Questa sera ci occuperemo della parte centrale dell’Ygdal, quindi della profezia e della Torah. Entrambi i temi all’epoca del Rambam erano estremamente dibattuti negli ambienti filosofici, e vi sono molte opinioni sull’argomento. Ci limiteremo ad affrontare alcuni punti che Rambam solleva nell’introduzione al decimo capitolo del trattato di Sanhedrin (Pereq ha-cheleq), nella quale Rambam illustra i 13 principi. Il sesto ed il settimo principio riguardano la nevuàh (profezia): all’interno del genere umano ci sono degli individui con caratteristiche speciali, più sviluppate rispetto agli altri individui, che riescono a far evolvere il proprio intelletto sino ad unirsi con l’intelletto agente, che nel sistema filosofico aristotelico, che funge da modello per Rambam, è uno degli aspetti maggiormente commentati e sviluppati nella filosofia medievale.
Secondo l’opinione prevalente, che è quella di Alessandro di Afrodisia, in opposizione a quella di Temistio, l’intelletto agente è un’entità trascendente rispetto all’intelletto passivo, ma a differenza di quanto sostiene Alessandro di Afrodisia, nella tradizione araba, con la quale Rambam si confronterà ampiamente, l’intelletto agente è una delle intelligenze celesti che non si identifica con D. Rambam in questa sede non entra nei particolari, trattandosi di un discorso molto lungo e complesso, ma l’unione con l’intelletto agente porta il profeta a ricevere per emanazione un flusso, che è la profezia. Fra tutti coloro che sono stati e saranno in grado di compiere tale operazione, ve n’è uno, Moshèh, che si differenzia dagli altri, e questo è il settimo principio: tutti i profeti gli sono inferiori per grado, e le sue acquisizioni intellettuali sovrastano quelle di qualsiasi altro essere umano, tanto da raggiungere il livello delle intelligenze angeliche, non lasciando alcun ostacolo fra sé e la divinità. Nella visione di Rambam Moshèh è puro intelletto, non vi è alcuno spazio per l’immaginazione o i sensi, e per questo, a differenza degli altri profeti, Moshèh può parlare con H. senza l’intermediazione degli angeli, tanto che la Toràh ci dice che H. parlava con lui de visu.
Tuttavia si tratta di un tema molto esteso, e Rambam rimanda a tre differenti opere che aveva iniziato a scrivere, e che in base al materiale in nostro possesso, confluiscono nel Morèh Nevukhim (Guida dei perplessi), la principale opera filosofica di Maimonide: a) un’opera di spiegazione delle derashot dei chakhamim; b) un libro sulla profezia, che Maimonide dice di avere iniziato a scrivere; c) un libro sui 13 principi. Moshèh si differenzia da tutti gli altri profeti per quattro aspetti: a) il primo è, come abbiamo detto, l’assenza di intermediari nella comunicazione con H.; b) gli altri profeti profetizzano solamente nel sonno durante la notte, e, se di giorno, sono storditi come se dormissero, e questo nella tradizione si chiama marèh o chazon (visione); Moshèh invece riceveva la profezia in pieno giorno, e la Presenza divina si posava in mezzo ai Cherubini nel Mishkan; c) gli altri profeti, sebbene in stato di incoscienza, vengono colti da un senso di debolezza e di spavento come se stessero per morire, cosa che invece non si verificava per Moshèh, che parlava con H. come se stesse parlando con una persona qualsiasi, tanto era forte il suo legame con l’intelletto agente; d) l’ultima differenza è che tutti i profeti non profetizzavano se non per volontà di H., e potevano rimanere anni senza profetizzare, sebbene ne avessero bisogno per rispondere a questioni urgenti, e per questo si preparavano a ricevere la profezia, ma nonostante i loro sforzi non sempre riuscivano nell’intento; Moshèh invece poteva ricevere la profezia in base alle proprie esigenze.
Vediamo ora brevemente i due principi successivi, l’ottavo ed il nono, che hanno come tema la Toràh, che viene dal cielo ed è eterna. Moshèh Rabbenu ha ricevuto la Toràh direttamente da H., e la Toràh che abbiamo oggi è esattamente quella che gli è stata data. Nella Toràh non c’è alcun verso o insegnamento che abbia maggiore dignità di un altro, ed il verso che dice che i figli di Cham erano Kush, Mitzraim, Put e Kena’an vale quanto Shemà’ Israel. E Menashèh è considerato un eretico proprio per avere sostenuto che nella Toràh vi sono delle gerarchie, ed alcune cose, in particolare le parti narrative della Toràh, sono state dette da Moshèh e non da H. Dire questo vuol dire sostenere che la Toràh non viene dal cielo, anche se ciò riguardasse solamente un verso o una lettera della Toràh, e noi non dobbiamo fare altro che pregare H. di svelarci i segreti della Toràh, ove non riusciamo a scoprirli, e comprendere il senso di ciascuna singola lettera. Lo stesso vale per la spiegazione tradizionale di molte mitzwot, ad esempio la forma della sukkàh, del lulav, dello Shofar, dello Tzitzit, dei tefillin, che corrispondono a quanto Moshèh ha ricevuto da H.Il nono principio è che questa Toràh non verrà annullata, e non ve ne sarà un’altra, né le verrà tolto o aggiunto qualcosa, né nel testo, né nella spiegazione, come è spiegato nella mitzwàh “Bal tosif” (non aggiungere).