Capitò che Rabbì Yochannàn si ammalò gravemente e non si poteva alzare dal letto per le grandi sofferenze che la malattia gli causava. Così non era nemmeno in grado di dedicarsi alle ore di studio di Torà che ogni giorno lo impegnavano.
Venne a trovarlo Rabbì Chaninà. Quando questi vide R. Yochannàn a letto, gli chiese subito: “Ti è gradita questa sofferenza?”
“No!” — rispose R. Yochannàn — “non la desidero neanche se dovessi essere ricompensato per essa. Tutto ciò che voglio è studiare Torà in salute, ma questa malattia mi ostacola”.
“Dammi la mano” — disse R. Chaninà. Anche R. Yochannàn gliela stese. Appena questa toccò R. Chaninà, accadde qualcosa di molto strano. R. Yochannàn potè improvvisamente alzarsi. Si sentiva meglio anzi era completamente guarito. Ringraziò subito Dio per il meraviglioso miracolo della sua immediata guarigione.
Ma R. Yochannàn non era affatto stupito di questo miracolo. Lui stesso una volta, in visita a R. Chiyà bar Abbà, che giaceva a letto malato, era stato in grado di curarlo alla stessa maniera, tenendogli la mano. Ma adesso che era R. Yochannàn a essere malato, non era in grado di curarsi. Come mai? Un prigioniero non può liberarsi da solo della propria prigione.
Per i più piccoli — Che cosa impariamo dal Midràsh
- Che il “bikkùr cholìm” — la visita di conforto agli ammalati, è una mitzvà così importante della Torà che anche i grandi Maestri si devono scomodare per metterla in atto.
- Che non siamo padroni del nostro corpo, questo ci è stato dato da Dio principalmente per adempiere alle mitzvòt, tra le quali lo studio della Torà.
- Che lo studio della Torà per ogni ebreo, di qualsiasi cosa si occupi, deve essere costante e giornaliero e che solo gravi impedimenti (come una malattia grave) possono rimandarlo.
- Che neanche i grandi Maestri sono esenti da punizioni inviate dal Cielo, sotto forma di sofferenze fisiche, causate da un comportamento errato.
- Che queste sofferenze possono avere un senso. Possono, secondo la concezione ebraica, richiamarci a fare “teshuvà”, letteralmente “a ritornare alla retta via” e a correggere quindi i nostri errori.
- Che i poteri particolari di guarigione che venivano accordati da Dio ai grandi Maestri per i loro meriti potevano essere revocati e che quindi loro stessi non potevano esserne i beneficiari.
Per i più grandi — Oltre il peshàt (spiegazione letterale)
Ancora una volta, per capire meglio quella che sembra una semplice storiellina miracolosa, dobbiamo guardare per prima cosa al contesto. Nel Talmùd si tratta, poche righe prima, del grande e spinoso problema del significato della sofferenza umana e della giustizia divina. Perché i giusti e gli innocenti soffrono? Una delle risposte è che Dio, conscio della natura umana, manda le sofferenze anche al giusto per “amore”. Non perché le sofferenze siano amate, ma perché Dio amando chi gli è vicino, desidera che questi continui a correggere il proprio comportamento. Ogni persona, infatti, viene giudicata secondo i propri particolari standard. Se per un malvagio una “cattiva azione” può essere rubare, per un grande saggio una cattiva azione può essere anche solo, per esempio, un attimo di invidia nei confronti di un collega. A volte poi allo tzaddìk-giusto è chiesto di espiare, non solo le proprie, ma anche le colpe della sua generazione.
Rabbi Yochannàn non era certo nuovo alle sofferenze, anzi ne aveva passate di terribili. Aveva infatti perso tragicamente tutti i suoi dieci figli e si racconta che tentasse di consolare chi soffriva, mostrando un ossicino dell’ultimo figlio perso. I commentatori del Talmùd, Rashì e Tosafòt, si dividono se le sofferenze di questo Maestro fossero per “amore” e perché non vengono da lui accettate.
Quello che emerge con chiarezza dal testo è che, facendo riferimento a un versetto del profeta Isaia (53; 10) dove si parla di un sacrificio che richiede la totale consapevolezza, anche la sofferenza non ha senso di per sé, come in altre culture. È un “bene” se viene compresa, accettata da chi la subisce e viene trasformata in uno stimolo al cambiamento in meglio. Ma è sicuramente un “male” se chi la subisce non ne comprende la portata.
Forse R. Yochannàn non riteneva di accettare la malattia a causa delle prove a cui era stato tragicamente sottoposto in precedenza. Forse pensava che ci potessero essere altre vie per fare teshuvà. Questa è probabilmente la causa della sua immediata guarigione. Essendo però lui stesso “imputato” nel giudizio divino, pur essendo un guaritore, non può essere anche “avvocato della difesa”. Ha bisogno del suo collega. Come tutte le malattie infine, anche quelle mandate a R. Yochannàn, hanno bisogno della partecipazione attiva del malato, per essere vinte. Per questo quando R. Chaninà tende la mano per operare la guarigione, R. Yochannàn a sua volta tende la sua in segno di accettazione.
T.B. Berakhòt 5b
David Piazza
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