R, Menachem ‘Azariàh di Fano (Ramà’, 1548-1620), detto anche ‘Immanuel da Fano, oltre che un grande cabalista, fu anche poseq. Notevole fu il suo contributo per la fissazione della tefillàh di rito italiano. Fu un autore molto prolifico, al quale vengono attribuite una trentina di opere, che per lo più hanno come argomento la qabalàh dell’Arì, che apprese dai libri Moshèh Cordovero, che non conobbe mai di persona, ma che gli fece recapitare una copia del suo libro Pardes Rimonim. Scrisse anche un libro di responsa ed un riassunto del commento del Rif.
Era famoso, oltre che per la sua magnanimità, facilitata dalla disponibilità finanziaria, per la sua modestia. Si cita in particolare la risposta che scrisse ad un Chakham che lo criticò aspramente per una sua operetta sulle haqqafot con il Lulav, Yemin H. romemàh. Nacque a Fano o a Bologna., La sua famiglia era fra le più famose e facoltose di Fano, dove gli ebrei risiedevano a partire dal XIV sec. In gioventù studiò a Venezia presso i mequbalim, divenendo famoso intorno ai trenta anni. Studiò la qabalàh anche presso lo zio, R. Azariàh da Fano di Mantova. Fu anche Mohel, e nel 1571 circoncise quello che sarebbe stato uno dei più grandi avversari della qabalàh, Leon da Modena. Nel 1574 R. Yosef Caro lo incaricò di stampare il suo commento al Mishnèh Toràh, il Kesef Mishnèh. Il Ramà’ fu a capo della Yeshivàh di Reggio, sede di un’importante comunità. Da Reggio si trasferì a Mantova, città di suo suocero, R. Ytzchaq Foà, famoso rabbino a sua volta, dove morì.
Anche a Mantova si dedicò all’insegnamento, e fra i suoi allievi si annovera R. Aharon Berekhiàh di Modena, l’autore del Ma’avar Yaboq, che lo ricorda per aver introdotto a Venezia l’uso di alzarsi al mattino presto per recitare selichot e tachanunim. Nella letteratura rabbinica un discreto spazio è dedicato alla barba del Ramà’, perché se il Ramà’ avesse la barba è oggetto di discussione fra i poseqim, visto che in un ritratto appare senza barba. La questione è trattata anche nelle Teshuvot del Chatam Sofer, che scrive che secondo i mequbalim “la diaspora non è adatta alla santità della crescita della barba”. Anche un allievo di un suo allievo scrive che il Ramà’ si radeva.
Uno dei più famosi responsi del Ramà’ è il quesito 39, indirizzato agli ebrei di Modena, in cui R. Menachem Azariàh si confronta con dei tali, ritenuti dotti e chassidim, che volevano vietare di indossare i tefillin a Minchàh. Gli acharonim effettivamente non hanno fatto grossi sforzi per convincere le persone ad indossarli, ma questa non è una prova, perché la stragrande maggioranza delle persone è pigra, e già sarebbe tanto se non facesse falsa testimonianza,recitando quindi lo shemà della mattina con i tefillin; figuriamoci quindi se avessero chiesto di indossarli a minchàh… Pertanto all’epoca l’indossarli a minchàh era ritenuto un comportamento da perushim. Ma i motivi riportati non sono sostenibili, perché se non si riesce ad avere la dovuta concentrazione per portarli, allora non si dovrebbe neanche pregare minchàh, perché la tefillàh richiede molta più pulizia del corpo, purità del posto e limpidezza di cuore dei tefillin. Infatti nella sala intermedia delle terme è vietato pregare, mentre si possono tenere i tefillin in testa. La birkat kohanim, che si recita a shachrit, ma non a minchàh per via dell’ubriachezza, non costituisce una prova: difatti questa ha regole più rigorose della tefillàh, che tuttavia è vietata dopo avere bevuto un revi’it di vino, mentre i tefillin, che non si tengono mentre si mangia, vengono rimessi per recitare la birkat ha-mazon, che è seguita da un bicchiere di vino. E’ permesso inoltre lavorare con i tefillin: è sufficiente non rivolgere il proprio cuore a cose vane. Anche chi lavora tutto il giorno deve indossarli, perché sono esentati coloro che si occupano di una mitzwàh, ma non chi si occupa dei propri affari.
La tefillàh invece richiede assoluta concentrazione, e ci si deve preparare adeguatamente prima di pregare. Un’ulteriore prova che viene portata è che non si indossano a minchàh perché ci sono alcuni che anticipano la tefillàh di ‘arvit sino al plag ha-minchàh, un’ora ed un quarto prima del tramonto, ma costoro non sanno che anche il tempo della tefillàh di ‘arvit è adatto per indossare i tefillin, sino a che la gente non è ritornata dal mercato, ma non oltre (o almeno non si insegna così). Le parole del Rambam, che scrive che la mitzwàh dei tefillin si pratica di giorno, e non di notte, devono essere molto approfondite, e non ci si deve fermare alla prima impressione. Anche il limite delle cento benedizioni al giorno, che si completerebbero comunque anche non indossando i tefillin a minchàh non costituisce un motivo per non indossarli: infatti i perushim le superano abbondantemente, e lo spirito dell’insegnamento dei maestri è di non recitarne meno di cento. Chi digiuna, pur non essendo un talmid chakham, e indossa i tefillin a minchàh, come ancora oggi facciamo, mostra di voler seguire la strada dei buoni. Pertanto, conclude il Ramà’, anche se venisse da voi Yehoshua’ in persona e vi dicesse di non indossarli, basandosi sul solo ragionamento, non dategli retta, e chi impedisce di fare una mitzwàh e cerca degli appigli per ritenersi esente da essa, certamente dovrà espiare per questo.
Per la halakhàh lo Shulchan ‘Arukh (Orakh Chayim, 37,2) scrive che è mitzwàh indossare i tefillin tutto il giorno, ma poiché per indossarli è necessario avere il corpo pulito e serve non distogliere il pensiero, e non tutti sono in grado di fare questa cosa, si usa non portarli tutto il giorno, ma si faccia attenzione quantomeno ad averli indosso quando si recitano lo shemà’ e la ‘amidàh la mattina. L’insegnamento del Ramà tuttavia è rilevante per coloro che non indossano i tefillin la mattina di tish’à beav, perché esiste un legame fra i tefillin e la ‘amidàh, e pertanto è opportuno indossarli il pomeriggio quando si recita la tefillàh di minchàh.