Libraio, editore, mercante, collezionista ed esegeta di Marcel Duchamp, nonché poeta errante poliglotta. È stato un campione del pensiero laico e indipendente. Il ricordo di Gian Enzo Sperone
Gian Enzo Sperone
I fili imperscrutabili che legano le vite degli umani sono per l’appunto imperscrutabili. Da bambino frequentavo diligentemente l’oratorio della mia parrocchia, del resto che altro c’era da fare alla fine degli anni ’40 in un’Italia distrutta dalla guerra, in cui solo la chiesa cattolica aveva mantenuto quasi intatta la sua organizzazione e la sua rete di pastori d’anime. Chiedevo dopo la messa al teologo: Che cos’è il mistero della Trinità? Per sentirmi rispondere dal buon dottore della scienza di Dio: «Ma è un mistero o no? E allora cosa vuoi che ti risponda?».
Negli stessi anni Arturo Schwarz era ancora al Cairo (in Egitto era nato nel 1924, ebreo tedesco il padre, madre italiana) dove se l’era vista brutta, bruttissima. Incarcerato e seviziato prima di accedere alla forca cui era stato condannato per attività politica, sovversiva e «prima di farsela nei pantaloni» (parole sue) con il cappio già al collo, tramortito dallo strazio, aveva assistito incredulo al primo miracolo, forse l’unico della sua vita di ateo: era arrivata la grazia e insieme l’espulsione dall’Egitto. Da allora non avrebbe mai più indossato una cravatta.
Quando io facevo il chierichetto tutto pulitino, con il vestito precisino come voleva mia madre, lui contava le cimici nella cella dov’era detenuto. Poi in Italia, Arturo Schwarz (nom de plume: Tristan Sauvage in omaggio al fondatore del Dada, Tristan Tzara) aprì nei primi anni ’50 una libreria con annessa minuscola casa editrice, per pubblicare i libri (sovversivi e odiosi per Palmiro Togliatti, «il Migliore») del suo grande eroe Lev Trockij, paladino del Comunismo integrale. Trockij era stato appena accoppato nel 1938 nel suo rifugio messicano da un tal Mercader inviato da Stalin, «il boia della classe operaia», per sopprimere un avversario che gli era sfuggito di mano.
Arturo/Tristan l’aveva pure scritto che Stalin era un traditore, così come Togliatti che a Mosca, sino al 1945, non si era per niente adoperato per la liberazione dei prigionieri italiani reduci dell’Armir (Armata italiana in Russia, Ndr), anzi… (oggi lo si sa per certo perché esistono documenti cartacei). Togliatti era un carattere temprato e non indulgeva in sottigliezze quando c’era da difendere da ortodosso la reputazione del suo partito.
Dedicò qualche minuto della sua indefessa attività (si sa anche con quali tristissimi mezzucci) per intimidire Schwarz che però non si impressionò più di tanto, così come fece Elio Vittorini, che dalle pagine del «Politecnico» ridicolizzò Togliatti, per un suo becero e violento richiamo all’ordine dalle colonne di «Rinascita» (e con uno pseudonimo) in occasione di una mostra a Bologna del Fronte nuovo delle arti, nel 1948.
Scrisse il Migliore: «Una raccolta di cose mostruose […]. Fate come il ragazzino del racconto di Andersen, dite che il Re è nudo […] e uno scarabocchio è uno scarabocchio». Rispose pertanto Vittorini con un beffardo «Suonare il piffero per la rivoluzione» in cui, analizzando i rapporti tra arte e politica, fece notare che l’artista è solo al servizio della verità e può essere rivoluzionario soltanto se sa scorgere nell’uomo esigenze recondite, prendendo la distanza dal «mondo arcadico dei pifferai…».
Bravo Vittorini. Ma tornando a Trockij, vera ossessione (insieme alla Kabala) di Arturo Schwarz, voglio consigliare un libricino di 15 anni fa di quest’ultimo a proposito delle conversazioni avvenute in Messico poco prima dell’assassinio, tra André Breton (il teorico del Surrealismo) e Trockij, illuminanti per l’idea dell’indipendenza dell’arte da tutto, compresa la politica, e testimonianze delle aperture del pensiero di quest’ultimo.
Altri fili mi avrebbero legato ad Arturo specialmente dopo la prima visita alla sua galleria milanese in via del Gesù, nei primi anni ’60, dove si vedevano opere di Picabia, Ernst, Duchamp e altri surrealisti. Mi colpì assai una mostra con i collage Dada di Max Ernst «Historie d’une jeune fille qui voulut entrer au Carmel», che avrei potuto esporre subito dopo nella mia galleria di Torino alla fine del 1962: un insuccesso clamoroso. L’uomo era burbero, sbrigativo e a tratti anche scostante; e come molti sognatori invasati anche infantile. Sempre affascinante.
La sua cultura così ramificata tra Dada, Surrealismo, Trotskismo e arti orientali, ne facevano un campione del pensiero laico, libero e indipendente, capace di portare avanti grandi battaglie faticose: costi quel che costi o meglio, come diceva lui, «à la guerre comme à la guerre». Il mondo accademico e non solo, dovrebbe garantirgli crediti di sempiterna gratitudine per il suo monumentale studio su Marcel Duchamp, una delle figure più complesse del Novecento. L’aveva frequentato e interrogato a lungo, per quanto il più silenzioso ed elusivo artista di quel periodo gli potesse concedere.
E che dire del suo lavoro su Tristan Tzara e il Dada, che ha riaperto le discussioni su questo interprete unico di un’ipotesi di «azzeramento» nelle arti che avrebbe influenzato molti artisti, compreso il gruppo Zero (l’ultimo movimento tutto europeo) tra cui Manzoni, Klein, Heinz Mack e Arman, per non scomodare addirittura Fontana.
Ogni stagione della vita e della storia ha obiettivi suoi (imperscrutabili), cambia l’espressività e l’energia specie in chi ha delle cose forti da dire, alcuni diventano afoni, altri stonati. C’è chi ha l’ardire di accettare l’ostracismo, il carcere o, quantomeno, un’impopolarità invalidante quando la battaglia delle idee si fa pressante e cessa di essere un dogma il valore individuale della vita.
Qui sta una prima differenza tra i grandi uomini e le persone normali, tra chi tenta di dare voce alla Bellezza (che dovrebbe salvare il mondo) e nel frattempo si rovina la vita, e chi la vita se la gode. Si può essere grandi in qualcosa ma proiettare una piccola ombra. La storia della cultura è piena di gente straordinaria finita nell’oblio e di piccole menti che sempre mantengono profili ingombranti, avendo scelto di cavalcare le onde del consenso del loro tempo.
Arturo Schwarz, libraio, editore, mercante d’arte e collezionista bulimico nonché poeta, ed ebreo errante poliglotta (i suoi libri li pensava e scriveva in inglese) non cercava consensi. In quanto esegeta insuperato di Marcel Duchamp, come dicevo, è stato un vanto del nostro tempo e il tempo della sua vita è stato un vanto della poesia, della forza della poesia, della necessità della poesia in un mondo dominato dai tecnici.
Goffredo Parise annotò (cito a memoria): «Avevo pensato a una storia delle idee, delle emozioni, attraverso brevi racconti, uno per ogni lettera dell’alfabeto. Ho dovuto interrompere alla lettera N perché la poesia mi ha abbandonato. La poesia si sa, va e viene quando vuole lei e non ci puoi fare niente, e non lascia eredi…».
Diceva Leo Castelli: «C’è gente che crede di essere a cavallo e non è neanche a piedi». Leo (di nascita Krausz, ebreo triestino di origine ungherese), come Arturo fu obbligato a fuggire altrove dall’avanzata del nazismo: prima a Parigi e poi a New York, dove sarebbe diventato il più intonato solista del nascente mercato dell’arte americana del secondo dopoguerra: la Pop art prima e il Minimalismo e l’Arte concettuale dopo.
Anche in questo caso i fili imperscrutabili che legano la vita degli umani mi portarono per caso a diventare uno dei suoi più giovani collaboratori tra quelli distaccati in Europa, suo allievo prima e confidente poi. Ma qui, la storia deve concludersi prima di smarginare inevitabilmente nel personale. Resta da capire, se è vero che in ogni crocevia della storia c’è un ebreo, come mai un giovane cattolico come me ha avuto tanti incontri decisivi con menti di origine ebraica.
Caro Arturo Schwarz, tu non avevi interesse a sostenere e proteggere un giovane mercante alle prime armi, com’ero io sessant’anni fa; ma l’hai fatto. Non sarà certo con queste poche righe che posso sdebitarmi con te, ma è un primo passo perché i ricordi diventino informazioni per altri che verranno dopo.
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