Torino, 26 Adar II 5782 (29.3.2022)
Rav Riccardo Di Segni (2002), in un intervento intitolato “Legge e libertà nell’ebraismo”, ricordava una scena dei Dieci Comandamenti, in cui Charlton Heston, nei panni di Moshè, scendendo dal monte Sinai ed avendo scoperto il vitello d’oro disse: “non c’è libertà senza legge”. Questa battuta riflette un’idea che ha avuto una lunga storia nella speculazione rabbinica, che ci riporta agli albori dell’esperienza storica del popolo ebraico e che ha esercitato un’influenza notevole sullo sviluppo storico della civiltà occidentale in generale. In modo particolare ha ispirato i rivoluzionari di ogni tempo, come Michael Walzer ha evidenziato magistralmente in Esodo e rivoluzione. Solo per ricordarne alcuni, i contadini tedeschi, Oliver Cromwell, i coloni americani e Martin Luther King si sono richiamati all’esodo. L’immaginario biblico è talmente tanto fondante nella storia americana che nella Campana della libertà a Filadelfia, che intende simboleggiare la liberazione americana dalla Gran Bretagna, è inciso il versetto del Levitico (25,10) relativo al Giubileo “… proclamerete libertà (deror) nella terra per tutti i suoi abitanti” (vedi Seeskin 2019, 1). Lasciatemi passare la battuta, ma la libertà pesa… 950 kg di bronzo! Nel Ghetto di Roma gli anziani ripetevano in questo periodo dell’anno il motto “Pesach pesa”, riferendosi alle fatiche comportate dalle meticolose pulizie e dai numerosi preparativi che la festa richiede, ma si potrebbe riferire questa espressione al tema che vogliamo affrontare oggi, quello del legame fra libertà e responsabilità.
Pensare a questi concetti in questi giorni assume un significato particolare, dal momento che abbiamo festeggiato da pochi giorni Purim, e ci avviamo alla celebrazione di Pesach, che nella nostra tradizione è zeman cherutenu, il tempo della nostra libertà. Come è noto la liberazione del popolo di Israele culminerà, appena cinquanta giorni dopo l’uscita dall’Egitto, nel dono della Torah. I dieci comandamenti esordiscono ricordandoci che il Signore è Colui che ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla casa degli schiavi (Es 20,2). Il Levitico (25, 55) sottolineerà come la liberazione dalla schiavitù comporterà per il popolo ebraico il suo essere servo esclusivo del Signore, escludendo in questo modo qualsiasi assoggettamento ad altri esseri umani. Il termine che in ebraico viene utilizzato per indicare il servizio divino, ‘avdut,è identico a quello utilizzato per indicare la schiavitù (Seeskin 2019, 2). Sottomettersi al Signore diviene quindi la libertà da qualsiasi altro assoggettamento. Non dobbiamo lasciarci ingannare e pensare che l’unico ostacolo per la libertà sia un tiranno, e in assenza di esso automaticamente abbiamo la libertà. Non è così; ci sono degli impedimenti esterni a noi, e altri interni: ci sono anche la predestinazione divina, la disuguaglianza sociale, la scarsa consapevolezza di sé, la testardaggine, la pigrizia, la chiusura mentale, la disperazione (Seeskin 2019, 42).
Gli episodi fondanti dell’esperienza religiosa ebraica sono oggetto di una riflessione continua, che trova espressione anche nella vita religiosa: ad esempio lo Shabbat e la festa di Pesach a livello cerimoniale richiamano questi avvenimenti, inserendo il tema della libertà fra i capisaldi della visione ebraica del mondo; Pesach a sua volta è collegato intimamente, per mezzo del conteggio dell’omer, a Shavu’ot, che commemora il dono della Torah, per affermare che la libertà assume veramente significato solo in presenza della legge. La tradizione rabbinica esprime questo concetto in maniera potente, richiamandosi in un passo famosissimo dei Pirqè Avot a un versetto dell’Esodo, ove è detto che “Le tavole erano opera divina e la scrittura era scrittura divina, incisa sulle tavole”. I maestri dicono di non leggere charut, inciso, bensì cherut, libertà. Nelle tavole della legge sarebbe quindi insita l’idea di libertà. La portata dell’insegnamento rabbinico, estremamente conosciuto, è notevole. Il termine cherut difatti non è un termine biblico, non compare neppure una volta nel Tanakh. È singolare che i chakhamim abbiano introdotto una parola che nella Bibbia non compare per indicare la libertà (Sacks 2018). Dobbiamo peraltro fare attenzione perché l’ebraico ha un altro termine per indicare la libertà che è chofesh. Lo schiavo liberato ottiene chofesh, nel senso che non ha più nessuno a dargli degli ordini, ma ciò non significa che con il chofesh possa costruirsi una società libera. Il chofesh al più può descrivere la libertà individuale, ma non potrà rappresentare la libertà collettiva (Sacks 2018). La distinzione fra due tipi di libertà in filosofia nasce almeno nel momento in cui Kant distingue fra Wille e Willkur; molti, affrontando questo tema, si richiamano al famosissimo saggio Two Concepts of Liberty di Isaiah Berlin (vedi Seeskin 2019, 3, n. 10).
La riflessione rabbinica nel midrash esplora il senso della libertà acquisita attraverso l’assoggettamento alla Torah, esprimendo vari punti di vista, che denotano una grande libertà nell’approccio al testo biblico e alle idee fondamentali della tradizione:
- Secondo un’idea chi studia la Torah è libero per se stesso;
- Rabbì Yehudah ritiene che ci si riferisca alla libertà dai regni; si tratterebbe quindi di una libertà essenzialmente politica. L’unica garanzia di indipendenza per il popolo ebraico discende dal rispetto della Torah.
- Rabbì Nechemiah crede che si parli della libertà dall’angelo della morte;
- Altri maestri pensano che si alluda genericamente alla liberazione dalle sofferenze. In queste due ultime letture spicca l’elemento prettamente religioso.
Sul tema della legge vorrei riprendere uno stralcio del testo di Rav Di Segni (2002), che riflette su questo argomento alla luce delle relazioni fra cristiani ed ebrei:
Torà significa essenzialmente insegnamento ed è il nome che viene dato in senso stretto alla prima parte della Bibbia, il Pentateuco, che rappresenta la Torà scritta, e in senso più largo a tutta la tradizione sacra, che viene definita orale perché fino a circa il secondo secolo veniva trasmessa solo a viva voce. In tutti i testi che abbiamo citato la parola legge è da sostituirsi con Torà. Di questa traduzione parziale e fuorviante è responsabile il tramite greco, che spesso rende Torà con nomos e poi ne riduce il significato. In questo processo riduttivo, e in qualche modo emarginante, ha una notevole responsabilità il cristianesimo dei primi secoli, e di questo dato, proprio nel contesto attuale che è di confronto rispettoso e costruttivo, dobbiamo tener conto con grande attenzione. Il cristianesimo di Paolo nasce alimentandosi su una contrapposizione con la legge, che è poi contrapposizione alla Torà, e proprio in questa contrapposizione trova parte della sua identità rispetto alla matrice originaria ebraica. Le espressioni rabbiniche sopra citate vanno lette anche in questa luce, come un tentativo di sistematizzazione che ha sullo sfondo la nascita di una nuova religione che critica all’ebraismo la sua fedeltà alla Torà. Il paradosso è che il cristianesimo eredita dall’ebraismo il tema della libertà che si conquista solo nella strada di una disciplina spirituale, ma allo stesso tempo rifiuta il modello globale presentato dall’ebraismo, definendolo come “legge”. Nei secoli successivi il distacco si farà ancora più profondo, accompagnato anche dal disprezzo e dall’accusa di freddo legalismo.
Questa prima grande rivolta del figlio contro il padre ha avuto la sua ripetizione quasi vendicativa nella rivolta del nipote contro padre e nonno; uscendo di metafora, la nascita del mondo contemporaneo intorno all’idea della democrazia, fondata sui concetti di libertà ed uguaglianza. La modernità, mentre attinge questi concetti -anche senza ammetterlo- dalle fonti mai prosciugate della tradizione giudeo-cristiana rifiuta in qualche modo l’ispirazione religiosa sottolineando il diritto ad una legge che l’uomo si dà da solo, senza dipendere dall’autorità divina o di chi pretende di rappresentarla in questa terra.
Robert Cover (1987, 65) in una riflessione sui diritti umani sottolineava efficacemente come il termine diritti, riferendosi alla tradizione giuridica e letteraria ebraica, non sia corretto. Ovviamente non si intende sostenere che nella tradizione ebraica non sia riconosciuto il valore della dignità umana, ma che questa abbia le proprie categorie per esprimerla. La parola fondamentale è mitzwah, che significa letteralmente comandamento, ma ha un significato più vicino a quello di obbligo incombente. La storia umana nei suoi vari sviluppi segue un percorso differente da questo. Sin dagli albori della sua storia l’uomo cerca di sfuggire alla responsabilità. Non siamo mai noi, sono i politici, i media, le banche, i nostri geni, i nostri genitori. Altrimenti può essere il sistema, il capitalismo, il comunismo o qualsiasi altra cosa. In modo particolare è colpa di quelli che non sono come noi, degli infedeli, dei figli di Satana, dei figli delle tenebre. Gli autori dei più grandi crimini della storia stavano “obbedendo a degli ordini”. Quando non ci sono altre possibilità, date la colpa a D. Se non credi in D., dai la colpa a chi ci crede (Sacks 2014).
Ampliando il discorso al rapporto con la società civile, nei testi classici ebraici non troviamo una teoria della società civile. Ciò è determinato anzitutto dalla natura dei testi rabbinici, che sono principalmente commentari del testo biblico e talmudico, codici legali e responsa, e alla loro origine, principalmente l’esilio premoderno, quando gli ebrei non avevano uno stato proprio e vivevano in comunità compatte, internamente autonome e religiosamente omogenee, mentre erano segregati dalle società nelle quali vivevano a livello legale, politico e sociale. Risulta evidente che in queste condizioni gli ebrei non abbiano contribuito in modo significativo al dibattito relativo al rapporto fra società civile e Stato (Last Stone 2002, 151).
Se però il tema è quello della “visione etica della vita sociale” e della creazione dei legami di solidarietà sociale fra le varie componenti della società, l’ebraismo può contribuire significativamente alla discussione, visto che questo tema è affrontato spesso nella tradizione biblica e rabbinica (Last Stone 2002, 151). La storia biblica della torre di Babele ci vuole insegnare che l’istituzione di un ordine umano universale è potenzialmente pericoloso. L’umanità è invece divisa in collettività uniche, ciascuna con il proprio linguaggio e le proprie leggi, in grado di raggiungere un proprio significato morale (Last Stone 2002, 153).
L’ebreo come parte della comunità assume gli obblighi derivanti dall’alleanza non come singolo individuo, ma come membro della comunità. Non si possono ignorare i propri obblighi senza mettere in questo modo in pericolo gli altri. Questo è il senso del famoso principio talmudico per cui “tutti gli ebrei sono garanti gli uni degli altri”, come se tutti fossero parte di un unico corpo. Ciascuno mantiene i propri diritti individuali e di proprietà, ma non con il tipo di libertà o autonomia che la società civile presuppone. Nella visione ebraica l’individuo non è il sovrano della sua vita e non è una fonte completamente indipendente di valori morali. La libertà non viene concepita in questo modo. Essere liberi significa esercitare la responsabilità a livello individuale e obbedire o disobbedire alla legge esercitando il proprio libero arbitrio. Il tipo di società che emerge da questi presupposti si presenta come contrapposto alla società civile; si tratta difatti di un modello in cui l’individuo risulta essere maggiormente protetto dalla dittatura statale, ma è sottoposto alla dittatura dei vicini e degli amici, dal momento che la responsabilità collettiva dei membri dell’alleanza invita alla sorveglianza reciproca e alla pressione al fine di conformarsi alle norme divine, oppressiva come qualsiasi tirannia (Last Stone 2002, 153-4). Il tipo di comunità che risulta da questa visione ha delle caratteristiche molto particolari: difatti il legame fra i suoi membri non è volontario, a differenza di quanto avviene per i legami di amicizia nello stato liberale. È la legge a imporre di stabilire questo legame, e non solo per motivi legali, cultuali o mondani, ma perché ciascuno è tenuto ad identificarsi, pena secondo il Maimonide non prendere parte al mondo a venire, con i destini di Israele, partecipando alle sue sofferenze (Last Stone 2002, 155).
Come è ben noto queste dinamiche non coinvolgono solamente il popolo ebraico, ma riguardano, nella visione rabbinica, che comprende universalismo e particolarismo, tutte le società, sottoposte al patto noachide che precede quello del Sinai, che riguarda solamente Israele. Vengono individuati alcuni principi fondamentali che dovrebbero ispirare qualsiasi società civilizzata: l’astensione dall’idolatria, dalla blasfemia, dall’omicidio, dall’incesto e dall’adulterio, dal furto e dal consumo di parti di animali vivi, oltre all’obbligo di stabilire un sistema di giustizia. Quanti si attengono a questo codice morale universale sono ebraicamente considerati parti della società, gli altri appartengono a una società dominata dal caos (Last Stone 2002, 154; 157). Lo scrittore cattolico Paul Johnson, autore di una magistrale History of the Jews, una volta fu interrogato da Rav Sacks circa l’elemento che maggiormente lo affascinò riguardo al popolo ebraico durante le sue ricerche. Johnson rispose che nel corso della storia ci sono state delle società, come l’Occidente laico di oggi, che hanno enfatizzato l’individuo, mentre altre, come la Russia o la Cina, hanno dato peso alla collettività, ma l’ebraismo è l’esempio più riuscito di cercare l’equilibrio fra questi due delicati aspetti. Secondo Rav Sacks senza saperlo Johnson aveva parafrasato la massima di Hillel nel Pirqè Avot: “se non sono io per me, chi sarà per me? Ma se sono solo per me stesso, cosa sono?” (Sacks 2011).
In un testo denso di significato, che riassumo, Rav Sacks (2014) concentra in poche parole la visione etica della Torà, esprimendo dei punti fondamentali che la caratterizzano rispetto alle altre religioni e culture: Non pensiamo che gli esseri umani siano irrimediabilmente corrotti, macchiati dal peccato originale, incapaci di fare del bene senza la grazia divina. Questa è una forma di fede, ma non la nostra. Non consideriamo neppure di dover servire D. ciecamente. Anche questa è una fede, ma non la nostra. L’umanità non è come nel paganesimo il giocattolo di divinità capricciose. Non la consideriamo neppure, come fanno gli scienziati, mera materia, un insieme di sostanze chimiche guidato da impulsi elettrici, senza alcuna dignità o santità speciale, residenti temporanei di un universo senza alcuno scopo, venuto al mondo senza motivo e che scomparirà senza ragione alcuna. Crediamo di essere creati a immagine divina, rappresentiamo il punto nello spazio in cui l’universo diviene consapevole di se stesso, essendo l’unica forma di vita capace di plasmare il proprio destino. Per questo non possiamo considerarci delle vittime. Non dobbiamo pensare come i greci che ci sia un destino cieco e inesorabile, che tutto sia scritto già prima della nostra nascita. Questa è una visione tragica della vita, condivisa sotto certi aspetti da Spinoza, Marx e Freud. Crediamo piuttosto, come sosteneva Victor Frankl, di non essere definiti da ciò che ci accade, ma da come rispondiamo a ciò che ci accade. Il destino non è mai definitivo. Può esserci un decreto negativo, ma la teshuvà, la tefillà e la tzedaqà possono fronteggiarlo. E quello che non possiamo fare da soli, possiamo farlo assieme.
Uno dei maggiori pericoli per l’esercizio della libertà è la considerazione che la storia è sempre andata in un certo modo e che non ci sono alternative degne di considerazione, che siamo destinati a ripetere gli errori del passato, non importa quanto duramente ci impegniamo. Questo atteggiamento limita in modo significativo le nostre scelte e ci impedisce di realizzare a pieno il nostro potenziale. La libertà, come ricordava Levinas, è difficile (Seeskin 2019, 42).
Riferimenti bibliografici
Cover, Robert M. 1987. « Obligation: A Jewish Jurisprudence of the Social Order». Journal of Law and Religion, Vol. 5, No. 1: 65-74.
Di Segni, Riccardo. 2002. Legge e libertà nell’ebraismo https://morasha.it/legge-e-liberta-nellebraismo/
Last Stone, Suzanne. 2002. The Jewish Tradition and Civil Society, in Alternative Conceptions of Civil Society, a cura di S. Chambers e Will Kimlicka. Princeton e Oxofrd: Princeton University Press. 151-170.
Sacks, Jonathan. 2011. Individual and Collective Responsibility. www.rabbisacks.org/covenant-conversation/noach/individual-and-collective-responsibility/
Sacks, Jonathan. 2014. The Leader’s Call to Responsibility www.rabbisacks.org/covenant-conversation/haazinu/leaders-call-responsibility/
Sacks, Jonathan. 2018. A New Concept of Freedom.www.rabbisacks.org/archive/new-concept-freedom/ Seesikin, Kenneth. 2019. The Concept of Freedom in Judaism, in The Concept of Freedom in Judaism, Christianity and Islam, a cura di G. Tamer and U. Männle. Berlin-Boston: De Gruyter. 1-44.