Le comunità haredi di New York sembrano essere gli ultimi americani in grado di mantenere un sano equilibrio tra scienza e fede
Liel Leibovitz
La scorsa settimana, ho letto circa 407 articoli, alcuni sulla stampa ebraica e altri su pubblicazioni nazionali, che esprimevano orrore assoluto per le immagini di ebrei haredi che protestavano contro le nuove restrizioni collegate al COVID. Le storie sono tutte simili: ecco di nuovo gli uomini barbuti vestiti di nero, che feticizzano il loro modo di vivere arretrato e non riescono, nella loro medievale cattiva comprensione dei principi scientifici, a comprendere le minacce rappresentate dal virus. In tal modo, sono uno shonda[1] e non sono per niente come noi, sofisticati ebrei moderni, esperti, intelligenti e responsabili. Vergogna su di loro.
In questo spirito, permettetemi di offrire una replica: nel senso più completo, vero e letterale di queste parole, gli haredim si sono dimostrati questa settimana i veri Ebrei Americani, mostrando dedizione non solo ai fondamenti della fede ma anche ai valori concreti americani come la libertà o l’equità o, per quel che conta, la scienza.
Si consideri quanto segue: al momento della stesura di questo documento, 8.795 operatori medici e sanitari, e 22.290 medici, hanno firmato la Dichiarazione di Great Barrington, che è stata scritta da tre epidemiologi delle università di Harvard, Oxford e Stanford e sostiene che mantenere le nostre attuali politiche di lockdown “causerà danni irreparabili”. Il loro ragionamento sembra aver toccato un tasto sensibile con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che questa settimana ha ribaltato la propria posizione ed ha ammesso che l’unica cosa che i blocchi sono riusciti a ottenere è stata condannare milioni di persone alla povertà e alla miseria.
Gli ebrei haredi, a differenza degli sciami di esperti di salute pubblica da poltrona che si sono presentati per offrire online le loro opinioni irragionevoli, hanno compreso intimamente gli effetti del lockdown. Questo perché molti di loro vivono in piccoli spazi con grandi famiglie mutligenerazionali, il che significa che i blocchi stessi sono stati una delle principali cause di trasmissioni virali nei quartieri haredi. È anche il motivo per cui questa comunità ha sofferto così gravemente sebbene osservasse i lockdown sin dall’inizio e perché i tassi di mortalità a New York erano così alti. Non serve di certo una laurea in medicina per rendersi conto che quando rinchiudi intere famiglie in edifici stra-affollati, coloro che sono già a rischio soffriranno gravemente. La stessa cosa è successa nelle case di cura di New York, trasformate dalle politiche assassine e malvagie del governatore Andrew Cuomo in fabbriche di morte.
Considerato in questo contesto, il comportamento haredi è perfettamente sano. Dimenticatevi degli scatti scelti accuratamente di giovani uomini senza maschera che si accalcano insieme per questa o quella simcha; avreste trovato medesime immagini in qualsiasi comunità della città, se vi foste preoccupati di cercarle. Qui, pin larga misura, c’era una comunità impegnata in un comportamento razionale, basato sull’evidenza, basato sui propri valori, che di fatto concorda con le raccomandazioni di una parte ampia e crescente della comunità sanitaria pubblica. È il resto della città, e gran parte del paese, ad essere impazziti, feticizzando i lockdown ed abbracciando una serie di misure che, secondo gli standard normativi di salute pubblica, stanno causando molti più danni del virus.
Che cosa possono allora imparare dalla comunità haredi i ciarlieri nababbi che chiacchierano di “scienza” mentre disdegnano i suoi precetti fondamentali? Due lezioni importanti. Primo, come essere ebreo. E secondo, come essere americani.
A volte in piena estate, quando i casi COVID di New York City crollarono e la curva si appiattì ed i tassi di mortalità si abbassarono felicemente, molti dei miei amici e vicini iniziarono a cantare la stessa invocazione a cui noi residenti della città meno sensibile della nazione ci rivolgiamo ogni volta che il gioco si fa particolarmente difficile. Siamo resilienti, hanno canticchiato, e ce la faremo. Guardate! I ristoranti hanno tutti posti a sedere all’aperto ora, grazie al restringimento di poche corsie di traffico. Puoi acquistare alcolici per andarli a bere sulla strada. E i parchi sono ancora pieni di persone che fanno picnic e lanciano la palla e dimostrano che si può ancora avere una vita fantastica e bella qui a New York persino obbedendo a norme sanitarie ragionevoli ed essenziali.
Sapete cosa non è quasi mai emerso in queste eccitate conversazioni su come la nuova normalità non sia poi così male? Il fatto che quasi tutte le sinagoghe – e praticamente tutte quelle non ortodosse – siano rimaste e continuino a rimanere chiuse. Le persone che avevano la bella abitudine di sorseggiare sakè i giovedì sera, seduti all’aperto al proprio sushi bar preferito, avevano molto meno interesse ad assicurarsi che, giunto il venerdì sera, anche la loro sinagoga offrisse un’esperienza di persona, sicura e significativa. Persino Rosh Hashanah e Yom Kippur sono stati cancellati come vittime necessarie di COVID, zoomati nella migliore delle ipotesi o altrimenti ignorati.
Niente di tutto ciò, intendiamoci, intende suggerire che le persone che hanno lavorato duramente per organizzare servizi di persona – come il benedetto Hart Levine, un giovane rabbino che ha preso l’iniziativa, ha ottenuto un permesso, ha chiuso la 185a Strada, e ha offerto il tipo di minian, caloroso ed eclettico ed accogliente, tipico delle Feste Solenni, che avrebbe davvero dovuto spuntare in ogni altro isolato della città – o le persone che li hanno frequentati siano in qualche modo ebrei migliori. Osserva come desideri o non farlo. Se ascoltare il Kol Nidre sul tuo iPhone ti basta, alleluia. Ma nulla di tutto ciò cambia il semplice ed essenziale fatto della vita, vale a dire che tu sei ciò a cui dai la priorità. Se ritieni essenziale il giudaismo, ti impegnerai molto duramente per farlo funzionare, anche – o soprattutto – quando i tempi sono duri. Natan Sharansky ha celebrato Hanukkah nel gulag. E molti ebrei a New York hanno celebrato lo Yom Kippur – a distanza, mascherati e di persona. La maggior parte di loro, tuttavia, erano haredi.
Il che non dovrebbe sorprendere: queste sono, dopotutto, le persone che a volte chiamiamo, celando appena il nostro disprezzo, gli “ultraortodossi”, come se fossimo gli arbitri dell’ortodossia e fossimo liberi di determinare quanto l’osservanza sia raffinata ed accettabile e quanto semplicemente superi i confini del buon gusto. Quindi ecco che arriva la seconda, e molto più sorprendente, parte della constatazione, vale a dire che gli haredim mostrano, in questo momento, una comprensione molto più profonda di cosa significhi essere americani, rispetto a qualsiasi altro membro della comunità ebraica.
Quando sono stati messi in evidenza per essere criticati dal governatore Cuomo e dal sindaco di New York Bill de Blasio, hanno giustamente sottolineato che molti altri gruppi minoritari in tutta la città hanno sperimentato picchi di casi COVID, e nessuno è stato sottoposto a dichiarazioni derisorie e bigotte che li ha fatti sentire come perpetratori invece che come vittime. Quando i poliziotti sono stati inviati a chiudere i parchi giochi, hanno detto che tale discriminazione sulla base dell’appartenenza etnica e del credo religioso era profondamente incostituzionale.
Poi vennero le rivolte che seguirono l’omicidio di George Floyd, e gli haredim, perplessi, chiesero perché 15.000 dei loro vicini potessero riunirsi nella Grand Army Plaza di Brooklyn per dichiarare collettivamente che Black Trans Lives Matter, ma gli ebrei non potevano stare insieme in modo sicuro e pregare come comanda la loro fede. A questa semplice domanda, il sindaco de Blasio ha risposto in modo sprezzante che confrontare servizi religiosi e proteste civili era come confrontare mele con arance; le seconde, ha affermato, incredibilmente, sono sacre e protette mentre i primi sono una sorta di cosa triviale. Ancora una volta, gli haredim hanno sottolineato ciò che avrebbe dovuto essere ovvio per tutti, vale a dire che la libertà di praticare la religione è una garanzia americana fondamentale – se non la più fondamentale di tutte – e che nessuno a cui importi dell’America dovrebbe rimanere in silenzio quando il governo sceglie di sopprimere questa libertà consentendo allo stesso tempo lo svolgersi di altre forme di congregazione politica alle quali concede di svolgersi senza interruzioni. Ancora una volta, la maggior parte degli ebrei non ortodossi è rimasta indifferente a questo argomento, forse temendo che, sottolineando i grotteschi doppi standard qui in gioco, sarebbero stati accusati di essere insufficientemente fedeli alle ultraortodossie che governano così tanto della società liberale in questi tempi.
Come, per esempio, l’idea della scienza. Se ci credi – veramente, profondamente e inequivocabilmente – capisci che la scienza non è un sistema basato sulla fede. Poco le importa della politica o delle virtù. È una metodologia beatamente agnostica che fa ipotesi, le confronta con le prove disponibili e le corregge, le altera o le rifiuta in base ai risultati. Quindi, se sei fedele alla scienza, ad esempio, ecco come dovresti pensare alle riunioni pubbliche: non sono sicure? Quindi non sono sicure per i sostenitori di Black Lives proprio come non lo sono per i Satmar. Sono sicure ad alcune condizioni? Allora cerchiamo di essere chiari su quali siano esattamente queste condizioni.
Prendiamo, ad esempio, il decreto del governatore Cuomo secondo cui non sono ammesse più di 10 persone in un luogo di culto in un dato momento. Se possedete anche un minimo di buon senso, vi rendete conto che questa idea è, nella sua essenza, profondamente antiscientifica, poiché non ha nulla da dire sulle dimensioni del luogo di culto in questione. Dieci persone in un piccolo shtiebel di una stanza sono un rischio reale; 10 persone in una grande sinagoga costruita per ospitare migliaia di persone è una vera farsa. Un governatore serio a proposito della scienza e della sicurezza pubblica invece che sulla presa del potere lo avrebbe capito e avrebbe agito di conseguenza, offrendo linee guida che fossero sensate, misurate e concrete. Gli unici a sottolineare questa parodia sono gli haredim.
Non sorprende, quindi, che la bandiera principale esposta durante le proteste haredi della scorsa settimana sia stata la bandiera di Gadsden. Don’t Tread on Me[2], quel cri de coeur tipicamente americano, è, in questi giorni, principalmente il dominio della comunità haredi. In ogni altra parte del mondo ebraico, gli slogan recitati sono le verità ovvie confuse, esauste e prive di significato di simpatici liberali che non possono o non si preoccupano di spiegare le sconcertanti contraddizioni, violazioni, ipocrisie, ed usurpazioni commesse con il loro tacito sostegno.
Appiattisci la curva, indossa una maschera, chiudi le sinagoghe: tutto è stato accettato senza troppa attenzione ai dettagli o alla logica e senza chiederci cosa, in effetti, stiamo rischiando quando cediamo così tante delle nostre libertà a funzionari che sembrano avere nient’altro che la più vaga delle comprensioni ugualmente della scienza e della democrazia. Non c’è niente di meno ebraico, o di meno americano, di quello. Gli haredim capiscono che soccombendo alla tirannia dell’illogicità, il tipo di tirannia che limita la partecipazione indipendentemente dalle dimensioni del luogo o ritiene accettabile una forma di riunione ma non un’altra, tutto andrà perduto. Arrendersi in questo modo sarebbe un totale sconvolgimento del loro modo di vivere ebraico e americano. I loro critici, purtroppo, preferiscono invece esercitare il culto su di un altare molto diverso, santificando la loro buona fede e riverenza di sinistra per i leader del partito politico corretto piuttosto che porre domande difficili ma ovvie. Ciò che vediamo a Brooklyn in questi giorni, quindi, non è altro che una guerra di religione, in cui gli haredim, in un delizioso scherzo del destino, hanno la vera scienza dalla loro parte. Speriamo che vincano loro.
Liel Leibovitz è uno scrittore senior per Tablet Magazine e un ospite del podcast Unorthodox.
Traduzione non autorizzata per Kolot di Roberto Maggioncalda (Grazie!)
[1] Shonda: Yiddish. Una vergogna compiuta da un ebreo di fronte a non ebrei. Qualcosa di scandalosamente vergognoso.
[2] La bandiera di Gadsden è una storica bandiera statunitense. Il vessillo ritrae un serpente a sonagli su sfondo giallo e la scritta Dont tread on me (che in inglese significa Non calpestarmi) posizionata sotto il rettile. La bandiera deriva il suo nome da Christopher Gadsden e apparve per la prima volta nel 1775: per questo è considerata una delle prime bandiere degli Stati Uniti. [https://it.wikipedia.org/wiki/Bandiera_di_Gadsden]
https://www.tabletmag.com/sections/news/articles/religion-science-coronavirus