Una delle caratteristiche fondamentali della sepoltura ebraica è quella della separatezza. I cimiteri ebraici sono praticamente da sempre separati da quelli non ebraici. Vediamo chiaramente questo aspetto nella prima parte della nostra parashàh, quando Avraham avinu intende seppellire sua moglie Saràh, e a questo scopo acquista la grotta di Machpelàh, dove, secondo il Midrash, già erano sepolti Adam e Chawwàh, fornendo un modello per tutte le generazioni successive. Sino ad allora erano morti in molti – ci troviamo già oltre duemila anni dopo la creazione del mondo – ma solo ora, per la prima volta, la Toràh si confronta con il tema della sepoltura.
La trattativa fra Avraham ed i benè Chet impegnerà numerosi versi della parashàh, quando la Toràh avrebbe semplicemente potuto scrivere che Avraham ha acquistato la grotta di Makhpelàh dai benè Chet. Avraham non può permettere che Saràh venga sepolta con gli altri benè Chet. Come nella dimensione spirituale vi è distinzione fra l’anima degli tzadiqim e quella dei malvagi, così avviene nel mondo materiale, e per questo si ricerca la separatezza. Secondo molti questa è l’ultima delle dieci prove che Avraham deve affrontare. Ma perché questa particolare attenzione? Spesso nella pratica delle mitzwoth facciamo uso di determinati oggetti, che appartengono a due distinte categorie, i tashmishè qedushàh e i tashmishè mitzwàh. Alla prima categoria appartengono il Sefer Toràh, la mezuzàh, i tefillin, mentre alla seconda ad esempio il lulav, lo shofar, un tallit. Nella pratica la differenza fra queste due categorie viene alla luce quando si decide di disfarsene: un Sefer Toràh non può essere gettato, ma deve essere sepolto in modo dignitoso. Gli oggetti dell’altra categoria quando sono in uso hanno uno status particolare e temporaneo, che perdono quando si decide di disfarsene. Come hanno fatto i Maestri a decidere quali oggetti comprendere in una certa categoria? Chayim di Volozin nel Nefesh ha-Chayim spiega che la fonte di ogni santità permanente è la Toràh: i tashmishè qedushàh contengono dei brani della Toràh, ed anche il Bait (involucro) dei tefillin della testa, che ha solamente una lettera Shin su di esso rientra in tale categoria.
Lo shofar o lo tzitzit non hanno parole di Toràh al loro interno, e quindi rientrano nell’altra categoria. Finché un essere umano è in vita avremmo sufficienti motivi per rispettarlo, praticando le mitzwot, quantomeno perché è fatto ad immagine divina, ma dopo la morte, quando questo elemento ha abbandonato il corpo ed il defunto non può più fare mizwot non ci sarebbe motivo di rispettarlo. In un famoso insegnamento il Ramban in Torat adam paragona l’anima umana alle lettere della Toràh ed il corpo alla pergamena, e questo ci spiega perché siamo obbligati alla sepoltura, e non possiamo tenere in considerazione altri sistemi. Il corpo di un ebreo ha le stesse regole proprie dei tashmishè qedushàh, e dopo la morte non può essere lasciato a se stesso. Anche coloro che non hanno mai imparato una parola della Toràh o non hanno mai fatto mitzwot in vita, hanno tuttavia appreso, in base alla tradizione talmudica, la Toràh prima di nascere, e pertanto hanno acquisito questo status.
La preoccupazione di Avraham avinu vuole caratterizzare in maniera unica, oltre che la nostra vita, la nostra morte. E’ interessante che i chakhamim all’inizio del trattato di Qiddushin apprendano dalla trattativa con ‘Efron per l’acquisto della grotta di Makhpelàh varie regole fondamentali per i qiddushin, e che quindi questo atto influenzi non solamente il nostro rapporto con l’aldilà, ma ancora sino ad oggi la formazione di qualsiasi famiglia ebraica.
L’atto della sepoltura non è solamente il modo per disfarsi del corpo del defunto, ma anche l’avviamento di un processo di espiazione, che deve iniziare prima possibile: troviamo infatti due halakhot notevoli, che ci mostrano quanto sia importante tale aspetto. Anzitutto subito dopo il decesso, i parenti stretti entrano nello stato di aninut, che si protrae sino al funerale. Durante tale periodo i parenti sono esentati dai precetti affermativi della Toràh, proprio per consentire loro di occuparsi della sepoltura. Inoltre i Maestri hanno consentito di effettuare una sepoltura in giorno festivo tramite non ebrei il primo giorno di Yom Tov, ed in diaspora nel secondo giorno persino per mezzo di ebrei. L’urgenza della sepoltura ha la forza di congelare addirittura delle mitzwot della Toràh e i divieti posti dai chakhamim. Questo perché tramite la sepoltura mostriamo di credere che c’è qualcosa oltre questo mondo, e che in un futuro l’anima si unirà nuovamente al corpo. Tutto dipende dalla nostra considerazione della morte: se riteniamo che non vi è nulla oltre questo mondo, è assolutamente indifferente cosa faremo dei nostri corpi; ma se crediamo invece che la vita continua, il corpo sepolto sarà simile ad un seme, celato ai nostri occhi, che tornerà ad essere una pianta! Fra le mitzwot della Toràh quella di più difficile comprensione è quella della Paràh adumàh (vacca rossa), ma forse al suo interno vi è un simbolismo che non si distanzia molto da quanto stiamo dicendo: le ceneri della vacca, unite con mayim chayim (acqua viva) possono redimere dalla morte.
La cenere, e purtroppo lo sappiamo bene, è il simbolo della distruzione totale, e la sua unione con l’acqua può portare ad una nuova vita. Abravanel nel suo commento alla Toràh cita una famosa ghemarà in Massechet Shabbat (122), che spiega perché portiamo lutto per un anno: affinché l’anima possa ritornare alla propria fonte originaria è necessario che il corpo faccia altrettanto, cioè ritorni alla terra. Durante questo processo l’anima si aggira fra cielo e terra, e terminati i dodici mesi abbandona definitivamente questo mondo. Inoltre la sepoltura ha lo scopo di onorare il defunto, di modo tale che le persone non possano assisterne alla decomposizione: solamente Moshèh ed il figlio El’azar assistono alla morte di Aharon, e nessun essere umano alla sepoltura di Moshèh Rabbenu. Questo ci spiega anche perché durante il funerale al contrario di molte culture dove l’esposizione della salma è una parte centrale del rito, nella nostra questo viene accuratamente evitato, se non nelle fasi della preparazione della salma, nelle quali in ogni caso tutto ciò è ridotto al minimo indispensabile, e sempre e comunque per il kavod del defunto. Bereshit Rabbà (58, 9) riferisce il verso del Mishlè 21,21 “Colui che segue giustizia e bontà, trova la vita, la salvezza e la gloria”, alla sepoltura di Saràh.
Perché fra gli innumerevoli atti di chesed che Avraham ha compiuto durante la sua vita, viene scelto proprio questo? In fondo tutti si preoccupano di seppellire i propri cari! Avraham seppellendo Saràh si adoperò con il Chesed che destinava a tutti gli esseri umani, senza destinare delle attenzioni particolari perché Saràh era sua moglie. Noi dovemmo per così dire accontentarci del contrario: fare questa mitzwàh fondamentale, di occuparci di coloro che non sono più tra noi, come se si trattasse di nostri cari, con lo stesso scrupolo e attenzione.