Congregateve donni, tutti qvanti / e tutti quelli che non han dottrina / in la Sacra Scrittura e in li santi / paroli de li profeti e la mattina / de Purim o qualche giorno innanti, / mentre se coce la vostra cocina, / veniti che in versi da ponto in ponto, / la istoria de Purim io ve racconto.
Con questi versi R. Mordekhay Dato, cabalista vissuto a S. Felice sul Panaro nel Cinquecento, esordiva la sua “Meghillat Ester in ottava rima”: un volgarizzamento in versi italiani, ma in caratteri ebraici, della prosa del libro biblico di Ester. Come scrive Giulio Busi nell’introduzione alla sua pubblicazione del testo (“La istoria de Purim io ve racconto”, Luisé, Rimini, 1987, p. 17), “escluse quasi del tutto dall’insegnamento dell’ebraico, le donne ebree erano appena in grado, nei secoli passati, di riconoscere le lettere dell’alfabeto. Anche alla componente femminile della Comunità il Giudaismo richiede però una certa partecipazione alla vita religiosa… Da qui… il sorgere di una letteratura “femminile” in lingua volgare, più precisamente in quella variante del volgare comunemente in uso presso gli Ebrei d’Italia”.
La Meghillat Ester in ottava rima è tratta da una serie di colonne del Ms. 14 (83.1) della Biblioteca Civica di Verona. In calce allo stesso manoscritto Rav Elia Richetti nei primi anni Settanta identificò, fra altri scritti, una versione assai particolare di una delle Zemirot di Shabbat più cantate in assoluto: Tzur mi she-llò akhalnu (“Benedite, o miei fedeli, la Rocca da cui abbiamo mangiato”). Si tratta, propriamente, di una introduzione (reshut) alla Birkat ha-Mazon, una sorta di invito a benedire H. tutti i commensali insieme, di cui non conosciamo l’autore. Il testo universalmente noto riporta quattro quartine, esattamente come quattro sono le benedizioni che compongono la Birkat ha-Mazon. Le prime tre strofe dell’inno rilevano un netto parallelismo tematico con le rispettive prime tre Berakhot. La prima berakhah, in cui ringraziamo D. per il fatto che alimenta tutte le creature (ha-zan et ha-kol), è riecheggiata dalla prima quartina ha-zan et ‘olamò (“Colui che nutre il Suo mondo”). Nella seconda Berakhah ringraziamo H. per il dono della terra che ci fornisce il nostro fabbisogno e così facciamo anche cantando la seconda strofa: nevarekh le-Eloqenu ‘al eretz chemdah, “Benediciamo il nostro D. per la terra desiderabile”. La terza benedizione verte sulla ricostruzione di Yerushalaim ed anche la terza strofa della Zemirah: rachem… ‘al Tziyon, “Abbi misericordia per Zion”. R. Chayim di Volozhin sostiene addirittura che sarebbe inopportuno cantare questo inno prima della Birkat ha-Mazon, perché per il suo contenuto esenterebbe dall’obbligo di recitare la benedizione.
Diverso il caso della quarta strofa, che apparentemente nulla ha a che vedere con l’ultima Berakhah della Birkat ha-Mazon. L’unico riferimento che troviamo in essa è al kos shel Berakhah: è uso antico terminare la benedizione del pasto, particolarmente nei giorni festivi, recitando la Berakhah su un calice di vino. E’ stato osservato che solo le prime tre Berakhot della Birkat ha-Mazon sono de-orayta, rispondono cioè all’obbligo della Torah riferito al versetto “Mangerai, ti sazierai e benedirai H. tuo D.” (Devarim 8,8), mentre la quarta è un’aggiunta posteriore, di istituzione rabbinica. Sappiamo per tradizione che ciò è avvenuto allorché fu concessa sepoltura ai martiri di Betar dopo la rivolta di Bar Kokhbà contro i Romani nel 135. Alcuni hanno formulato pertanto l’ipotesi che anche Tzur mi-shellò akhalnu, dal momento che ignora la quarta Berakhah, potrebbe essere antecedente a quell’epoca. Ma non è invece escluso che proprio la invocazione finale affinché il Bet ha-Miqdash sia ricostruito al più presto contenga un richiamo velato al significato che quella rivolta, ancorché soffocata nel sangue, avrebbe assunto per le generazioni successive.
La novità rappresentata dal ms. veronese consiste nel fatto che esso riporta una quinta strofa:
רשות אשאלה נא לומר ברכת מזון \ אל ק-ל אתחננה לבל יהי רזון \ תנו מורי לב נא כעל דבר חזון \ כי לא בחפזון אברך ה’.
“Domando il permesso (reshut!) di recitare la Birkat ha-Mazon: supplicherò D. affinché non vi sia penuria. Signori miei datemi attenzione come se vi rivelassi una profezia: senza alcuna fretta benedirò H.”. E’ evidente in quest’ultimo testo (ammesso che sia originale) il proposito dell’autore di cui si è parlato. Non è escluso che questa postilla formale sia stata scritta proprio per chiarire che l’inno è solo un’introduzione alla Birkat ha-Mazon e non ha alcuna pretesa halakhica di sostituirsi a essa.
A sua volta il ritornello: Tzur mi-shellò akhalnu barekhù emunay, richiama lo Zimmun, cioè l’invito preliminare rivolto dal più autorevole dei commensali ai suoi compagni di tavola affinché distolgano l’attenzione dal cibo e si concentrino sulla Berakhah da recitare. L’espressione richiama il Midrash (Bereshit Rabbà 49,4) che descrive Avraham nostro Padre nell’atto di accogliere gli ospiti nella sua tenda e, dopo averli adeguatamente rifocillati, li invitava a benedire Colui che aveva messo loro il cibo a disposizione. Anche la frase successiva sava’nu we-hotarnu ki-dvar H. (“ci siamo saziati e abbiamo avanzato del cibo secondo l’ordine di H.”) contiene precisi riferimenti biblici (2Melakhim 4, 42-43; Rut 2,14). Parrebbe un riferimento alle Hilkhot Se’udah, le regole del pasto per cui il cibo non deve restare in pentola, ma ne deve rimanere sul piatto di portata. In altre parole, il padrone deve offrire agli ospiti tutto ciò che ha, ma questi non si devono mostrare affamati al punto di approfittarsene completamente. Secondo un’altra spiegazione il riferimento è allo Shabbat nel deserto: la manna non sarebbe scesa l’indomani, pertanto i Figli d’Israele curavano di non esaurirla del tutto il venerdì sera, affinché il pasto del giorno di Shabbat fosse almeno altrettanto ricco e abbondante.
Dello Shabbat, peraltro, non si fa diretto accenno neppure in questa Zemirah. Beer, nel suo Siddur ‘Avodat Israel, sostiene che Tzur mi-shellò akhalnu sarebbe pertanto da recitare ogni giorno se solo avessimo il tempo per farlo. Ma di Yom Tov va senz’altro cantato come di Shabbat. Ad Ancona veniva cantato anche al termine del pasto che segue il Digiuno di Kippur, accompagnato con la musica di una delle Selichot.