Con la parashàh di questa settimana inizia l’esperienza di Israele come popolo. Nel libro di Bereshit i protagonisti erano degli individui, in Shemot ci troviamo di fronte ad una nazione, i Benè Israel, i figli di Israele, che compaiono già nel primo verso del libro. Ma, quando viene narrata la storia delle levatrici scompare il termine Israel, per lasciare spazio a quello di ‘ivriot. Il termine ‘Ivrì, che, nel libro di Bereshit, viene utilizzato sette volte per Avraham e Yosef, ritorna nei primi capitoli di Shemot per ben otto volte, quando il nome Israele costituisce come abbiamo detto, un’alternativa concreta.
I figli d’Israele nel corso delle generazioni avevano avuto un incredibile incremento demografico, tanto che “riempirono l’Egitto”, ma rischiavano di fraintendere il loro compito, perdendo la fede, il coraggio e la dedizione che dovevano caratterizzare la nazione ebraica. Per contrastare questo pericoloso fenomeno sorgono, nei momenti in cui la pressione rischia di divenire insostenibile, personaggi come le levatrici, la cui condotta può sembrare testarda o irrazionale, ma costituiscono un elemento fondamentale nel popolo ebraico. Queste qualità erano quelle che caratterizzavano in precedenza Avraham, pronto ad intraprendere una guerra senza speranza per salvare Lot, nonostante questo avesse scelto un destino diverso. Per questioni di principio Avraham è disposto ad opporsi al mondo intero, mettendo in pericolo la sua missione, che doveva avere una portata universale. Anche Yosef, che in Egitto riesce ad affermarsi in un ambiente a lui fortemente ostile, senza rinunciare alla sua specificità, viene chiamato ‘Ivrì.
Secondo Ramban (Bereshit 40,15) questo termine connota la riluttanza a conformarsi ed assimilarsi ed una caratteristica eterna del popolo ebraico. Le levatrici hanno ricevuto questa eredità, manifestandola attraverso un grande timore del cielo, elemento che compare spesso in relazione all’essere ‘Ivrì. Questo termine sarà utilizzato spesso anche nei primi anni di vita di Moshèh. La figlia del Faraone, quando lo trova, lo identifica come un bambino degli ‘ivrim. I commentatori si chiedono come sia stata in grado di determinare le sue origini, in particolare se, come molti sostengono, il decreto del Faraone era stato esteso a tutti i bambini nati in Egitto. Ma l’espressione usata dalla figlia del Faraone potrebbe essere degna di nota anche se il decreto avesse toccato i soli bambini ebrei, perché sottolineerebbe una specificità degli ‘ivrim: la tevàh di Moshèh, la cesta nella quale fu gettato nel Nilo, è molto differente dalla tevàh di Noach, non è destinata alla sola sopravvivenza, ma mostra una cura eccezionale, vista la situazione drammatica, da parte della madre di Moshèh. Quando Moshèh crebbe si trovò di fronte ad altri ‘Ivrim, prima l’ebreo vittima dell’egiziano, che fu ucciso da Moshèh, e poi due ‘ivrim che litigavano. Qui Moshèh comprese che l’essere ivrì è una caratteristica che può rimanere latente, e portarla alla luce era proprio la sfida che lo attendeva da leader.
Il termine Israele diverrà dominante per denominare il popolo ebraico nella storia, ma in queste fasi iniziali, mentre il popolo costituisce le sue strutture fondamentali, il legame con Avraham, che si manifesta tramite le levatrici e Moshèh, è assolutamente indispensabile. R. Chayim di Volozin spiega che tutte le prove che Avraham ha sostenuto hanno lo scopo di spianare la strada per i suoi discendenti, che avrebbero incontrato difficoltà della stessa specie, e quella di trovarsi da soli di fronte al resto del mondo, sia ebraico che non, è una delle prove più difficili. Essere soli non è necessariamente un fatto negativo: quando Ya’aqov si trovò a combattere con il genio di Esav la Toràh ci dice che Ya’aqov rimase solo, ma l’essere solo è anche una delle caratteristiche di H., e rappresenta l’assenza di necessità di aiuto dall’esterno. Nella nostra parashàh H. definisce Israele “il mio figlio primogenito”. Il primogenito ha la particolarità di essere uno, ed il Maharal di Praga in Netzach Israel scrive che ogni ebreo dovrebbe sentirsi in questa condizione.
Caro Daniel, che oggi entri nel mondo delle mitzwot, il mio augurio è che tu possa dimostrarti nella tua vita un ‘ivrì, che possa mantenere la tua indipendenza di pensiero, in un mondo in cui, nonostante le infinità di informazioni alle quali possiamo accedere, l’omologazione intellettuale costituisce un serio e concreto pericolo, e che possa mettere questa caratteristica a disposizione del resto del popolo d’Israele, di modo tale da essere fonte di orgoglio per i tuoi familiari e per quelli che ti circondano.