In Germania durante il periodo della riforma la polemica sull’utilizzo dell’organo nel Bet ha-kneset esplose con forza, e vennero scritti vari opuscoli in lingua tedesca sull’argomento. La questione però fu posta, come spesso si è verificato nella storia della halakhàh, per la prima volta in Italia. Sulla posizione dei rabbanim italiani è stato pubblicato in Asufot 1, pp. 265-318 un lunghissimo articolo in ebraico dello storico Meir Beniayahu (1926-2009), autore di numerosi saggi sull’ebraismo italiano, intitolato “la posizione dei sapienti italiani sul suono dell’organo al bet ha-kneset”, al quale rimando per approfondire il tema. L’uso di strumenti musicali è collegato a varie domande differenti: l’accompagnamento musicale infatti può segmentare le parole della tefillàh e distogliere chi la ascolta da esse, concentrandosi sulla musica.
Inoltre come è noto esiste un divieto collegato all’uso degli strumenti musicali di Shabbat, ed in assoluto, dopo la distruzione del Tempio, non è permesso suonare se non a scopo di mitzwàh. Esiste una difficoltà ulteriore: infatti l’organo viene usato principalmente durante le funzioni religiose dei goyim, per cui potrebbe essere vietato per via dei chuqqot ha-goyim (statuti dei goyim). Rispondendo a queste domande i chakhamim non hanno fornito una risposta univoca. Il primo ad essere interpellato sul tema fu Rabbì Moshèh Provenzalo, che fu interrogato dal nipote, circa la possibilità di cantare di Shabbat accompagnato da un suonatore non ebreo. R. Moshè Provenzalo rispondendo sottolineò due aspetti: se in occasioni gioiose si suona per la necessità dell’ebreo la cosa è permessa, al di fuori di questo contesto, se non si suona per un motivo di mitzwàh, o il non ebreo suona per conto proprio, è proibito. Dalla riposta possiamo ricavare che non c’è differenza fra l’organo e gli altri strumenti, e che le esibizioni di ebrei e non ebrei assieme non dovevano essere infrequenti. Nel tempio ashkenazita di Padova si suonava invece già ai tempi di R. Meir Kazenlnboghen, il Maharam di Padova.
La cosa si diffuse presto anche a Ferrara e Mantova. R. Yehudàh Arièh di Modena difese la novità, scrivendo nell’introduzione ad un’opera del compositore Shelomò De Rossi, che coloro che si opponevano a questa novità non aveva intelligenza, e per questo non era degno di ascolto. Infatti come è permesso suonare ai matrimoni, così è permesso farlo di Shabbat, perché lo consideriamo una sposa. R. Ezrà di Fano, il maestro del Ramà di Fano non solo non vietò la cosa, ma la lodò. Anche il Pachad Ytzchaq, nelle aggiunte al Pachad Ytzchaq (lemma shiràh) riporta la discussione in merito e scrive che Arièh di Modena e i rabbini di Venezia zittirono coloro che volevano vietare la cosa. In un altra teshuvàh, proveniente da Senigallia nel 1646, Arièh da Modena specifica quali erano i brani cantati: il qaddish, Barechù, la Qedushàh, e segnala delle discussioni sulla ripetizione di Keter e del nome di H. in Elleh mo’adè. Apparentemente l’organo apparve però solo nella generazione successiva. Il primo riferimento esplicito lo troviamo nelle parole di R. Avraham Yosef Shelomò Graziani di Modena, che ne permette l’utilizzo, se suonato da ebrei,e se è fatto a scopo di mitzwàh non c’è il pericolo di considerarlo come un seguire usi non ebraici. Il convertito Giulio Morosini (Shemuel Nachmias) narra che intorno al 1630 i rabbini di Venezia proibirono a dei non ebrei di suonare l’organo a Simchat Toràh, quando furono nominati come chatanim due ricchi, uno dei quali apparteneva all’accademia musicale.
All’inizio del ‘600 il rabbino di Gorizia, Issachar Beer Hellenburg, vietava i cori misti, perché avrebbero potuto condurre ad avere pensieri peccaminosi. Esplose anche una polemica in Piemonte nel Monferrato, per via di un coro che era accompagnato musicalmente da un non ebreo, che a volte cantava assieme agli altri. R. Gavriel Pontremoli proibì la cosa, perché è vietato suonare per via della distruzione del tempio, mentre Avraham Segre disse che alcuni permettevano, anche se il permesso per la halakhàh è differente da quello nella pratica, concludendo che è meglio vietare, tranne che nei posti in cui si usa permettere, e da questa affermazione possiamo concludere che in alcuni posti la cosa era già consolidata. A Modena sorse un rinomato gruppo di musicanti, chiamato Tof we-kinnor, e R. Yshma’el ha-Kohen venne interpellato sull’opportunità per uno di loro in lutto di partecipare all’accompagnamento per Osha’anà Rabbà. R. Yshma’el ha-Kohen rispose che dopo i sette i giorni di lutto, per scopi di mitzwàh la cosa era consentita. I membri del gruppo ribatterono che il suo strumento era indispensabile, ed in alcuni passaggi suonava da solo, e senza di lui avrebbero dovuto saltare del tutto quei passaggi. Visto che le cose stavano così, il Rav permise perché si tratta di una necessità della collettività ed è un fenomeno molto sentito. Da questa risposta possiamo vedere con chiarezza quale fosse il ruolo della musica nelle sinagoghe italiane all’epoca.
Con la Riforma in Germania vennero introdotte varie novità, che presto si diffusero in altri luoghi. Le prime domande che sorsero furono sull’ingresso dell’organo nel bet ha-kneset, sulla recitazione della tefillàh nella lingua del luogo, sulla derashàh pronunciata nella lingua locale, sulla lettura della Toràh senza i tea’mim, oltre all’abolizione del secondo giorno in diaspora, che aveva un significato ben più dirompente, andando contro la taqqanàh dei chakhamim. Tutte queste questioni, con uno spirito ben differente, volto a chiarire quale fosse la halakhàh da seguire, erano state già poste dai chakhamim italiani. Se i riformisti non avessero fatto tanto clamore, queste domande non sarebbero state considerate differenti dalle altre questioni halakhiche, e non avrebbero dato luogo ad una risposta tanto piccata. Varie volte il siddur era stato tradotto in italiano, già del XVI sec., almeno dai tempi del cabalista Mordechay dato, le derashot erano tenute in italiano. Anche sulla lettura senza te’amim R. Shelomò levet ha-Levì di Salonicco, testimonia, sebbene dobbiamo segnalare che non esistono altre fonti in merito, che questo era l’uso in Italia, e ipotizzando un motivo secondo la qabalàh, dice che la Toràh in realtà è una sequenza di Nomi Divini e così deve essere intesa, ed i te’amim, conferendo un senso differente al testo, la facevano scendere di livello.
Nel secondo decennio del XIX sec. la riforma iniziò a prendere piede in Germania, provocando reazioni molto dure da parte del resto del mondo ashkenazita. La reazione in Italia fu molto più tiepida, anche per via della tradizione precedente e dell’apertura nei confronti del mondo circostante. I riformisti tedeschi lo sapevano bene, e per questo cercarono di instaurare un rapporto con i rabbini italiani, in modo particolare quelli di Livorno e Verona, che dopo una disamina halakhica si mostrarono concordi sulla liceità dell’uso dell’organo al bet ha-kneset. Da Livorno arrivò una teshuvàh, scritta da un rabbino marocchino che non era fra i rabbanim della città, che portava varie argomentazioni per permettere l’uso dell’organo: a) il divieto di suonare dopo la distruzione del Tempio riguarda solo il suonare in occasioni frivole e non per mitzwàh; b) se hanno permesso di suonare per gli sposi, che sono esseri umani, tanto più sarà permesso per l’Eccelso; c) il canto è permesso, ed ovunque i chazanim cantano; d) adeguarsi a quanto fanno i goyim è vietato solo quando si tratta di azioni singolari, ma suonare per accompagnare la preghiera è un antico uso ebraico; e) l’uso dell’organo invoglia le persone a venire al Bet ha-keneset. Alla fine del responsum è scritto che i rabbini di Livorno erano d’accordo con quanto scriveva, ma non possiamo sapere se effettivamente fosse così. Una risposta, ancora più entusiastica, arrivò dal rabbino Ya’aqov Recanati di Verona. Non tutti i rabbini italiani erano di questo parere, e non serve dire che i rabbini ashkenaziti tuonarono, minacciando di escludere i riformatori dalla congrega di Israele. Per risolvere la situazione in Italia venne coinvolto come paciere R. Eli’ezer ha-Levi di Trieste, allievo del Chidà, uno dei rabbini maggiormente autorevoli dell’epoca, che personalmente era avverso all’introduzione di queste innovazioni, e per questo cercò di intervenire sui rabbini di Livorno, che almeno secondo il responsum riportato, erano d’accordo. Nel frattempo anche gli altri rabbini italiani si pronunciarono sulla questione, rigettando i cambiamenti, in particolare quelli sui cambiamenti nella tefillàh, sino a che si espressero anche i rabbini livornesi, sottolineando quanto fosse peccaminoso quello che si tentava di fare, e esplicitando la propria avversità all’uso dell’organo.
Fra i firmatari della lettera ad Amburgo, da dove proveniva la domanda, c’erano venti chakhamim livornesi, ed allegata una lettera del rabbino che aveva scritto il pesaq che permetteva l’uso dell’organo, dove scriveva, al contrario rispetto a quanto aveva fatto in precedenza, di essere d’accordo con i rabbini della città. L’intervento di R. Eli’ezer ha-Levì e la sua avversione alla riforma, che lo portò nonostante l’età avanzata a girare per l’Italia in cerca di sostegno in questa battaglia, colpì profondamente Shadal, suo giovane allievo, che narra che al bet ha-kneset di Trieste prima e dopo della tefillàh non si parlava di altro. Nel frattempo a Venezia veniva introdotto un coro che partecipava rispondendo ad alcune parti prestabilite della tefillàh, e restaurando quindi quanto avveniva a Ferrara, Mantova, e Venezia due secoli prima. Il Rabbino di Venezia Avraham Lattes si rivolse persino al Rabbino di Cento, Chananel Neppi, per sapere se, secondo lui, dovesse passare sotto silenzio il fatto che il pubblico, proprio per via della presenza del coro, avesse smesso di rispondere Barukh Hù uvarukh Shemò e Amen. R. Chananel Neppi rispose che secondo lui non c’era un obbligo halakhico di rispondere Amen a voce, e che in altre realtà, ad esempio Corfù, avveniva lo stesso. Oltretutto attraverso questo sistema, già documentato, si evitava l’altra questione molto più scottante, che era quella dell’uso dell’organo. Quindi nello specifico è meglio chiudere gli occhi, perché la pace vale più di tutto. Risulta chiaro da quanto abbiamo detto che in Italia non c’erano, almeno in quel periodo, rabbini ideologicamente contrari all’uso dell’organo, ma che la situazione contingente richiedeva una certa rigidità. Successivamente Avraham Reggio permise ad un goy di suonare di Shabbat e Mo’ed al bet ha-kneset, anche se riteneva cosa spregevole che “un non ebreo aiutasse a ringraziare D.”. Qualcuno volle persino permettere ad un ebreo di suonare, ma vari rabbini si opposero. Nei decenni successivi in alcune sinagoghe si smise di suonare l’organo, mentre in altre si continuò, ritenendo di poter continuare a comportarsi secondo quanto dissero i rabbanim delle generazioni precedenti.