh (3,2) questo conteggio non viene effettuato in base al numero dei meriti, ma alla loro grandezza e solo H. è a conoscenza del valore di ciascuna azione. Tomer Devoràh (1,8) spiega che in ogni caso H. non sottrae le trasgressioni ai meriti e ricompensa per i meriti residui, ma prima punisce per le trasgressioni e solo in una seconda fase ricompensa per i meriti. Per questo non è saggio fare previsioni azzardate sulla propria posizione nel mondo a venire.
[8] In Massekhet Bavà Batrà (10b) l’aldilà viene presentato come un mondo rovesciato, dove quelli che in questo mondo sono sopra si trovano sotto e viceversa (secondo Rashì i più modesti sono importanti, mentre secondo le Tosafot il rav siede di fronte al suo allievo).
[9] L’impegno degli uomini per avere successo in questo mondo li condanna nel mondo futuro, perché l’assenza di sforzo nell’ambito spirituale li condanna.
[10] Per questa categoria avviene come per una ferita non curata, che si estende e porta a malanni ben più gravi rispetto a quelli iniziali, senza avere più alcuna possibilità di intervento.
[11] R. Yonàh nello Sha’arè Teshuvà (3,17) considera il libero arbitrio uno degli aspetti principali per cui H. ha creato l’uomo, ed ogni scelta positiva che l’uomo compie gli viene considerata come una mitzwàh positiva (… e sceglierai la vita).
[12] Il Maharashà (Yevamot 121b) puntualizza che ciò non significa che chi non è fedele non venga punito a sua volta, anzi! La differenza è che per i giusti H. fa in modo che scontino le loro colpe già in questo mondo, mentre destina la punizione degli altri al mondo futuro.
[13] H. non condivideva il patto che Avraham strinse con Avimelekh, e questo, nonostante il livello di Avraham, comportò varie conseguenze, come la morte di sette tzadiqim (Chofnì, Pinechas, Shimshon, Shaul e i suoi tre figli e il trattenimento dell’Arca presso l’accampamento dei Filistei per sette mesi.
[14] Questo insegnamento del Midrash ci fa riflettere, perché facendole sposare Esav, Ya’aqov avrebbe messo in pericolo Dinàh, e chiaramente siamo tenuti a tutelare anzitutto chi ci è vicino, ed anzi secondo la nostra tradizione è vietato dare in sposa la propria figlia ad un ignorante, e tanto più ad un malvagio! Ma, evidentemente, il midrash parte dall’assunto che Dinàh avrebbe avuto la capacità di far cambiare ‘Esav.
[15] Secondo il libro di Geremia (32,19) non si viene puniti solo per le proprie colpe ma anche per le loro conseguenze; per questo il Ramchal parla di “perì ma’alalav – frutti delle proprie azioni”
[16] Il Signore giudica tutto, ma non è possibile dire che usa solo il metro del giudizio rigoroso, perché altrimenti ci dovrebbe punire immediatamente per ogni nostra trasgressione, perché aspetta che facciamo teshuvàh.
[17] I principi che il Ramchal sta esprimendo sono individuabili nel verso weHù rachum: a) attraverso la Teshuvàh la colpa viene espiata; b) il Signore non punisce immediatamente per i peccati; c) punendo il Signore non sfoga tutta la sua ira. Il Tur (cap. 237) scrive che si recita solamente prima di ‘arvit, perché questa funzione espiatoria di shachrit e minchàh viene svolta dai brani relativi ai sacrifici.
[18] Sha’arè teshuvàh (4,1) desume questo punto dalla storia di Qain, che non viene eliminato, ma viene destinato all’esilio. Successivamente (4,12) scriverà che la clemenza nella punizione dipende dall’accettazione benevola del giudizio divino.
[19] Quando si è compiuto un peccato non è sufficiente non compierlo nuovamente quando questo si ripresenta, ma è necessario rifuggirlo sempre, di modo tale di non incorrervi.
[20] Sha’arè Teshuvà (4,123) elenca tre motivi per cui H. non punisce i malvagi immediatamente: a) perché possano fare teshuvàh; b) perché intende ricompensarli per qualche loro merito in questo mondo; c) perché esiste la possibilità che da loro escano dei discendenti giusti.
[21] Il Maharshà nota che molti malvagi non desiderano che i figli siano come loro, e per questo un figlio può portare beneficio al padre, visto che il padre lo spinge a comportarsi come si deve, e di conseguenza acquisisce un merito.