Appunti per una lezione all’ADEI del 2/2
Sin dall’antichità troviamo testimonianze di poesie nella Bibbia, con inni a D., canti di gioia privata, familiare o nazionale, componimenti per celebrare delle vittorie, o commentare episodi storici, tristi o felici, come la cantica del mare o il breve inno che precedeva e seguiva i movimenti del Mishkan. Nel tempio spesso questi componimenti avevano un accompagnamento musicale. Il singolo spesso si identificava nella collettività, attribuendo agli altri i suoi stessi sentimenti, speranze ed aspirazioni.
Il libro dei Salmi, primo dei Ketuvim e dei libri Emet (Yov, Mishlè, Tehillim, caratterizzati da un sistema di cantillazione differente dagli altri libri del Tanakh), è una raccolta di 150 componimenti poetici, con i quali si volevano esprimere sentimenti di dolore o speranza, di pena o di fiducia in D., di critica verso la malvagità umana e sicurezza nella giustizia divina. La differenza principale fra i libri profetici ed i ketuvim è che i primi sono parole che H. rivolge agli uomini, mentre i Ketuvim sono espressioni dell’uomo verso la divinità. E’ inesatto affermare che il singolo ha trovato spazio nella poesia ebraica solamente in un secondo momento, e che l’espressione religiosa fosse per molti secoli unicamente collettiva. E’ altrettanto sbagliato attribuire ad un singolo individuo, David, le creazioni di secoli.
Il Graetz ad esempio attribuisce a David l’invenzione dei Salmi; negli ultimi decenni tuttavia l’impostazione è cambiata, ed il Re d’Israele rappresenta l’Io collettivo, in quanto rappresentante della comunità. La questione era stata già affrontata nel Talmud nel trattato di Pesachim (117a) dove i Maestri discutono se gli inni e le lodi di David fossero espressione personale o della collettività. I chakhamim concludono esprimendo una posizione intermedia, che sarà poi quella accolta dai critici nell’ultimo secolo. Secondo il Kaufmann gran parte dei Salmi sono espressioni individuali. Il problema degli autori e della datazione dei singoli Salmi è di incerta soluzione, ma ha un valore relativo, e quasi nullo per chi aderisce alla tradizione. La tendenza di alcuni critici di datare alcuni Salmi all’età degli Asmonei è praticamente decaduta. Difatti l’analisi linguistica e delle forme di pensiero non permettono di fissare la composizione del libro ad un’epoca così tarda.
TITOLO E SUDDIVISIONE In ebraico il libro dei Salmi si chiama Sefer Tehillim, plurale anomalo di Tehillàh (lode), che dovrebbe fare al plurale tehillot. Alcuni commentatori medievali, come il Ramban ed in particolare Ibn ‘Ezrà utilizzavano il femminile. In greco vengono chiamati Psalmoi, traduzione greca del termine mizmor. Il titolo ebraico non rappresenta tutti i generi contenuti nella raccolta, ma volendo dare alla raccolta un nome si è optato per indicarne l’argomento prevalente. Nella ghemarà in Bavà Batrà (14b) il libro figura come secondo fra i Ketuvim dopo il libro di Rut. In alcuni manoscritti compare in seconda posizione dopo il Libro della Cronache.
I Salmi sono divisi in 5 libri, di varia ampiezza e contenuto (1-41; 42-72; 73-89; 90-106; 107-150). I chakhamim hanno istituito un parallelismo con i cinque libri della Toràh. La divisione può essere dovuta a ragioni contenutistiche o di data: nel primo libro nella stragrande maggioranza dei casi viene indicato come autore David; nel secondo libro sono indicati quattro differenti autori. Nel terzo libro David viene indicato come autore solamente una volta; i Salmi del quarto libro sono invece per lo più anonimi; nel quinto libro abbiamo molti Salmi anonimi, ma anche 16 attribuiti a David. Molti commentatori ritengono che i nomi che compaiono all’inizio di molti Salmi indichino il nome dell’autore; alcuni in determinati casi ritengono che il nome che compare all’inizio del Salmo indichi a chi sia stato dedicato, mentre in altri casi indica chi era solito cantarlo. La ghemarà in Bavà Batrà sostiene che il libro fu scritto da David e dieci anziani: Adam, Malqitzedeq, Avraham, Moshèh, Heman, Yedutun, Asaf, e tre figli di Qorach.I primi di questi tre non sono ricordati esplicitamente nel libro. Secondo un altra versione i dieci autori sono Adam, Avraham, Moshèh, David, Shelomò, Asaf, Heman, Yedutun, i figli di Qorach ed Ezrà, ma tutta la raccolta comunque viene attribuita a David. Ibn ‘Ezrà, introducendo il libro, riporta una discussione fra i commentatori; difatti se diciamo che David è l’autore, all’interno della raccolta avremmo delle profezie, perché dei Salmi, ad esempio il 126 (‘al Naharot Bavel), si riferisce ad eventi verificatisi molto dopo, e non si comprenderebbe perché il libro è inserito nei Ketuvim. Per questo molti ritengono che questi Salmi siano stati composti ed inseriti in un’epoca successiva.
E’ importante ricordare che la numerazione dei Salmi è differente fra la tradizione ebraica è quella greca e latina. In linea di massima in queste ultime bisogna diminuire di una unità il numero del Salmo. I Salmi hanno una lunghezza molto variabile: il più lungo è il 119, di 176 versi, in ordine alfabetico, il più breve è il 117, di soli due versi. Alcuni Salmi ritornano del tutto o in parte in altre parti del libro. Il nome più frequente fra i Salmi è quello di mizmor, che torna 37 volte, ed indica il canto accompagnato da strumenti musicali. Il termine shir, canto, compare da solo una volta sola, le altre volte accompagnato da mizmor, forse per indicare un canto corale accompagnato da strumenti musicali. Il termine shiràh, simile a shir, ma femminile, che troviamo nel Salmo 18, potrebbe indicare una cantica lunga, simile ad altre che incontriamo nella Bibbia, come la cantica del mare o quella di Devoràh. Shadal ritiene che queste cantiche siano cantate in coro, intercalandole con una specie di ritornello. Successivamente Shadal riterrà che solo la cantica di David fosse corale. Il nome mikhtam, che apre sei Salmi, è misterioso; alcuni lo derivano da ketem, oro, o da katam, pulire o nascondere, ad indicare un canto ben levigato o segreto in quanto vengono confessate colpe involontarie. 13 Salmi si intitolano maskil; secondo alcuni il termine significa poesia didascalica, oppure poesia artistica o dotta, da sekhel o da una radice araba che significa canto.
Altre termine dubbio è shigaion (Salmo 7), che sembra essere uno strumento musicale, che deriverebbe da una radice shagàh, che dovrebbe indicare un canto a voce spiegata. Altro titolo è Tehillàh, preposto al Salmo 145, che vuol dire lode, e dà,nella sua forma plurale il nome all’intera raccolta, stranamente rispetto a molti altri libri del Tanakh che prendono il nome dalle prime parole del libro. Tefillàh invece introduce cinque Salmi. 14 Salmi sono invece chiamati shir ha-ma’alot, uno, il Salmo 121 Shir la-ma’alot. Questi Salmi erano cantati nel Tempio salendo 15 gradini, che secondo la Mishnàh in Sukkàh (51b) erano quelli che conducevano dal recinto degli israeliti all’atrio delle donne. Chajes nota però che secondo la ghemarà in Shabbat (115a) c’erano gradini anche nel Monte del Tempio. Alcuni Salmi, ad esempio mizmor shir leyom ha-shabbat, nell’apertura indicano l’occasione in cui andavano recitati. Secondo la ghemarà in Pesachim (117a) ogni apertura dei Salmi indica delle differenti modalità: ci sono dei Salmi riferiti alla fine dei giorni, altri sono pronunciati tramite un turgheman, altri sono preceduti dall’arrivo della Presenza divina, altri l’hanno indotta a posarsi su David, per insegnarci che la Presenza divina non si posa se non quando c’è la gioia della mitzwàh.
Nei Salmi troviamo complessivamente 2527 versi. Il verso centrale sarebbe 78, 36. In base alla tradizione talmudica (Qiddushin 30a) il verso centrale del libro è Weh Rachum (78,38). Nello stesso brano vengono però indicati 5896 versi nel libro, oltre il doppio di quelli che ci sono nella divisione attuale.
LA MUSICA CHE ACCOMPAGNAVA I SALMI Molti termini musicali, spesso oscuri, accompagnavano i Salmi. Ne riporteremo solamente alcuni: 54 si aprono con la parola lamnatzeach, generalmente tradotto come direttore del coro. Il menatzeach era anche colui che componeva la musica. Vari Salmi sono neghinot, perché sono accompagnati da strumenti a corda. Nel Salmo 5 si parla di nekhilot, strumento di natura ignota, ritenuto simile al flauto. Lo sheminit dovrebbe essere invece un’arpa a otto corde, o un coro ad otto voci, o un pezzo cantato in ottava bassa, in opposizione ad ‘alamot, pezzo destinato al canto in ottava alta da parte di un soprano o di una bambina; secondo Segal si tratta invece di voci infantili. Il ghitit viene considerato uno strumento musicale della città di Gath, o un canto simile a quello dei vignaioli che pigiavano il vino.
TEHILLIM NELLA TEFILLAH I Tehillim, occupandosi in gran parte dei sentimenti umani, sia a livello individuale che collettivo, sono divenuti nei secoli una forma di tefillàh per tutto Israele in ogni generazione, poiché le persone identificavano le condizioni in cui si trovavano con quanto scritto nei Salmi, come se quei testi fossero stati scritti appositamente per loro. A proposito il Midrash dice che “tutto ciò che David ha detto nel suo libro, lo ha detto per lui, per tutto Israele e rispetto ad ogni tempo”. Moltissimi Salmi hanno fatto ingresso nella tefillàh che recitiamo quotidianamente. Pensiamo, solo a livello esemplificativo, ai pesukè dezimrà, i Salmi che recitiamo prima della tefillàh di Shachrit, o a quelli che accompagnano la Qabalat Shabbat, o all’Hallel. In varie occasioni, secondo alcuni riti, viene omesso il primo verso del Salmo, che costituirebbe una sorta di titolo: ad esempio molti sefarditi, recitando nella tefillàh di Shachrit il Salmo 30, Mizmor shir chanukkat ha-bait, omettono il primo verso. In vari passi la ghemarà, riferendosi ad alcuni salmi che venivano recitati nel Bet ha-miqdash, li cita tramite l’inizio del secondo verso. Rav Hutner nel Pachad Ytzchaq (sezione relativa a Hosh’anà Rabbà) scrive che siamo abituati a recitare i Tehillim nei momenti tristi, e siamo portati a considerarli una forma di preghiera. Ma i Tehillim sono molto di più di una preghiera, perché la preghiera viene recitata nei momenti in cui consideriamo che c’è il favore divino, mentre i Salmi hanno il potere di suscitarlo.
STUDIO DEI SALMI L’esegesi biblica si pone due obiettivi principali: spiegare anzitutto il senso letterale del testo, cercando di inserirlo nel suo contesto storico, filosofico, ecc.; ma un secondo passaggio, non meno importante, è quello di decontestualizzare gli episodi narrati e comprendere come siano legati alla nostra esperienza, individuale e collettiva. A livello paradigmatico il Libro dei Salmi si presta molto ad essere letto con questi due differenti approcci.
I COMMENTI AI SALMI Nei secoli moltissimi Chakhamim hanno commentato i Salmi: fra i classici i commenti più famosi, oltre a quello di Rashì, sono quello di Sa’adià Gaon, di Avraham Ibn ‘Ezrà, di Radaq, dell’italiano Ovadiàh Sforno.
Il libro dei Salmi, composto da David, si apre con la lettera alef, la prima dell’alfabeto, mentre il libro dei Proverbi, composto da suo figlio Shelomò, inizia con la lettera mem.Da questo traspare una differenza nella loro visione del mondo. Per David tutto è basato sul cervello, rappresentato dalla alef, per Shelomò dal cuore, rappresentato dalla mem, che è in posizione mediana (Or ha-chayim).
Il primo Salmo indica quali sono le condizioni che possono condurre l’uomo alla beatitudine. Il termine “beato” in ebraico è sempre al plurale (Ashrè), perché merita questo attributo solo chi ottiene successo in vari ambiti distinti, e non in uno solo (Meirì). David apre il libro dei Salmi con un’espressione analoga a quella con cui Moshèh aveva concluso la Toràh (Devarim 33,29) “Beato te, Israele”. Secondo la ghemarà in massekhet Berakhot (9b) questo salmo forma un corpo unico con il secondo “perché le nazioni sono irrequiete?”; difatti i brani maggiormente cari a David si aprono con beato, “Beato l’uomo”, e si concludono con beato, “beati tutti quelli che cercano rifugio in Lui”. La beatitudine è differente dal successo: il successo concerne gli aspetti materiali su questo mondo, mentre la beatitudine si riferisce agli aspetti spirituali e al mondo futuro. In particolare l’argomento è la beatitudine propria dell’uomo, negli ambiti che gli sono propri e lo distinguono dal resto degli animali (Malbim). Il Salmista ritiene che sia necessario anzitutto preservarsi dal peccato, come dirà poi nel Salmo 34 (v. 15), “allontanati dal male e fai il bene”, senza seguire “il consiglio dei malvagi e la strada dei peccatori”, che attraverso il proprio comportamento hanno la capacità di traviare chi li circonda, ma anche evitando di sedere assieme a chi “deride ogni cosa”, che non fanno del male, ma non fanno neanche del bene, perseguendo cose effimere, e non occupandosi di Toràh (Malbim).
L’uomo, non nascendo con la capacità di discernimento, è portato a seguire questa strada, perché riesce ad apprezzare il bene solo ad un certo punto (Radaq). Nel verso troviamo tre categorie differenti di esseri umani, che sono lontani dalla verità: quelli che negano tutto, e non credono nell’esistenza di D.; gli altri, che credono nella Sua esistenza e nell’esercizio della Sua provvidenza, ma vengono dominati dai propri istinti, e per questo peccano; coloro che credono e non peccano, ma non si sforzano di crescere attraverso l’occupazione nello studio e nei precetti (Ya’vetz). Le tre categorie sbagliano in tre ambiti differenti: il pensiero, l’atto involontario, la parola (Me’am lo’ez). Nel verso troviamo un crescendo nei verbi: “andare, stare, sedere”. Una volta che ci si siede assieme a loro e si sta in loro compagnia, si inizia ad acquisire le loro caratteristiche. Come la frequentazione dei sapienti è l’elemento più importante per servire correttamente H., così il frequentare stolti e malvagi è il modo migliore per non servirLo (R. Bechayè).
Il Talmud (Avodàh Zaràh 18b) lega questo verso all’esperienza spirituale di Avraham, che non andò secondo il consiglio dei suoi contemporanei che costruirono la torre di Babele, né si stabilì presso i sodomiti, che erano peccatori, né frequentò i filistei. Un Midrash riferisce il verso alla tribù di Levì, che non si unì al resto del popolo nell’episodio del vitello d’oro, entrando, al di fuori di Moshèh Aharon e Miriam, in terra d’Israele. Secondo il Midrash (Yalqut Shim’onì) esprimendosi David utilizza un numero di parole superiore a quello effettivamente necessario, perché avrebbe potuto dire “maledetto chi segue la strada dei malvagi”, ma non lo ha fatto, preferendo un espressione maggiormente “pulita”, perché ha imparato dal Signore, che nella storia del diluvio universale, quando vuole parlare degli animali impuri li designa come “gli animali che non sono puri”.
Ma non è sufficiente semplicemente allontanarsi dal male, deve esserci anche una parte costruttiva, perseguendo il bene, non un bene astratto, ma quello proprio della Toràh, non per il desiderio di ottenere dei benefici, applicandosi nello studio della Toràh Non è detto però che tutti gli uomini abbiano la capacità di intendere a pieno la Toràh di H., ma ciò che è indispensabile è che tenda ad essa, quantomeno per riuscire ad applicarla nell’ambito pratico, che viene chiamato dal Salmista “la sua Toràh”, e di ciò, studiare per mettere in pratica, deve occuparsi giorno e notte (Malbim).
Se l’uomo farà così sarà “come un albero piantato presso i corsi d’acqua”. L’uomo viene paragonato ad un albero, ma con una differenza fondamentale: le sue radici sono piantate in alto. Il suo cervello corrisponde alle radici dell’albero. Il suo sostentamento non è unicamente quello materiale; l’uomo vive anche delle parole del Signore, e se si preoccupasse solo della materialità sarebbe come uno che cammina a testa in giù. L’albero è differente dalle altre piante, che ogni anno, dopo aver dato i propri frutti, scompaiono. L’albero vive molti anni dando ogni volta nuovi frutti. L’albero di cui si parla è un albero trapiantato. Il malvagio riesce ad esprimersi solo in questo mondo, perché per lui non ci sarà altra possibilità. Il giusto invece riuscirà con successo a vivere a contatto con le acque superiori. Il contatto con l’acqua viene segnalato perché negli anni di siccità gli alberi non riescono a dare i frutti, o a darli a tempo debito. Allo stesso modo l’uomo che vuole governarsi unicamente tramite il proprio intelletto a volte riuscirà a farlo correttamente, ma molte altre sbaglierà. Chi invece riuscirà a creare il contatto continuo con la Toràh, si comporterà sempre per il meglio. Il frutto che produrrà sarà “il suo frutto”, quello connaturato a lei, degno della sua origine superiore, e non il frutto dell’intelletto umano, che non riesce a tramutare in azione pratica quanto ha elaborato (Malbim).
Per il malvagio, paragonato alla pula, si verifica esattamente il contrario. Il vento, una volta che non ha più il chicco di grano, che rappresenta il giusto, a proteggerla, la spazza via. Finché la massa mantiene il contatto con il giusto, viene sostenuta da lui. Quando non c’è più il legame, il malvagio non ha più ragione d’essere, e viene spazzato via, perché potrebbe contaminare il giusto (Malbim).
Anche nel giudizio il confronto con il giusto penalizza i malvagi, sia se abbiano peccato volontariamente, si se ciò sia avvenuto involontariamente, perché i giusti sono riusciti ad avere la meglio sui propri istinti.
La strada dei giusti è destinata a perdurare, perché riescono a cogliere dei concetti eterni, che non cambiano mai, e riescono pertanto ad unirsi alla divinità, acquisendo a loro volta l’eternità, al contrario dei malvagi, che non raggiungono queste acquisizioni, senza lasciare traccia alcuna della propria esistenza (Malbim).
Il senso di questo salmo è che, contrariamente alle apparenze, secondo le quali il malvagio sembra prosperare ed il giusto soffre, i malvagi saranno destinati a scontare per quanto hanno fatto (Me’am lo’ez).