Antigono di Sokho soleva affermare: “Non siate come quei servi che assistono il Padrone allo scopo di ricevere una ricompensa; siate bensì come quei servi che assistono il Padrone senza lo scopo di ricevere una ricompensa” (Avòt 1,3). Maimonide commenta che apprezzare il proprio dovere fine a se stesso non è da tutti: rivela un atteggiamento molto maturo. La massa ha invece bisogno di contentini. Essa si comporta –scrive- come i bambini che vengono attratti a eseguire i compiti solo dall’aspettativa di un dono che può essere anche modesto, purché sia tangibile: ciò spiega fra l’altro perché la Torah stessa contenga promesse per coloro che osserveranno le Mitzwòt e perché queste promesse siano essenzialmente materiali.
Man mano che l’individuo cresce, matura progressivamente in lui anche l’idea di ricompensa, fino a spiritualizzarsi (l’argomento è ulteriormente sviluppato nella sua introduzione al Pereq Cheleq). Benché l’ideale resta un altro, come si ribadisce nella Mishnah, siamo chiamati a crescere, o almeno cercare di crescere. Nell’insegnamento dei nostri Maestri “la vera ricompensa non è di questo mondo” (Qiddushin 39b). H. ha così voluto risparmiarci una preoccupazione che già in questa vita costituirebbe castigo! La prospettiva serve a spiegare il grande problema della Teodicea: perché il giusto spesso soffre, mentre il malvagio prospera. Postulando l’esistenza di un’epoca futura oltre alla vita presente si concede spazio alla rettificazione dei destini di ciascuno in base ai propri meriti reali.
Tre sono le fasi future di cui si parla nelle nostre fonti: Techiyat ha-Metim (“risurrezione dei morti”), Yemot ha-Mashìach (“epoca messanica”) e ‘Olam ha-bbà (“mondo a venire”), in cui “non si mangia, né si beve, bensì i giusti con le loro corone in testa siedono a contemplare lo splendore della Shekhinah” (Berakhot 17a). I commentatori della Mishnah discutono sul rapporto reciproco fra queste fasi. Per R. ‘Ovadyah da Bertinoro le tre fasi sostanzialmente coincidono. Maimonide sostiene invece che il ‘Olam ha-bbà sia un mondo di sole anime e costituisca la fase finale. La risurrezione riguarda solo l’età messianica, che non si differenzierà da questo mondo altro che per essere un’epoca di pace universale e di indipendenza nazionale, in cui non saremo più assoggettati agli altri popoli. Per il resto ci serviremo del nostro corpo risorto per servire meglio H. Ma poi anche il corpo risorto tornerà a morire (motana tinyana: Targum a Devarim 33,6 e a.) e inizierà il ‘Olam ha-bbà, un mondo di sole anime che vivranno finalmente sganciate dal corpo per l’eternità. Le tre fasi costituiscono il tema delle ultime strofe dell’Igdal, ma sono qui disposte in ordine inverso: il ‘Olam ha-bbà per primo, li yemot ha-mashiach per secondi e infine la techiyat ha-metim. Spiega un commentatore moderno: “perché la risurrezione ha senso solo in un mondo redento, affinché coloro che l’avranno meritata possano vedere con i loro occhi ciò in cui hanno creduto nell’ardore della loro fede”.
“Il trionfo dell’Islam nell’Oriente, nell’Africa settentrionale e nella Spagna meridionale ebbe molteplici e profondi effetti sullo sviluppo delle lettere ebraiche. Gli Ebrei si aprivano volentieri alla rigogliosa e splendente civiltà musulmana dovunque arrivasse perché non sembrava in contrasto, come il paganesimo da un lato e il cristianesimo dall’altro, con l’essenza della loro religione. Penetravano così nel mondo ebraico… pure le forme e i temi della poesia araba” (S. Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, Carucci, I, p. 383 sgg.). Rispetto ai temi, compare forse per la prima volta una poesia profana accanto a quella strettamente religiosa: si canta l’amore e l’amicizia, le bellezze della natura, i piaceri del vino e della buona tavola. Sul piano linguistico, la concorrenza dell’arabo spinge i nostri poeti a tornare all’ebraico classico del Tanakh come modello per le loro composizioni. Infine, la nuova poetica obbedisce a precise regole di metrica, rima e costruzione delle strofe. Il primo a introdurle in ambito ebraico fu Dunash Ibn Labrat, vissuto a Baghdad e poi a Cordova in Spagna fra il 920 e il 990.
La lingua araba riconosce un valore quantitativo delle vocali che si è praticamente perduto in ebraico, che distingue fra vocali lunghe e vocali brevi solo in teoria. Dunash traspose in ebraico il metro quantitativo della poesia araba introducendo a sua volta una distinzione fra sillabe semplici (tenu’ah) e sillabe composte (yatèd). Le prime sono caratterizzate da una sola vocale, lunga o breve, mentre le seconde sono il risultato della combinazione di una sillaba semplice con un’altra sillaba vocalizzata con shewà (brevissima) che la precede. Nasce così lo schema yatèd u-shtè tenu’ot, di cui è attestazione l’inno Deròr Yiqrà. Qui ogni verso è composto da una serie di dattili formati ciascuno da una sillaba composta (yatèd) che segna il ritmo, seguita da due sillabe semplici (shtè tenu’ot) e quindi più corte. Un altro Piyut che presenta la medesima metrica è Adon ‘Olam.
Adon ‘Olam fa parte del genere poetico filosofico, che si propone di riportare in “molli versi” il razionalismo applicato all’interpretazione della religione: altra reazione agli stimoli culturali provenienti dal confronto con l’Islam. Sull’identificazione del suo autore ci sono ipotesi differenti. C’è chi lo attribuisce a Sherirà Gaon e chi invece a R. Shelomoh Ibn Gabirol, poeta e pensatore ispirato al neo-platonismo, vissuto in Spagna fra il 1020 e il 1057. E’ autore del poema Keter Malkhut (“Corona regale”), in cui illustra uno per uno gli attributi di D. e le sfere celesti, cui contrappone la piccolezza dell’uomo per incitare quest’ultimo al pentimento. L’edizione standard comprende dieci versetti, tutti rimanti in –ra. I primi sei contengono a loro volta enunciati sugli attributi della Divinità.
L’ultimo si riferisce al versetto in cui si allude all’affidamento della nostra anima a H. durante il sonno (Tehillim 31,6). Ciò ha agevolato la sua collocazione nel Siddur al termine di ‘Arvit (nei giorni festivi), dopo la recitazione dello Shemà’ a letto (nel rito askenazita) e all’inizio di Shachrit, prima della Berakhah in cui ringraziamo H. ogni mattina per averci restituito l’anima nella sua purezza. Una versione allungata, che arriva a comprendere sedici versetti, troviamo nel rito sefardita. In questa versione l’inno si conclude con un anelito alla ricostruzione del Bet ha-Miqdash e alla venuta del Mashiach, sollevando il tono dell’inno dalla prospettiva individuale a quella della collettività d’Israele. Dal momento che l’osservanza dello Shabbat è il modo con cui il popolo d’Israele testimonia il fatto che D. ha creato il mondo, è opportuno che particolarmente il venerdì sera si lasci il Bet ha-Kenesset dopo la Tefillah portando con noi il messaggio della sovranità universale e dell’eternità di H. che questo inno esprime con così grande semplicità.