Paola Diena
È facile supporre che al tempo della sua massima diffusione la parlata fosse alquanto più ricca e rigogliosa e servisse da strumento comunicativo a tutta la popolazione dei ghetti, indistintamente. A quei tempi, per quanto in Piemonte le condizioni della popolazione ebraica fossero meno rigide che altrove e la segregazione non fosse così totale, vita familiare, religiosa, rapporti sociali, attività, tutto si svolgeva entro lo spazio chiuso del ghetto, e l’uso di un codice particolare costituiva veramente una necessità costante, quotidiana che, oltre a ricoprire una funzione dissimulativa, rappresentava anche, pur se con scarsa coscienza di questo, un tipo di risposta alle forze disgregatrici del mondo esterno, in quanto difesa e conservazione della propria alterità culturale.
Con l’aprirsi dei cancelli dei ghetti la vita di questi nuclei ebraici incominciò a proiettarsi all’ esterno, in una tensione sempre crescente verso il raggiungimento di una completa integrazione nella società circostante; questo molto spesso significò perdita, spoliazione di qualunque segno dell’identità ebraica, in quanto richiamo ad un passato stato di inferiorità. E in questo graduale processo di disebraicizzazione ovviamente cadevano le premesse per una lunga sopravvivenza di questi usi linguistici, ormai divenuti soltanto un ostacolo alla fluidità dei rapporti sociali e culturali con la società dei gentili.
L’unica raccolta sistematica di “voci, detti e motti proverbiali giudaico-piemontesi” che finora sia stata fatta, a parte un breve elenco del Virgilio, è il glossario contenuto nel saggio di Bachi, risalente al 1929. Già prima della compilazione di questo glossario il Bachi si era espresso molto a favore circa l’iniziativa di svolgere con intento sistematico ricerche sui vari linguaggi ancora usati dagli ebrei italiani nella seconda metà dell’800. Il glossario ha un primo e indiscutibile valore come testimonianza della vita e dei costumi di alcune famiglie ebraiche torinesi alla fine del XIX secolo attraverso l’esempio di alcune loro espressioni di uso quotidiano e domestico; inoltre sono contenute nel saggio osservazioni di carattere, si potrebbe dire, sociolinguistico, purtroppo mai in seguito sviluppate, utili ad un inquadramento del problema partendo dalle caratteristiche socio-culturali della comunità linguistica.
Bachi confronta il suo glossario con un elenco di termini in giudaico-romanesco raccolti da Zanazzo e fa entrare in gioco come variabile di differenziazione tra i due codici “il diverso tipo sociale della popolazione ebraica romana e torinese considerata”. Dice il Bachi che “il vocabolario romano sembra corrispondere in buona parte al tipo del gergo convenzionale di un gruppo con fine protettivo, carattere questo che non mi sembra rinvenirsi nel “parlare” torinese, il quale segna semplicemente il perdurare (soprattutto in aspetti intimi, religiosi o faceti) di generali tradizioni di vita anteriormente assai più estese”.
Di parere diverso sembra Primo Levi quando afferma che anche ad un esame sommario non si può non denunciare nella parlata giudeo-piemontese “la funzione dissimulativa e sotterranea di linguaggio furbesco destinato ad essere impiegato parlando dei gôjim in presenza dei gôjim; o anche, per rispondere arditamente, con ingiurie e maledizioni da non comprendersi, al regime di oppressione e clausura da essi instaurato”.
A nostro parere, in base all’osservazione del materiale raccolto, è limitativo intravedere nell’uso di queste espressioni solamente un intento criptico, un fine esclusivamente offensivo-difensivo, protettivo; come anche ci pare un po’ generico non ammettere l’esistenza di questo aspetto e attribuire alla par- lata semplicemente la funzione di mantenere certe abitudini linguistiche, legate a particolari consuetudini di vita. È comunque innegabile l’ aspetto gergale, di codice segreto, convenzionale, utile alla difesa dal mondo esterno; anzi questo ne è il tratto indubbiamente più appariscente e macroscopico. Però c’è una lunga serie di espressioni, per lo più usate in famiglia o comunque tra soli ebrei, senza la presenza di estranei, dalle quali si deduce la funzione tipicamente espressiva assunta dalla parlata in certe situazioni comunicative; situazioni in cui, non necessitati dal ricorso ad un codice segreto incomprensibile ad altri, i parlanti scelgono lo stesso di usare il giudeo-piemontese, perché ricco di maggiore tensione espressiva, emotiva, di una più forte carica di ironia, di allusività.
Da Paola Diena, Il giudeo – piemontese: tracce attuali e testimonianze sociolinguistiche, tesi discussa nel 1980 Relatore Prof. Corrado Grassi