La ripresa di un vivace dibattito sulla questione dell’aborto suggerisce l’opportunità di una riflessione sulle questioni che si pongono dal punto di vista ebraico. Come premessa, da un punto di vista più generale bisogna tener presente che nella prospettiva ebraica la gravidanza e la nascita sono considerate un dono e una benedizione, così come sono considerati eventi negativi l’interruzione della gravidanza e la perdita del feto. Più strettamente dal punto di vista halakhico,nell’ortodossia ebraica, esistono dei punti fermi e delle questioni aperte.
I punti fermi sono:
• la vita del feto deve essere tutelata;
• la sua protezione consente la profanazione dello Shabbath;
• la sua soppressione non è di norma consentita;
• la sua soppressione non è considerata alla stregua di un vero e proprio omicidio e perlomeno non è punibile come un omicidio;
• la soppressione di un feto è certamente consentita per salvare la vita della madre.
Oltre a questo esistono posizioni discusse e altri dati da tenere presenti.
• Secondo una linea di pensiero è solo il pericolo di vita della madre, anche durante il parto, prima che la testa del feto esca alla luce, l’unica situazione in cui la soppressione del feto è autorizzata
• Un’altra linea considera come elementi facilitanti anche gravi malattie materne, comprese quelle psichiche
• Una terza linea considera il divieto di soppressione del feto con minore gravità, come una norma rabbinica (quindi non della Torah) basata, secondo i differenti autori, su varie considerazioni; ne consegue una maggiore apertura a decisioni abortive in stati di necessità. C’è quindi chi consente l’aborto per gravi malformazioni congenite o acquisite, soprattutto nella misura in cui ciò provocherebbe un grave disagio psichico materno
• Secondo alcune Autorità contemporanee è consentito l’aborto di un feto concepito da una violenza subita dalla madre, e da lei non voluto.
• Un elemento di ulteriore facilitazione è quello della precocità dell’intervento, appoggiandosi sulle fonti classiche che sostengono che fino a 40 giorni dal concepimento il prodotto del concepimento sia “semplice acqua”. L’uso di farmaci è un’attenuante rispetto agli interventi chirurgici diretti.
• Le condizioni di disagio socioeconomico non consentono comunque la soppressione del feto.
• Un altro dato importante, per quanto di difficile comprensione, è la norma relativa ai non ebrei. Di solito le regole ebraiche impongono maggiori rigori agli ebrei. In questo caso è il contrario, perché il divieto per i non ebrei è più rigoroso, ed è consentito solo per salvare la vita della madre o nei primi 40 giorni. Questa posizione ha una antica e interessante storia esegetica, che ha influito, tra l’altro, nella formazione delle posizioni rigoristiche del cattolicesimo.
Infine, dal punto di vista sociale, possiamo registrare che in Israele in questi ultimi anni è crescente l’allarme nel campo ebraico religioso, ma non solo, per la diffusione di pratiche abortive determinate da un complesso di fattori sociali (povertà, disinformazione, maggiore libertà sessuale). Si calcola che da quando è stata applicata la legge israeliana sull’aborto (1979) siano stati praticati in media circa dai 15 ai 20.000 aborti legali all’anno più un numero imprecisato di aborti clandestini (forse 6.000). In trenta anni almeno 650.000 aborti, di cui circa 2.000 all’anno di feti con malformazioni. È evidente quanto sia drammatico l’impatto sociale di questa situazione. Di qui un attivismo antiabortista orientato in senso informativo, educativo e assistenziale per gravide, puerpere e neonati nel primo anno di vita.
La halakhà e la Legge 194
Alla luce di questi dati il confronto con la legge 194, quella che in Italia regola l’interruzione volontaria di gravidanza, propone tre considerazioni essenziali
a) grazie a questa legge è possibile eseguire in Italia gli aborti che la halakhà (nell’opinione di alcune sue Autorità) consente: gravi malformazioni, violenza subita ecc. Senza la 194 questi interventi non sarebbero possibili.
b) d’altra parte questa legge allarga lo spazio della liceità ben oltre i limiti concessi dalla halakhà: difficoltà socioeconomiche ecc.
c) prescrivendo una precisa procedura legale e medica la legge 194 allontana lo spettro delle pratiche clandestine con tutta la corruzione che le accompagnava e i rischi gravi per la salute delle madri. È un risultato notevole, che garantisce chi è costretto a drammatiche scelte in caso di necessità. Ma ci sono, per la halakhàanche le situazioni in cui la decisione di abortire non è approvata, è una trasgressione. In questi casi, come in altri casi di trasgressione, la halakhà non si preoccupa di tutelare il trasgressore (è il principio detto hal’itehu larashà).
La halakhà e la moratoria
La proposta circolante di moratoria viene a chiedere la sospensione per tutti gli aborti. In senso politico educativo una decisione drastica di tal genere potrebbe servire di stimolo per riflettere sull’uso improprio – secondo la halakhà – delle pratiche abortive. Ma in tal modo si impedirebbe di abortire a chi secondo la halakhà ha comunque il permesso di farlo.
Non possiamo permettere ciò che è proibito, ma neppure proibire ciò che è permesso.
La norma religiosa e la norma dello Stato
La discussione attuale potrebbe coinvolgere la comunità ebraica italiana da due punti di vista opposti:
a) La difesa di un diritto derivante da una autonoma visione religiosa: se una determinata scelta (in questo caso alcuni tipi di aborto, in altri casi la ricerca sulle staminali) è lecita nella nostra visione bioetica, si chiede alla legge dello Stato di garantire la possibilità di esercitare questa scelta.
b) Al contrario, se è vero che dovrebbe essere nostra preoccupazione che i principi fondamentali noachidi siano rispettati da tutta la società, dovremmo adoperarci per ridurre i larghi limiti di permissività che la legge attuale consente.
Ciò potrebbe avere un senso se si discutesse solo su come modificare la legge 194; nella legislatura ora finita sono state formulate alcune proposte, che si presume saranno di nuovo ripresentate. Ma già su questo esistono problemi. L’esperienza israeliana è eloquente: la prima versione della legge sull’aborto promulgata dalla Knesset consentiva l’aborto anche per cause socioeconomiche; un emendamento dopo due anni le ha eliminate, ma il numero di aborti non è cambiato; semplicemente le motivazioni economiche sono state fatte passare come sanitarie, come il disagio psichico. Quindi avrebbe poco senso insistere su modificare questi aspetti della legge 194. Ce ne sono altri però che meritano attenzione, come il dato della sopravvivenza possibile, grazie ai recenti sviluppi tecnici, dei feti nati alla 25a settimana e di alcuni già alla 23a: alcune proposte di modifica della legge 194 propongono la limitazione dell’interruzione entro la 23a settimana; il che diventa già una complessa questione halakhica che andrebbe prima bene chiarita al nostro interno, anche se sono prevedibili conclusioni non univoche.
Inoltre la realtà attuale in Italia è più complessa. Il dibattito sulla legge 194 va oltre la questione strettamente bioetica, si sta colorando di connotazioni meramente politiche, come se fosse un’opposizione tra forze di destra e di sinistra, che non deve coinvolgere la comunità.
E ancora: nessuna delle due posizioni contrapposte è automaticamente conforme alla halakhà o alle sue varie sfaccettature. Tra l’altro, il maggior rigore per i non ebrei che la halakhà propone in questo campo sarebbe del tutto incomprensibile all’opinione pubblica, e controcorrente rispetto alle nostre tradizionali politiche che chiedono parità di diritti per tutti i cittadini.
E poi chi dovrebbe intervenire? La rappresentanza politica dell’ebraismo italiano avrebbe grandi difficoltà a esprimere una linea unitaria e maggioritaria su un argomento che già divide emotivamente e sul quale neppure i “religiosi“ hanno una visione unitaria. Nella tradizione politica dell’ebraismo italiano i nostri rappresentanti intervengono per la difesa dei diritti religiosi, non per l’estensione dei divieti. Questo ruolo potrebbero esercitarlo autonomamente i rabbini, certamente sul piano educativo delle scelte individuali; più problematico sarebbe un loro intervento nell’ambito politico legislativo; non certo perché sia illecito in generale che i rabbini espongano le loro posizioni nel dibattito bioetico pubblico, ma perché questo caso in particolare è troppo complicato: molte nostre posizioni tradizionali sono in partenza controverse e i punti in discussione della legge sono diversi e vanno affrontati separatamente.
C’è comunque un dato da tener presente: la posizione espressa dalla tradizione ebraica, complessa e articolata, si caratterizza, nel dibattito attuale, come una via di mezzo tra gli estremi, probizionisti e facilitanti. Per questo non solo non possiamo scegliere semplicemente tra i due opposti, ma dovremmo testimoniare la possibilità di una mediazione: se ci sarà un dibattito più specifico sui vari aspetti potremo e dovremo parteciparvi democraticamente proponendo le riflessioni della nostra tradizione.
Rav Riccardo Di Segni