Da una lezione di Rav Shabetai Sabato
Come è noto a tutti, la Toràh inizia con la lettera Bet, e questo è considerato un segno della sua superiorità rispetto alle altre lettere dell’alfabeto ebraico. Il midrash (Yalqut Shim’onì) rappresenta un dialogo fra H. e le lettere dell’alfabeto. Disse R. ‘Aqivà: “ ci sono ventidue lettere, con le quali è stata data la Toràh”. Quando H. volle creare il mondo le lettere si presentarono di fronte ad H., chiedendo che il mondo fosse creato attraverso di loro. Per prima si presentò la tav, che per convincerLo argomentò che attraverso di lei sarebbe stata data la Toràh ad Israele per mezzo di Moshèh.
Con la lettera tav infatti inizia il verso Toràh tziwwàh lanu Moshèh. H. però rifiutò, perché con la lettera Tav sarebbero stati segnati coloro che sono destinati a morire, come scritto nel libro di Ezechiele (9,4). La domanda sulla lettera con cui sarebbe iniziata la Toràh non è una domanda tecnica, ma sostanziale, perché ogni lettera rappresenta una diversa visione del mondo. La lettera tav, ultima dell’alfabeto, indica il raggiungimento del fine. La Toràh è lo scopo per cui il mondo è stato creato, ma dall’altra parte la tav rappresenta la morte, che è la fine dell’esperienza degli uomini in questo mondo. Il Signore invece predilige la vita, non solamente il fine è importante, ma anche il modo in cui viene perseguito. Il Midrash prosegue, e le lettere si presentano una dopo l’altra di fronte ad H., sino a che non arriva il turno della bet.
La bet sostiene che è giusto che sia lei ad aprire la Toràh, perché Barukh inizia con la bet. La bet rappresenta la dualità, maschio e femmina. Solo attraverso la dualità si raggiunge la berakhàh. La radice barakh inizia con la bet, che vale due, continua con la resh, che vale duecento, e si chiude con la kaf che vale venti. La benedizione è nel segno del raddoppiamento. Quando la alef vide che H. accolse la richiesta della bet si mise ad un angolo in silenzio, fin quando H. non la chiamò e le chiese: “alef, perché stai in silenzio e non mi dici nulla? La alef rispose: Signore del mondo, perché non ho forza di dire nulla dinnanzi a Te, perché tutte le lettere sono più importanti per via del loro numero, ed io ho un numero piccolo; la bet due, la ghimel tre, io solo uno!. Rispose H.: alef, non aver paura, perché tu sei in cima a tutte come un re. Tu sei una, Io sono uno, e la Toràh è una e la darò tramite di te al Mio popolo Israele, come è detto “Io (anokhì) sono il Signore tuo D.” La alef rappresenta l’unità, che nella nostra realtà materiale non ha seguito, al contrario della dualità. Per questo la alef è collegata al mondo spirituale e ad H., che è uno. Lì la dualità non trova spazio.
R. ‘Aqivà si rapporta con due versi, quelli che aprono la creazione ed i dieci comandamenti. La creazione inizia con la bet, i dieci comandamenti con la alef. La ghemarà in Bavà Batrà (74b) stabilisce che “tutto ciò che H. ha creato nel mondo, lo ha creato maschio e femmina”. Il nostro mondo è stato creato sotto il segno della dualità. La dualità che deriva dall’unità. Questo emerge in due punti nella parashàh di Terumàh: a) il coperchio d’oro puro, che ricopriva l’arca, sovrastato dai due cherubini; questa struttura era tutta d’un pezzo. b) la menoràh ed i suoi bracci, che erano un blocco unico. In entrambi i casi è chiaro che la molteplicità discende dall’unità. I Maestri hanno insegnato che “un uomo è una donna meritevoli, la Presenza divina è in mezzo a loro”. I termini Ish e ishàh sono contraddistinti dalla lettera Yod e Hè. Se entrambi hanno un’aspirazione di tipo spirituale, riescono a riunire il nome di H. Dai cherubini, i cui volti erano rivolti l’uno verso l’altro, arriva a Moshèh la profezia divina (Bemibdar 7, 89). Lo stesso fenomeno è riscontrabile nella menoràh: la fiamma proveniente dai bracci esterni era rivolta verso quello centrale. Tutto deriva dall’uno e torna all’uno: quando le due parti della coppia, l’una di fronte all’altra, si uniscono, solo allora, nell’interstizio generato dall’incontro, emerge la voce profetica. Anche il corpo umano è all’insegna della dualità: tutto quello che c’è nel lato destro, c’è nel lato sinistro.
Potremmo pensare che la seconda parte serva solo all’occorrenza, ma chiaramente non è così: la dualità conferisce all’uomo delle caratteristiche che l’unità non gli avrebbe consentito di avere. Un uomo con una gamba sola può andare saltellando, ma non camminare; per afferrare certi oggetti sono indispensabili due mani; con un occhio solo non potremmo percepire la profondità. Per il cervello questo è ancora più evidente: ciascun emisfero del cervello espleta solamente alcune determinate funzioni, uno è deputato ad occuparsi dei sentimenti, l’altro del pensiero razionale. Nella creazione del mondo nel secondo giorno, al contrario degli altri, non è scritto “ki tov”, il Signore non vide che quanto era stato creato era cosa buona, perché le acque di sopra e di sotto si erano divise. Quando l’uomo riesce a ricomporre questa unità, “chi trova una donna trova il bene (tov) e ottiene favore da H.”. Quanto stiamo dicendo trova espressione in un verso nel libro dei Tehillim (62,12) “il S. ha detto una cosa, due ne ho sentite”. Non siamo in grado di recepire completamente la parola divina: non è sufficiente dire che “Io sono il Signore”, è necessario anche dire “non avrai altre divinità al Mio cospetto”. Il comandamento relativo allo Shabbat è raddoppiato, in una versione delle tavole della legge è scritto Zakhor, nell’altra Shamor. L’una si riferisce agli aspetti cerimoniali dello Shabbat, come il qiddush, l’altra al divieto di compiere lavoro durante lo Shabbat.
Il Talmud (Rosh ha-shanàh 27a) stabilisce che Shamor e Zakhor sono stati pronunciati assieme, cosa che la bocca non può pronunciare e l’orecchio ascoltare”. Lo stesso concetto può essere individuato nella forma del lulav. Nel lulav vi sono le foglie, che si sviluppano ai lati del fusto, per riunirsi nella parte superiore, che si chiama teiomet. Questo termine è simile a tamim, che indica l’integrità. Se la teiomet è divisa, il lulav è inutilizzabile, come anche quando la maggior parte delle foglie sono divise fra di loro. Ugualmente se le foglie si sviluppano solo da un lato, ma non dall’altro, il lulav non è adatto per fare la mitzwàh. La kasherut del lulav dipende pertanto dal suo essere duale in basso e riunito in alto. Questo ci collega ad un aspetto ulteriore nella nostra parashàh, relativo alle assi del mishkan (Shemot 26,24): “E le assi combaceranno al basso, in cima finiranno insieme…”. Superando l’aspetto letterale, che ci spiega come erano fatti gli assi del mishkan, è possibile dire che esiste una dimensione nella quale la dualità in questo mondo si realizza nell’unità nei mondi superiori, e questa idea, che come abbiamo visto compare spesso nella nostra tradizione, dovrebbe ispirare la nostra vita, familiare e non.