Pregare orgogliosamente per il bene della propria patria? Un dovere di ogni ebreo. Così il Gran Rabbino di Francia Haim Korsia, ospite d’onore del recente Moked di Milano Marittima, ricordando come fu sua la scelta di far inserire nella preghiera che gli ebrei d’Oltralpe recitano per il bene della Repubblica una parte dedicata ai militari attivi in operazioni militari e che la stessa fosse recitata in francese e non soltanto durante eventi istituzionali in modo da farla accettare senza difficoltà. Rav Korsia aveva poi affermato: “Sarebbe auspicabile che gli ebrei italiani facessero lo stesso per il loro Stato”. Sul numero di giugno del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche in distribuzione il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni interviene con una sua riflessione a riguardo.
Un’interessante provocazione lanciata dal rabbino capo di Francia Haim Korsia al Moked primaverile, su una questione religiosa con implicazioni politiche ed identitarie – la preghiera per la pace dello Stato – sta provocando insieme a qualche risposta ragionata delle polemiche inutili e strumentali. Per ricondurre la discussione nei giusti binari è opportuno riproporre i dati essenziali di questa storia.
Nella tradizione ebraica antica vengono identificate due fonti principali. La prima è una frase del profeta Geremia, in un suo messaggio indirizzato agli ebrei esuli in Babilonia che gli chiedevano come comportarsi in una terra lontana dalla patria originaria; a loro Geremia rispose dicendo tra l’altro: “E cercate la pace della città dove vi ho esiliato e pregate per lei al Signore, perché nella sua pace voi avrete pace” (cap. 29 v. 7); in altri termini, perché voi possiate essere tranquilli e prosperare, la città che vi ospita deve essere in pace, non avete nulla da guadagnare dall’instabilità, anche se vi trovate nella terra di chi ha sconfitto la Giudea e vi ha portato in esilio e quindi adoperatevi per la sua pace.
La seconda sollecitazione in questo senso viene da una fase famosa pronunciata da rabbì Chaninà segan haKohanim, Maestro dell’epoca della distruzione del Tempio: “Prega per la pace del regno, perché se non fosse per il timore [che incute] ognuno divorerebbe il suo prossimo vivo” (Avòt 3:2). Anticipando di molti secoli il senso politico del famoso homo homini lupus, invocava e giustificava la forza del potere come elemento necessario per la sicurezza sociale. Parlava così riferendosi al regno, che poteva essere un regno qualsiasi, ma aveva davanti a lui quello romano, che aveva appena distrutto il Tempio e soggiogato la Giudea. Altre fonti bibliche parlano di benedizioni o preghiere per i re; per il re ebreo (Salomone) il verso di 1 Re 8:66 che parla dell’inaugurazione del Tempio, alla fine della quale il popolo si congeda benedicendo il re; per il re non ebreo la richiesta – paradossale – del Faraone a Mosè di pregare per lui (Es. 8:24).
Le due principali indicazioni classiche hanno determinato o almeno costituito il riferimento di appoggio per una tradizione che si è sviluppata in molte diaspore. Le prime e principali informazioni su una preghiera per il re le abbiamo per l’area askenazita dal Kolbo (Qeriat haTorà 19) del XIV secolo e, per l’area sefardita, dal contemporaneo David Abudiram (denominazione più corretta del popolare Abudraham), dove si parla di un uso seguito da qualche (ma non tutte) comunità. Una fonte più antica per il mondo tedesco sarebbe un registro della comunità di Worms, su un testo composto all’epoca delle prime crociate: “Colui che ha benedetto i nostri padri Abramo, Isacco e Giacobbe benedica il nostro signore … e gli mandi benedizione e successo perché sieda nel suo trono con giustizia nella terra per vita e pace, e abbia pace lui e la sua discendenza, e diremo Amèn”. Per l’Italia (in senso geografico, ma non è detto che la cosa riguardi il minhag italiano) la fonte più antica sembra essere Azarià de Rossi (Mantova c.1513-1578, in Meor ‘Enaym, Imre Binà 55) che cita anche fonti apocrife, i libri dei Maccabei e Giuseppe Flavio per dimostrare la presenza dell’uso già presso gli ebrei sotto le dominazioni greche e romane e riferisce che vi sono “alcuni posti” che fanno questa benedizione (per questa e altre informazioni v. Shut Beth Mordekhai [Vogelman] 1:18).
Che quindi ci sia stata una benedizione recitata almeno dal medioevo non c’è dubbio, ma le formule antiche si ignorano (a parte quella del registro di Worms). Per veder comparire la formula più diffusa, che sarebbe stata composta intorno alla metà del XV secolo, bisogna aspettare. Chi sfoglia vecchi testi di preghiera potrà trovarvi il testo base con l’aggiunta al centro del nome del sovrano (Re, Duca ecc.) regnante. Ma non la troverà stampata nei machazorim classici di rito italiano. In Italia comunque molte comunità l’hanno recitata, ognuna per il suo sovrano, e praticamente tutte dalla nascita del regno d’Italia. La preghiera prende il nome dalle parole iniziali Hanoten teshu’à la melakhim, “Colui che dà salvezza ai Re” ed è un ricamo di citazioni bibliche, a cominciare dall’inizio, ripreso dal v. 10 del Salmo 144, seguito dal v. 16 di Isaia 43. Dopo i versi iniziali che invocano il Signore, gli si chiede di benedire, proteggere, custodire, aiutare, e rendere sempre più grande il sovrano, il consorte, la famiglia reale e c’è chi aggiunge governo, ministri ecc.; si prosegue con l’invocazione di protezione da ogni disgrazia e di sconfitta dai nemici; quindi si invoca la misericordia divina perché induca nel sovrano e i governanti la volontà di fare del bene al popolo d’Israele; si chiude con l’invocazione: “Ai suoi giorni Yehudà sarà salvato e Israel starà in sicurezza” (Ger. 23:6), “E verrà il redentore a Sion” (Is. 59:20), “E così sia, Amèn.”
Anche un esame superficiale di questo testo rivela delle difficoltà.
La sperticata preghiera per il re è seguita dalla richiesta di protezione del popolo ebraico, come per dire: noi preghiamo per te, ma tu fa la tua parte; e si chiude con la speranza di redenzione di Israele, che in altri termini significa che si prega per quel re ma si aspetta, mentre lui è in vita, un re nostro. Chi l’ha composta ha avuto cura di costruire il testo cucendo citazioni bibliche, che per loro origine sono inattaccabili dal pubblico cristiano che le legge a suo modo (il redentore ha ovviamente un significato diverso per ebrei e cristiani). Si nota anche che il seguito delle prime citazioni, che cominciano con la lode del re, contiene richieste di altro tipo; il verso 11 del Salmo 144, non citato nella preghiera, dice: “Salvami dalla mano degli stranieri, la cui bocca dice menzogne e la cui destra è bugiarda”. Ancora peggio il seguito dell’altra citazione. Molti anni fa, nel 1970, ne discutevo a Ramat Gan con un uomo dotto e pieno di fede, il dottor Genazzani, pediatra fiorentino, maskìl del Collegio Rabbinico, salito in Israele nel 1938; gli dicevo che per me era una preghiera di schiavi, e lui mi rispondeva che era stata scritta con saggezza. Ora direi che è una preghiera di schiavi scritta con saggezza. Con tutti questi limiti o pregi, dipende dai punti di vista, la preghiera è stata recitata per secoli, anche in luoghi dove il re non c’era più o non c’era mai stato (come gli Stati Uniti), interpretando “re” e “regno” come sinonimi di stato e governo. Nel Regno Unito viene recitata solennemente, in alcune sinagoghe in inglese, ma usando ancora la versione classica della Bibbia di King James: “He that giveth salvation unto Kings…”.
Negli Sati Uniti non c’è una diffusione omogenea, nei nuovi libri di preghiera dell’Art Scroll non compare, ma in compenso in ogni sinagoga c’è la bandiera a stelle e strisce. Persino la benedizione per lo Stato d’Israele, con una formula del tutto diversa, nasce anche come seguito/evoluzione della benedizione diasporica, partendo dal comune presupposto che bisogna invocare la benedizione per lo Stato in cui si vive. Nell’Europa delle persecuzioni si pose, a cominciare dalla Germania, il problema del senso di questa preghiera. Francamente era imbarazzante pregare per la salute e il successo di Adolf Hitler. Persino le sinagoghe liberal, dopo qualche adattamento iniziale, la eliminarono. In Italia la crisi arrivò nel 1938, con le leggi razziali, quando qualcuno si chiese che senso avesse pregare per Vittorio Emanuele, firmatario delle leggi razziali e per il duce persecutore, e ne invocò l’abolizione. Tra questi “qualcuno” va ricordato in particolare rav Elio Toaff, che racconta nelle sue memorie che mentre officiava a Livorno disse chiaramente “Vittorio Emanuele III re di paglia”, invece che “d’Italia” e la cosa gli costò l’allontanamento dal servizio (Perfidi Giudei Fratelli Maggiori, p.16).
In occasione della sua scomparsa molti hanno cercato di presentare e deformare a loro modo la sua opera, dimenticando che in questa opera ci fu anche la sua “spallata” per far smettere la preghiera. Con la liberazione, persistendo la monarchia, la preghiera fu da qualcuno ripresa (vi sono correzioni manoscritte che mettono Umberto al posto di Vittorio Emanuele) ma poi passando alla repubblica non ci fu un’automatica reintroduzione. Pesava ancora l’amarezza e il risentimento per il tradimento dello Stato. Ma c’era anche il bruciante ricordo della lacerante polemica con gli ebrei della Nostra Bandiera e della loro esasperata rivendicazione della loro italianità fascista; in questa preghiera i “bandieristi” vedevano un segno della loro integrazione. E poi nel dopoguerra gli occhi degli ebrei italiani (e dei loro rabbini, pensiamo a rav Prato) erano puntati sulla nascita dello Stato d’Israele; dal settembre del 1948 comparve la benedizione per lo Stato che fu rapidamente adottata in tutte le comunità.
Effettivamente la domanda sul ripristino della preghiera in Italia (che sarebbe per la repubblica e non per il re) ha un senso e va discussa serenamente, anche se bisognerebbe lavorare su un testo differente (come quello più antico, sobrio e non equivoco della comunità di Worms). Ma non c’è bisogno per gli ebrei italiani di fare preghiere “politiche” per dimostrare quello che sono e sentono, cittadini di identità complessa e non esclusiva, in cui la parte italiana è comunque essenziale, profonda e radicale come è l’amore per questa terra; basterebbe magari evitare esagerazioni in tutti i sensi, dall’esposizione di bandiere (d’Israele) all’esterno di edifici ebraici ma non israeliani o delle foto di soldati (italiani o israeliani) sui cancelli della sinagoga (mai visti sui cancelli delle chiese), fermi restando il nostro legame con Israele e la solidarietà con i soldati italiani, tanto più in questi giorni in cui sono a guardia delle sinagoghe.
Sembra ancora non guarito il complesso che induceva le nostre precedenti generazioni a dichiararsi “italianissimi”, non bastava l’aggettivo normale, ci voleva il superlativo. Ma dentro e fuori il Beth haKnesset la preghiera, qualsiasi preghiera, si fa per un sentimento e un dovere condiviso, non per opportunità politiche. Ben venga allora, ciò chiarito, una bella e sobria preghiera per questa terra e questo stato. In questo dibattito però non sono molto utili, come modello da seguire, le sollecitazioni che vengono dalla Francia (dove è stato scelto come Grand Rabbin proprio il rabbino capo delle forze armate), tanto più in un momento come questo in cui l’identità degli ebrei francesi è sottoposta a dura prova e qualcuno sente bisogno di sottolineature che qua non sono né richieste né necessarie.
Ogni paese ha la sua storia e la sua sensibilità e in questa faccenda la dimensione halakhica è inevitabilmente mescolata a quella storico-politica e i modelli (e forse le forzature) differenti non sono qui applicabili. Tantomeno devono essere accolte le sollecitazioni che provengono da alcuni nostri reform, che non hanno perso anche questa occasione per dimostrare quella che per loro è la chiusura mentale del rabbinato italiano; purtroppo alcuni loro rappresentanti (non italiani di origine) si sono dimenticati (ammesso che l’abbiano mai studiata)non solo la storia dell’ebraismo italiano del Novecento con i suoi drammi e lacerazioni, ma anche quella della riforma nell’Ottocento; uno dei primi passi della riforma fu l’eliminazione dal testo delle preghiere di tutti i riferimenti al ritorno a Sion, perché ormai si era (o si pensava di essere) solo cittadini patriottici fino in fondo; e allora non stupisce che siano proprio i loro eredi a rimpiangere l’antica preghiera per casa Savoia anche se in salsa repubblicana facendola passare per un segno di apertura mentale.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma (Pagine Ebraiche giugno 2015)