Si racconta che quando il Magghid di Mezeritc si recò in visita dal Rebbe di Kotzk, questi gli domandò notizie del suo Maestro, R. Shlomoh Leib da Lenczica. “Gli voglio molto bene –soggiunse il Rebbe di Kotzk- ma non capisco perché ogni giorno egli si rivolga a D. gridando che mandi il Mashiach, invece di strillare ai nostri fratelli, figli d’Israel, che facciano Teshuvah affinché arrivi”!
Il quadro che si profila all’inizio della Parashah odierna è problematico. I figli d’Israel sono inseguiti dagli Egiziani, pentiti di averli liberati dalla schiavitù. Davanti a loro si staglia il Mar Rosso e ai lati il deserto, afferma il Midrash, con i suoi serpenti e i suoi scorpioni. Che fare? Il popolo d’Israele è disorientato. Si formano quattro partiti. Accanto a chi vuole consegnarsi agli Egiziani e tornare schiavi in Egitto c’è invece chi propende per fare loro la guerra. Altri ancora avrebbero preferito gettarsi nel mare e affrontare il rischio dell’annegamento. Un quarto partito, infine, avrebbe preferito rivolgersi a H. in preghiera. E’ ciò che Moshe fece, ma H. gli rispose: “Cosa gridi a me! Parla ai Figli d’Israele e si mettano in marcia” (Shemot 14,15). Rashì così commenta le parole di H.: “Non è il momento di dilungarsi a pregare: Israele si trova in disgrazia”! Domanda: forse la disgrazia non è di per sé motivo necessario e sufficiente proprio per mettersi a pregare?
Una situazione per certi versi paragonabile troviamo molti anni più avanti, allorché Yehoshua’ si accinse per la seconda volta alla conquista di ‘Ai. La prima volta era andata male, a causa di una grave trasgressione che aveva privato il popolo d’Israel dell’aiuto Divino. Il piccolo esercito ebraico di soli tremila uomini che era stato mandato in spedizione invece di rivelarsi sufficiente aveva dovuto battersi in ritirata e c’erano stati dei caduti. Una volta intervenuta la riparazione, peraltro, fu H. stesso, questa volta, a rassicurare Yehoshua’ dicendogli: “non temere e non aver paura” (Yehoshua’ 8,1). Ma subito dopo gli ingiunse di prendere con sé “tutto il popolo atto alle armi”. Ghereshonide commenta: “Il S.B. non ricorre a miracoli non necessari”. Se possiamo basarci sulle nostre umane forze, non sollecitiamo un aiuto dall’Alto!
Nella Mishnah Ta’anit (3,7) si discute a proposito di una grave sciagura, p.es. un assedio o un’inondazione, che occorra di Shabbat. Il Tannà Qammà (primo maestro anonimo) è dell’opinione che sia lecito in questo caso anche pregare e recitare Selichot, cosa che normalmente di Shabbat non si fa. E’ evidente che a fronte di un pericolo di vita egli permette di invocare l’aiuto degli uomini. Ma la preghiera rivolta a H. non è per lui meno essenziale. R. Yossi è di avviso differente: le-‘ezrah we-lo li-tz’aqah. Si può strillare di Shabbat per chiamare in aiuto altri uomini, ma non H. Sia detto per inciso, nel suo approccio pratico alle difficoltà R. Yossi è contrario di principio anche ai digiuni in generale, se non sono comandati. Nella Tosseftà (Ta’anit 22b) è riportata la sua opinione in proposito: “Persino il singolo individuo che si trovi perseguitato o braccato non ha il permesso di affliggersi con digiuni per non indebolirsi. In tal caso finirebbe per ricadere sulla collettività e la collettività non avrebbe per costui alcuna commiserazione”.
Shabbat è giorno di festa. Strillare non è consono ad una atmosfera di gioia. Le emergenze vanno naturalmente affrontate, ma solo per quanto è necessario e sufficiente. R. Yossi ritiene evidentemente che invocare D. non rientri in questo. Il commento Tif’eret Israel dice che mentre l’aiuto umano è sempre utile ed efficace e va sollecitato, “non è detto invece che la preghiera funzioni”. Perché? Immaginiamo il caso di un bimbo che domandi al suo genitore di comprargli un gelato. Il padre non lo accontenta necessariamente. I motivi possono essere differenti. Il padre ha una prospettiva più ampia di quella del figlio, che vede in quel momento solo la propria soddisfazione materiale immediata. Il padre può sapere, per esempio, che a suo figlio il gelato fa male. Oppure lo nega semplicemente perché il figlio non se lo merita. E’ la situazione occorsa ai figli d’Israele al tempo del primo attacco a ‘Ai, risoltosi con una sconfitta. Terza possibilità: il padre nega il gelato al figlio perché non è il momento: si trovano magari prima di cena e accontentarlo gli guasterebbe l’appetito, mentre invece dopo cena non avrebbe alcuna difficoltà a concederglielo.
C’è infine una quarta possibilità. “Se compro il gelato a te, devo darlo anche ai tuoi fratelli, altrimenti commetterei un’ingiustizia”. H. è padre di tutti gli uomini. Deve tener presenti costantemente le esigenze di tutti e non lasciarsi andare, per così dire, a favoritismi gratuiti specie dove la scelta a vantaggio di uno andrebbe a detrimento di altri. “Durante la Guerra del Golfo Persico –si domanda un autore contemporaneo- gli americani pregavano D. per essere aiutati a vincere gli iracheni, mentre gli iracheni contemporaneamente supplicavano Allah di sterminare gli infedeli occidentali. Che cosa deve fare D.? …Non è difficile immaginare che se la preghiera ottenesse una percentuale di successi del 100% questo potrebbe creare un caos inconcepibile in tutto il mondo. Se tutte le preghiere per il recupero delle malattie fossero accolte, quasi nessuno morirebbe, la popolazione del pianeta sarebbe aumentata paurosamente millenni or sono e la terra sarebbe inabitabile… Dove potrei essere ora se D. avesse accolto tutte le preghiere sciocche che ho fatto nella mia vita?”.
Eppure la Halakhah non segue l’opinione di R. Yossi. E’ lecito supplicare D. affinché ci liberi dal pericolo anche di Shabbat. Per Maimonide è lecito persino digiunare. Secondo lo stesso autore contemporaneo già citato, aldilà del suo effetto immediato e concreto “la preghiera dice qualcosa di immensamente importante su ciò che siamo e sul nostro destino. La preghiera è un evento non-locale, cioè non confinato in un particolare luogo dello spazio o in un particolare momento del tempo, si estende aldilà del hic et nunc, agisce a distanza e oltre il presente… Il fatto che siamo in grado di impegnarci in un’attività non-locale come la preghiera ha sbalorditive implicazioni spirituali che ridimensionano le preoccupazioni immediate relative alla preghiera o al tempo in cui essa ci può aiutare nelle difficoltà” (p. 19).
Chi fra i Maestri del Talmud dava grande importanza alla Tefillah è R. Yochanan. “Magari l’individuo potesse trascorrere in preghiera tutto il giorno” (Berakhot 21a), soleva dire. E in un altro passo egli ci ricorda una Halakhah centrale del nostro Siddur: “Chi è degno del Mondo a Venire? Colui che accosta la Gheullah alla Tefillah” (4b). Ancora oggi a Shachrit e ‘Arvit noi stiamo attenti a recitare la ‘Amidah, la nostra preghiera per eccellenza, dopo aver ricordato i miracoli dell’Uscita dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso nel brano precedente, che chiude con la Berakhah Gaal Israel (=”che hai redento Israel”). Lo schiavo, commenta Rav Soloveitchik, vive nel silenzio. Non nel senso che non sia in grado fisicamente di parlare, ma nel senso che non ha alcuna buona notizia da comunicare e dunque la sua parola è destituita di ogni significato. Al pari di un animale, giunge a provare al massimo dolore, non sofferenza. Si tratta di due cose diverse. Il dolore è una reazione fisiologica del corpo provato da un elemento di disturbo. La sofferenza è una esperienza dello spirito che solo l’essere umano è in grado di percepire nel momento in cui viene messa in dubbio la sua coscienza esistenziale. Al dolore si risponde gridando. Il grido dello schiavo oppresso non è un fatto umano, è puramente biologico. Alla sofferenza si risponde invece con la preghiera. La preghiera è connessa non con l’istinto, bensì con l’intelletto. Tefillah significa secondo alcuni “messa in discussione di se stessi”, oppure “giudizio (dalla radice “palal”), critica, distinzione”. Rivolgo a D. solo quelle richieste che ritengo necessarie per la promozione della mia umana dignità (Divrè Hagut we-ha’arakhah, p. 255 ssg.).
Secondo altri Tefillah è invece connesso con tafèl, che significa “secondario, subordinato”. Sulle rive del Mar Rosso H. dice a Moshe: Mah titz’aq elay, “Cosa gridi a me”? Il tuo popolo è ormai uscito dalla schiavitù. Non è più nella condizione di dovere strillare come un animale. E’ giunto il momento che prenda finalmente coscienza di sé. E’ giunto il momento che prenda coscienza del fatto che solo H. ha la forza di liberarlo dalla sua sofferenza. Solo in questo modo ritroverà la sua umana dignità.