Dina demalkuta dina è un concetto proprio del diritto ebraico secondo il quale “una norma del regno è una norma”. In base a tale principio il diritto del posto in cui si vive assume un valore giuridico per la normativa ebraica, e contravvenire ad esso equivale a trasgredire alla normativa religiosa. Il principio, che è stato accolto praticamente da tutti i rabbini di ogni tempo, senza eccezione alcuna (Ritvà a Nedarim 28a), sembra andare contro allo spirito della halakhàh, la quale, come è risaputo, si interessa di tutti gli ambiti dell’esistenza umana. La legge è un elemento fortemente caratterizzante del popolo ebraico, tanto che un precetto fondamentale è quello di istituire tribunali in ogni luogo[1] (Deut. 16,18).
L’ebreo, anche al di fuori di Israele, è sottoposto alle norme della halakhàh, anche in ambito civile e penale. Molto si è scritto su questo concetto dal punto di vista storico, sociale e giuridico. In particolare il tema è stato sviluppato dagli studiosi ebrei medievali. La legge ha lo scopo di normare il rapporto fra individui e stato, ed anche quello fra esseri umani. Il diritto ebraico naturalmente si interessa di entrambi gli aspetti. Il dominio straniero in terra d’Israele e l’esilio del popolo ebraico hanno creato però una situazione precedentemente non prevista, ed un mancato pronunciamento della halakhàh sulla questione avrebbe generato una lacuna, non avendo a disposizione un criterio che regolasse il rapporto fra i sudditi ed un re straniero. Non si può negare però che l’esistenza di un altro ordinamento ulteriore rispetto alla halakhàh costituisca un notevole elemento di disturbo; difatti chiunque potrebbe invocare dei diritti richiamandosi all’altro ordinamento, rischiando di distruggere la certezza del diritto, e quindi è necessario stabilire una delimitazione ben precisa agli ambiti di applicazione del dina demalkuta. Inoltre in alcune situazioni anche i giudici di un tribunale ebraico dovranno tenere conto di questo principio, negli ambiti in cui viene applicato. Esiste poi la possibilità che un imputato accetti di essere giudicato da un tribunale ebraico, solo a condizione che il principio venga tenuto in considerazione dai giudici (Rashbà, riportato dal Bet Yosef a Choshen Mishpat 26). Ma lo stesso Rashbà, pur ammettendo tale possibilità, sostiene che è indispensabile individuare un limite, perché esiste il rischio concreto di distruggere la Toràh di Israele.
E’ necessario fissare dei limiti precisi anche per stabilire quale sia il sottile limite che divide il dina demalkuta dalla gazlanuta demalkuta, la violenza di stato. Il problema con il passare dei secoli è divenuto sempre più importante, perché sino ad un certo periodo gli ebrei godevano di una certa autonomia nell’ambito giudiziario, ed era concesso loro di avvalersi dei propri tribunali. In particolare, con la nascita degli stati moderni, lo stato acquisisce tutta una serie di prerogative che in precedenza erano ad appannaggio della chiesa. Si pone anche un’altra questione: non è detto che il re tenga in considerazione questo aspetto della nostra normativa. In Bavà Qamà 113b Ravà nota come il governo tagli le palme per farne dei ponti sui quali passiamo. Tutto questo è giustificato o no? O ad esempio: se in un certo stato vi è un istituto simile alla nostra usucapione, e utilizzando un certo bene per un periodo prestabilito se ne acquisisce la proprietà, ma il periodo ha una durata differente nel diritto ebraico e in quello persiano, quale diritto si dovrà seguire, quello ebraico o quello persiano (Bavà Batrà 55a)? O rispetto a questioni più recenti: se in un certo stato è vietato acquistare degli schiavi, ci si dovrà attenere a tale principio? Più in generale possiamo chiederci se è possibile per un ebreo rispettare la propria legge religiosa ed essere al contempo rispettoso della legge dello stato in cui vive.
Nel Talmud L’espressione compare quattro volte (Ghittin 10b[2], Nedarim 28a, Bavà Qamà 113a, Bavà Batrà 54b) nel Talmud Babilonese, sempre a nome dell’amorà babilonese Shemuel (III sec.), della prima generazione degli amoraim di Babilonia. L’affermazione di Shemuel è significativa, perché al contrario delle generazioni precedenti, che si erano espresse su un governo straniero che legiferava in terra d’Israele, per la prima volta troviamo un pronunciamento sul rapporto con il governo per gli ebrei in diaspora. Questo stesso rabbino dirà su una questione leggermente differente: “tutto quello che è detto nel brano del re, è permesso al re”. Nel cap. 8 del primo libro di Samuele il profeta si dilunga ad illustrare al popolo ebraico, che voleva essere governato da un re, al pari delle popolazioni circostanti, gli innumerevoli diritti del re. Rav (Sanhedrin 20b)[3] riteneva che sia vietato per il re fare quanto scritto nel libro di Samuele, e che l’unico scopo sia quello di impaurire il popolo ebraico, tanto che alcuni hanno ritenuto che Rav non ammetta il principio dina demalkuta dina; Shemuel invece considera quelli indicati come diritti effettivi del re. I commentatori successivi discuteranno se le due affermazioni sono collegate fra loro, e questo pronunciamento si rivelerà molto importante per stabilire i limiti di dina demalkuta dina. L’espressione dina demalkuta dina compare in relazione a due ordini differenti di casi: nei trattati di Bavà Qamà (113a) e Nedarim (28a) si parla dell’obbligo di pagare i dazi imposti dal re; in Bavà Batrà (54b) e Ghittin (10b) l’argomento è quello della capacità del re di stabilire la liceità o meno di certe pratiche commerciali. Di fatto la fonte rabbinica più antica in cui si incontra il dominio straniero si trova nella Mishnàh, nel trattato di Avot (3,2)[4]: “R. Chananià l’aiutante dei sacerdoti diceva: prega per la pace del regno, perché se non fosse per il suo timore, ciascuno mangerebbe vivo il suo prossimo”. Il Talmud (Avodàh Zaràh 4a)[5] spiega così l’espressione: “come per i pesci del mare, il più grande mangia il più piccolo, anche per gli uomini, se non fosse per il timore del regno il più grande mangerebbe il suo prossimo”. Nella Bibbia il concetto era stato espresso dal profeta Geremia (29,7)[6]: “E cercate la pace della città dove vi ho esiliato e pregate per lei al Signore, perché nella sua pace voi avrete pace”.
Nella halakhàh I rishonim applicano il dina demalkuta in entrambi gli ambiti in cui questo compare, sia per l’esazione delle tasse, sia per la fissazione di pratiche commerciali. Per questo per esempio il Rashbam (Bavà Batra 54b) spiega che, visto che tutti gli abitanti del regno hanno accettato su di sé gli statuti del re, che hanno pienamente valore giuridico, chi detiene dei beni del suo prossimo secondo le norme vigenti stabilite dal re, non è perseguibile per furto. I rishonim d’altra parte discutono sulla limitazione del principio: se per esempio il re si appropria di un campo contro le leggi che lui stesso ha stabilito sarà considerato rubato? O il re ha diritto di punire un’intera categoria per via di un delitto commesso da un individuo non meglio specificato di quella categoria? Oppure ha il diritto di stabilire delle tasse più alte solamente per gli ebrei? E come conseguenza delle limitazioni della norma: ci sono dei casi in cui la disobbedienza civile di un ebreo è accettabile? In generale si deve tenere in considerazione quanto scrive il Ramban, che il principio non è “una norma del re è una norma”, ma “una norma del regno”; pertanto nel principio sono comprese solamente quelle norme che i re normalmente istituiscono, e non qualsiasi capriccio di un re. Questo confine è molto sottile: alcuni per stabilire la liceità dell’istituzione di una norma pongono come modello il diritto internazionale nel momento in cui la norma viene emanata. Esistono però altre limitazioni: ad esempio il re non ha il diritto di penalizzare una certa categoria. Alcuni decenni fa in Israele venne trattato il caso dell’ornamento di un Sefer Toràh che era stato espropriato durante la seconda guerra mondiale e ritrovato a Gerusalemme. Dopo la guerra i legittimi proprietari avevano ancora diritto di rivendicare la proprietà o per via dell’espropriazione non ne erano più i padroni? In quell’occasione, pur riconoscendo il valore del principio dina demalkuta, il tribunale stabilì che l’espropriazione non aveva valore giuridico, perché poneva delle differenze fra gli abitanti, e pertanto l’oggetto doveva essere riconsegnato. Questa regola ha numerose distinzioni, che sono state affrontate dai poseqim. Altro caso è quello della punizione collettiva: il Rivash in un suo responsum riporta il caso di alcuni ebrei che avevano commesso un reato, e per questo il re aveva deciso di espellere tutti gli ebrei dal suo territorio. La popolazione ebraica riuscì ad arrivare ad un accordo versando al re una grossa cifra di denaro. Il Rivash sostiene che l’approccio del re è in totale contraddizione con quanto la Toràh sostiene. Difatti sia Abramo nell’episodio di Sodoma e Gomorra (Bereshit 18,25), sia Moshèh nell’episodio di Qorach (Bemidbar 16,22) ribattono al Signore che non è possibile che il giusto venga punito assieme al malvagio!
Secondo alcuni rishonim il diritto del re si limita a norme già vigenti da tempo, ma non alle sue innovazioni. Una ulteriore limitazione è che il principio si applica solo per norme che hanno come scopo di ordinare la vita del regno, ma il re non può entrare nella vita dei cittadini senza motivo. Ad esempio non si può invocare questo principio per questioni di eredità, perché il re non ha alcun interesse in ciò. Altra limitazione riguarda la legiferazione in contrasto con la normativa religiosa; nel tal caso quest”ultima ha la meglio, perché il re non ha alcun interesse che i cittadini trasgrediscano le norme religiose. Per questo i documenti emessi dai tribunali in generale hanno valore, all’infuori di quelli che toccano lo status giuridico personale delle persone, ad esempio un documento di divorzio. Il Maimonide scrive (Hilkhot melakhim 3,9): “fra le parole del servo e quelle del Re, a quali si dovrà dare ascolto?”. In ogni caso le norme imposte dal re, anche quando in contrasto con quelle stabilite dalla Toràh, divengono rilevanti per stabilire i rapporti fra ebrei e non ebrei. Un’ulteriore limitazione riguarda la nomina dei giudici: se un re incarica dei giudici del tribunale rabbinico inadatti a ricoprire il compito, per via della loro condotta o della loro conoscenza insufficiente, trasgredisce un divieto della Toràh, perché in questo modo torce il giudizio[7] (Rambam, Hilkhot Sanhedrin 3,8). Il Rivash però ritiene che se il giudice nominato è adatto a ricoprire l’incarico, la nomina del re ha pienamente valore. Alcuni poseqim (ad. es. Shut Penè Moshèh 2,116) si interrogano sulla validità del principio, quando l’ordinamento istituito corrisponde ad un’altra normativa religiosa, ritenendolo non applicabile in questo caso.
I Rishonim discutono poi se il principio valga solamente per i re non ebrei (Ran Nedarim 28a) o anche per gli ebrei (Rambam, Hilkhot ghezelàh 5,11[8]; Shulchan ‘Arukh, Choshen Mishpat 369,9). Secondo alcuni la regola si impara proprio dai re ebrei.
Motivo della regola Sul fondamento giuridico del dina demalkuta troviamo molti pronunciamenti dei chakhamim, molto differenti fra loro. Il Talmud difatti non spiega il motivo della norma. In poche occasioni nel diritto ebraico troviamo una discussione nella quale maestri, anche della stessa scuola, sono divisi fra loro. Questo è per esempio quanto avviene fra i Tosafisti, dove R. Ytzchaq e R. Eli’ezer di Metz sono in disaccordo con il loro maestro Rabbenu Tam. Il Shut Heshiv Moshèh (Choshen Mishpat 91) per esempio sostiene che “alcuni hanno portato il vessillo del re in cielo ed altri lo hanno gettato nella polvere”, tanto che non è possibile individuare una linea chiara e dei fondamenti solidi. Vi sono numerosi approcci differenti sul fondamento del dina demalkuta, che riporteremo schematicamente, senza pretesa di completezza. L’autorità del re è può essere vista in diversi modi:
- Secondo alcuni l’autorità del re deriva direttamente dalla divinità; nella tradizione ebraica quando si vede un re si recita una benedizione “shenatan mikevodò levasar wadam – che ha dato del suo onore ad un essere di carne e sangue”. Come il Signore ha conferito al re il diritto di dominare sugli uomini, così gli ha dato il diritto di disporre dei loro beni.
- Secondo altri il potere del re deriva dal fatto che i suoi sudditi hanno accettato le sue norme (Rashbam Bavà Batrà 54b; Rambam, Hilkhot Ghezelàh waavedàh 5,18[9]; Shulchan ‘Arukh, Choshen Mishpat 369,2[10]). In particolare il Rambam indica come elemento distintivo del riconoscimento del potere del re l’utilizzo delle monete da lui diffuse. Gli acharonim discutono se questo diritto valga solo per aspetti economici o si espanda a 360 gradi.
- Secondo altri il re possiede la terra, dalla quale ha la possibilità di cacciare i sudditi, e da ciò deriva il suo diritto di chiedere agli abitanti del regno di attenersi alla sua volontà (Ran a Nedarim 28a a nome delle Tosafot; Rosh, Nedarim 3,11). Pertanto chi segue questa opinione (ad esempio il Ramà) applica il principio unicamente a pronunciamenti relativi alla terra. Chi è di questo parere non applica il principio ai re di Israele, perché la terra appartiene allo stesso modo a tutti, ed il re non ha il diritto di scacciare gli abitanti di Israele in un’altra terra. Secondo alcuni questa visione, elaborata da maestri che vissero nel Medioevo, è influenzata dal governo feudale in voga all’epoca.
- Altri (per esempio il Rashbà a Yevamot 26b) ricavano questo diritto dalle regole della conquista di una terra, nella quale i beni degli abitanti vengono acquisiti dal re.
- Altri (Mabbit, Qiriat Sefer Hilkhot Ghezelàh 5) imparano il principio dal cap. 8 del primo libro di Samuele, dove vengono descritti gli enormi diritti del re. Alcuni sostengono che non sia possibile imparare delle norme da quel brano, perché le parole di Samuele non avevano altro obiettivo se non impaurire il popolo e farlo desistere dalla sua richiesta di avere un re, e per questo la descrizione è volutamente esagerata.
- Per alcuni (Rashì su Ghittin 9b; Tosfot Rid su Ghittin 9; R. Ya’aqov Anatoli in Malmad ha-Talmidim, parashat Noach e Parashat Mishpatim; Even ha-Ezel, Hilkhot Nizqè Mamon 8,5[11]) l’autorità del re deriva dalla legge noachide di istituire tribunali, secondo la quale il re può emanare dei decreti per il bene della collettività.
- Altri (Shut Chatam Sofer, Choshen Mishpat 44) la derivano dalla possibilità conferita al re di mandare le persone a combattere le sue guerre di espansione, mettendo a rischio la loro vita (Shevu’ot 35b). Conseguenza di questa visione è che, contrariamente a quanto molti altri sostengono, per il dina demalkuta non ci si può sottrarre all’obbligo del servizio militare.
- Alcuni (Devar Avraham, cap. 1, che si basa sull’opinione di R. Tam) fondano l’autorità regale sulla possibilità del re di compiere degli espropri.
- alcuni (Bet Shemuel, Even ha’ezer 28,3, ripreso per la halakhàh dal Minchat Itzchaq 2,86) ritengono che il principio non derivi dalla Toràh, ma sia un’istituzione rabbinica.
Dina demalkuta nello stato d’Israele Con la nascita dello stato d’Israele il tema è divenuto estremamente attuale, e sono sorte varie discussioni sul principio. Difatti diviene rilevante stabilire se il principio si applica, secondo l’opinione del Rambam, anche ai re d’Israele, e se il diritto del re deriva dal possesso della terra, o se piuttosto non si applica ai re di Israele, perché non possiede la terra (Ran), o perché, tranne alcune eccezioni, deve attenersi in tutto e per tutto a quanto stabilito dalla Toràh (Nimuqè Yosef a Nedarim 28a). Secondo alcuni, anche il Rambam e lo Shulchan ‘Arukh, che applicano il principio anche per i re d’Israele, si riferiscono solamente al caso in cui questi giudicano secondo le norme della Toràh. Vi è poi un’altra questione: lo status di re è attribuibile anche ai governi democratici? Rav Kuk (Shut Mishpat Kohen 144) sostiene che nel momento in cui non vi è un re, i suoi diritti vengono trasferiti alla collettività nel suo complesso. Alcuni si appoggiano sull’opinione del Chatam Sofer, secondo cui le norme che sono stabilite per volontà e vantaggio del popolo hanno la validità delle norme del re. R. Eli’ezer Waldenberg sostiene anzi che le norme emanate in democrazia, visto che i governanti sono stati nominati dal popolo, abbiano persino maggiore forza dei decreti del re. Due Rabbini capi d’Israele, Ben Zion Uziel e Ytzchaq Herzog, pur essendo sionisti, e per riconoscendo a pieno le leggi dello stato d’Israele, basano la validità di tali leggi su altri fondamenti giuridici, diversi dal dina demalkuta. I rabbini contemporanei esprimono varie opinioni sulle norme in vigore nello stato d’Israele: R. Ovadiàh Yosef le considera come pienamente valide; R. Eliashiv lo considera un dubbio halakhico, e lega la cosa alla volontà della collettività; il Chazon Ish ritiene che non si debba applicare il principio nello stato d’Israele. Anche quest’ultimo tuttavia, pur avendo un approccio maggiormente critico alla questione, sostiene che sia obbligatorio pagare le tasse, perché in cambio si usufruisce di servizi, e che più in generale ci si debba attenere alle norme dello stato, perché in loro assenza, non sarebbe possibile organizzare il vivere civile, ed i tribunali ebraici avrebbero fissato delle norme, nella maggior parte dei casi più stringenti di quelle stabilite. Nello stato di Israele in ogni caso gli ambiti che riguardano lo status giuridico personale degli individui (primi fra tutti matrimonio e divorzio), nei quali il principio non si applica, sono prerogativa del rabbinato.
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[1]
שֹׁפְטִ֣ים וְשֹֽׁטְרִ֗ים תִּֽתֶּן־לְךָ֙ בְּכָל־שְׁעָרֶ֔יךָ אֲשֶׁ֨ר ה֧’ אֱלֹהֶ֛יךָ נֹתֵ֥ן לְךָ֖ לִשְׁבָטֶ֑יךָ וְשָׁפְט֥וּ אֶת־הָעָ֖ם מִשְׁפַּט־צֶֽדֶק:
[2]
אמר שמואל: דינא דמלכותא דינא.
[3]
אמר רב יהודה אמר שמואל: כל האמור בפרשת מלך – מלך מותר בו. רב אמר: לא נאמרה פרשה זו אלא לאיים עליהם, שנאמר שום תשים עליך מלך – שתהא אימתו עליך.
[4]
רבי חנינא סגן הכהנים אומר הוי מתפלל בשלומה של מלכות שאלמלא מוראה איש את רעהו חיים בלעו
[5]
דבר אחר: מה דגים שבים – כל הגדול מחבירו בולע את חבירו, אף בני אדם – אלמלא מוראה של מלכות, כל הגדול מחבירו בולע את חבירו.
[6]
וְדִרְשׁ֞וּ אֶת־שְׁל֣וֹם הָעִ֗יר אֲשֶׁ֨ר הִגְלֵ֤יתִי אֶתְכֶם֙ שָׁ֔מָּה וְהִתְפַּֽלְל֥וּ בַעֲדָ֖הּ אֶל־ה֑’ כִּ֣י בִשְׁלוֹמָ֔הּ יִהְיֶ֥ה לָכֶ֖ם שָׁלֽוֹם:
[7]
כל סנהדרין או מלך או ראש גולה שהעמידו להן לישראל דיין שאינו הגון ואינו חכם בחכמת התורה וראוי להיות דיין, אף על פי שהוא כולו מחמדים ויש בו טובות אחרות הרי זה שהעמידו עובר בלא תעשה, שנאמר לא תכירו פנים במשפט, מפי השמועה למדו שזה מדבר כנגד הממונה להושיב דיינין, אמרו חכמים שמא תאמר איש פלוני נאה אושיבנו דיין, איש פלוני גבור אושיבנו דיין, איש פלוני קרובי אושיבנו דיין, איש פלוני יודע בכל לשון אושיבנו דיין, נמצא מזכה את החייב ומחייב את הזכאי לא מפני שהוא רשע אלא מפני שאינו יודע, לכך נאמר לא תכירו פנים במשפט, ועוד אמרו כל המעמיד לישראל דיין שאינו הגון כאילו הקים מצבה שנאמר ולא תקים לך מצבה אשר שנא ה’ אלהיך, ובמקום תלמידי חכמים כאילו נטע אשירה שנאמר לא תטע לך אשירה כל עץ אצל מזבח ה’ אלהיך, וכן אמרו חכמים לא תעשון אתי אלהי כסף אלוה הבא בשביל כסף וזהב זה הדיין שמינוהו מפני עשרו בלבד.
[8]
במה דברים אמורים שהמוכס כליסטיס בזמן שהמוכס גוי או מוכס העומד מאליו או מוכס העומד מחמת המלך ואין לו קצבה אלא לוקח מה ו שירצה ומניח מה שירצה, אבל מכס שפסקו המלך ואמר שילקח שליש או רביע או דבר קצוב והעמיד מוכס ישראל לגבות חלק זה למלך ונודע שאדם זה נאמן ואינו מוסיף כלום על מה שגזר המלך אינו בחזקת גזלן לפי שדין המלך דין הוא, ולא עוד אלא שהוא עובר המבריח ממכס זה מפני שהוא גוזל מנת המלך, בין שהיה המלך גוי בין שהיה מלך ישראל.
[9]
במה דברים אמורים במלך שמטבעו יוצא באותן הארצות שהרי הסכימו עליו בני אותה הארץ וסמכה דעתן שהוא אדוניהם והם לו עבדים אבל אם אין מטבעו יוצא הרי הוא כגזלן בעל זרוע וכמו חבורת ליסטים המזויינין שאין דיניהן דין וכן מלך זה וכל עבדיו כגזלן לכל דבר.
[10]
אבל מלך שכרת אילנות של בעלי בתים ועשה מהם גשר, מותר לעבור עליו, אפילו שצוה המלך לעבדיו לכרות מכל אחד ואחד דבר ידוע, והלכו הם וכרתו הכל מאחד, מותר. ח] וכן אם הרס בתים ועשה דרך או חומה, מותר ליהנות בה, וכן כל כיוצא בזה, שדין המלך דין; ט] והוא שיהא מטבעו יוצא באותם הארצות, שהרי הסכימו עליו בני אותה הארץ וסמכה דעתם שהוא אדוניהם והם לו עבדים, שאם לא כן הרי הוא כגזלן בעל זרוע.
[11]
…ונראה דמה שכתב רש”י דעל הדינים נצטוו בני נח הוא חד טעמא עם דינא דמלכותא דינא והיינו דכיון דבני נח נצטוו על הדינים וממילא יכול המלך לעשות תקנות מועילות לתיקון המדינה כמו לחייב יושבי המדינה במס לתיקון המדינה, ומה דאמרינן בגיטין דמהני דינא דמלכותא לענין קנינים זהו משום דדיני קנינים תלויים במנהג ולא דוקא קנינים שמצינו בתורה קונים אלא כל קנין שנהגו בו ישראל קונים …