Simonetta Della Seta
Come è sempre stato convinto il mio maestro, lo studioso Renzo De Felice, sionismo italiano e sionismo internazionale hanno costituito per Mussolini due questioni distinte: la prima di politica interna e la seconda, in quanto legata alla cosiddetta «questione palestinese», di politica estera. Un terzo filone, potremmo dire, è stato per Mussolini quello del rapporto con l’ebraismo e, più in particolare, con gli ebrei italiani, ma questo meriterebbe un intervento separato.1 L’atteggiamento del regime fascista nei confronti del sionismo è stato dunque diverso a seconda che si trattasse dei rapporti con il movimento sionistico mondiale inerenti agli affari palestinesi e agli equilibri di politica estera o se riguardasse piuttosto l’affiliazione di cittadini italiani al movimento sionista. Ciononostante, non sono mancate occasioni in cui i sionisti italiani siano stati loro stessi coinvolti dal regime al fine di passare ai sionisti generali o a organismi ebraici europei e mondiali messaggi strategici che riguardavano le aspirazioni internazionali dell’Italia.
In generale, Mussolini provava verso il sionismo italiano lo stesso senso di diffidenza che era diffuso tra i nazionalisti e i fascisti, convinti che i sionisti coltivassero amore e fedeltà per due patrie, potendo perfino preferire quella ebraica a quella italiana. Ciò contrastava con il concetto totalizzante di «patria» che avevano i fascisti e rendeva i sionisti individui fondamentalmente sospetti. Inoltre, a seguito della cosiddetta Dichiarazione Balfour, emanata nel 1917 dal governo di Londra a favore di un «focolare nazionale ebraico in Palestina», nonché della creazione di un Mandato britannico su quella terra, si era divulgata l’opinione che i sionisti fossero facilmente influenzabili dagli inglesi.
Verso il sionismo internazionale, invece, Mussolini ha sempre mostrato un certo interesse di tipo strategico. Mussolini vedeva infatti nel sionismo mondiale, e in quello palestinese, una preziosa carta da giocare per inserire l’Italia negli avvenimenti mediterraneo-orientali, soprattutto in senso anti-inglese. «In definitiva – scrive Renzo de Felice – non ci si sbaglia affermando che la carta “sionismo”, così come quella “arabi” fu per Mussolini soprattutto un elemento del suo gioco mediterraneo e di eventuale baratto con l’Inghilterra».2
Certi ambienti nazionalisti cattolici italiani hanno sempre covato la speranza che si sarebbe potuti giungere a una revisione del Mandato inglese sulla Palestina e all’apertura di nuove possibilità in quella area geografica, anche per l’Italia, Paese che manteneva da secoli aspirazioni di protettorato sui Luoghi Santi cristiani.3
Infine la cosiddetta «questione ebraica» relativa alla Palestina era entrata da anni nelle considerazioni politiche e coloniali dell’Italia. Alla luce del successo della Dichiarazione Balfour, non pochi si erano convinti che il miglioramento dei rapporti con i sionisti avrebbe aiutato anche l’Italia — come era accaduto all’Inghilterra — ad aprirsi un varco di infiltrazione politico-economica nel Vicino Oriente.4 Alcuni ebrei e sionisti italiani avevano da sempre fatto pressione sul governo rafforzando l’idea che una politica sionista avrebbe ancor più legato all’Italia i suoi cittadini ebrei levantini, ovvero quegli italiani ebrei originari di Livorno che ora vivevano ad Alessandria d’Egitto, a Smirne, a Salonicco o a Rodi, quest’ultima diventata peraltro italiana nel 1912.5
A questo proposito vale la pena ricordare le tre missioni mediterranee di cui era stato incaricato dal governo italiano il capitano di fregata della Regia Marina, l’ebreo Angelo Levi Bianchini tra il 1918 e il 1920: due tra i sionisti della Palestina, per attingere informazioni sulla convivenza tra ebrei e arabi, e una, al comando di una nave da guerra, per una missione perlustrativa tra gli ebrei del Levante. Un’ulteriore azione in favore del progetto italo-levantino era stata svolta nel 1920 dall’ufficiale ebreo Guido Jarach che, ancoratosi con la nave nel porto di Smirne, aveva fatto per ordine del governo opera di «proselitismo italiano» tra gli ebrei della città turca.
Tratteremo più avanti del caso della fondazione di un Collegio Rabbinico Italiano nella città di Rodi con l’appoggio dell’Italia fascista e del sogno mai realizzatosi di alcuni ebrei italiani di creare a Palazzo Chigi, allora sede del Ministero degli Esteri, un ufficio per gli affari ebraici.
I sionisti internazionali non avevano inizialmente motivi per non cercare un rapporto con l’Italia fascista. Prima che Mussolini decidesse di imporre agli italiani la «politica della razza», l’Italia era uno dei Paesi europei più liberali nei confronti degli ebrei e i capi del movimento sionista mondiale covavano addirittura la speranza che Mussolini potesse riuscire a moderare Hitler nella sua feroce politica antiebraica.
L’Italia era per i sionisti un Paese importante anche per via del porto di Trieste, che permetteva il traffico di profughi ebrei in fuga dall’Europa nazista. Infine i buoni rapporti con l’Italia volevano dire evitare che Mussolini puntasse sulla carta araba – cosa che fece, ma molto più tardi – e che la Palestina rimanesse campo incontrastato degli inglesi, non sempre amichevoli nei confronti del sionismo e della immigrazione ebraica nel territorio del Mandato.
Per Dante Lattes, uno dei più attivi sionisti italiani di quel periodo (la Federazione Sionistica Italiana era nata nel 1904 e ricostituita dopo la prima guerra mondiale nel 1918), mantenere un rapporto con il governo di Roma poteva aiutare i sionisti nella loro triplice battaglia: per Israele, per la salvezza dei propri fratelli europei in pericolo e per la pace che crollava sotto i colpi del nazismo.7
«I primi anni dopo la marcia su Roma» – scrive ancora De Felice – «non videro sostanziali mutamenti in quella che era stata la politica verso la Palestina e il sionismo dei governi pre-fascisti. E l’atteggiamento genericamente filoarabo era la conseguenza, più apparente che reale, dell’irrigidimento creatosi dopo la Dichiarazione Balfour per non apparire troppo appiattiti sulle posizioni inglesi a favore del “focolare nazionale ebraico”».8
Un concreto mutamento nella politica italiana vis à vis il sionismo ebbe luogo tra gli anni 1926 e 1928. Ciò avvenne per una serie di concause, ma soprattutto perché Mussolini cominciò a dare un indirizzo sempre più personale alla politica estera e, in particolare, a interessarsi sempre più concretamente e personalmente al Mediterraneo orientale.
Nel settembre del 1926, Chaim Weizmann, allora a capo della Federazione Sionistica Mondiale, fu ricevuto da Mussolini. Si trattò – come sappiamo sia dai diari del leader sionista sia dagli scritti di Dante Lattes,9 – di una conversazione molto diversa da quella avuta da Weizmann quando aveva incontrato Mussolini nel gennaio del 1923, circa due mesi dopo la sua ascesa al potere, e quando quest’ultimo si era apertamente opposto al sionismo, definendolo «uno strumento della politica inglese».10
Nel 1926 Weizmann sentì invece che l’incontro aveva avuto risultati positivi. Il leader sionista aveva descritto a Mussolini la situazione in Palestina con un particolare accento sulle problematiche imposte dagli inglesi circa l’immigrazione e aveva sottolineato l’importanza dei porti italiani per gli ebrei. Nelle sue memorie Weizmann scrive che il Duce era stato molto soddisfatto di aver appreso che gli ebrei avevano ottimi rapporti con i rappresentanti dell’Italia a Gerusalemme.11 Mussolini offrì aiuto per la colonizzazione ebraica in Palestina e, per cominciare, chiese che i lavori di costruzione del porto di Haifa fossero affidati a ditte italiane. A fine colloquio, Weizmann espresse una chiara impressione che il regime fascista avesse maturato un cambiamento sostanziale sul sionismo.
Nello stesso anno Mussolini ricevette per un colloquio David Prato, il rabbino nato a Firenze designato a succedere al Gran Rabbino d Alessandria Raffaello Della Pergola, dopo la morte di quest’ultimo. Durante l’incontro, il Duce espresse soddisfazione per la partenza di un «fedelissimo» elemento ebraico italiano in Oriente alla volta dell’Egitto.12 Prato era stato uno dei firmatari della ricostituzione della Federazione Sionistica Italiana il 18 settembre 1918.13
Nel febbraio del 1927 Mussolini incontrò un altro delegato dell’esecutivo sionista internazionale, Victor Jacobson, e a luglio autorizzò, a somiglianza di quelli che gli ebrei avevano creato in altri Paesi, la costituzione di un Comitato Italia-Palestina. Il 19 ottobre dello stesso anno Mussolini ricevette in udienza il capo dell’esecutivo sionista, Nahum Sokolov. Quest’ultimo non solo diede sulla stampa ebraica palestinese un giudizio estremamente favorevole su Mussolini, ma riconobbe esplicitamente e pubblicamente che il fascismo era «immune» da preconcetti antisemiti.14
Per dirla ancora con De Felice:
«… in questo periodo, e per qualche anno ancora, questa nuova politica [del regime fascista, n.d.a.] si estrinsecò soprattutto in un più attento guardar dentro gli avvenimenti palestinesi e agli sviluppi del sionismo e in un notevole incremento, nel frattempo, della penetrazione economica e culturale in Palestina e tra gli ebrei ivi stanziati».15
Tanto più che lo stesso Console italiano a Gerusalemme, Orazio Pedrazzi, in un esteso rapporto del maggio 1927, aveva sottolineato, esposto il quadro generale della situazione nuova che presentava la Palestina: «…la necessità di allargare al campo ebraico la nostra azione di penetrazione economica e culturale». Aggiungendo: «Se non faremo noi, faranno gli altri… qui anche i patriarchi e i frati si mettono d’accordo con gli ebrei mille volte al giorno».16 Due giorni dopo Pedrazzi avrebbe scritto a Grandi: «Gli ebrei sono le cimici della Palestina, ma comandano, lavorano e soprattutto cercano di avvicinarsi culturalmente all’Italia».17
Il momento di piena attualità e fermento di temi ebraici e mediterranei fu anche il più adatto a rispolverare il progetto di una organizzazione italiana dell’ebraismo levantino. Il rabbino capo di Roma Angelo Sacerdoti riaprì la questione inviando a Mussolini un lungo memoriale «sul problema dei rapporti spirituali e culturali tra gli israeliti italiani e quelli che vivono nei paesi del bacino del Mediterraneo»18 nella convinzione che fosse giunto il momento di prepararsi, da italiani, a prendere il posto della francofona associazione ebraica Alliance Israelite nei contatti tra ebrei del Mediterraneo e l’Europa. Mussolini considerava da sempre l’Alliance la longa manus della politica francese in Nord Africa e nel Medio Oriente.
Nella stessa atmosfera il Governatore fascista di Rodi, Mario Lago, presentò al Duce la proposta di fondare nell’isola italiana del Dodecanneso un collegio rabbinico di cultura italiana che fosse in grado di formare giovani rabbini legati all’Italia da inviare poi nelle comunità del bacino mediterraneo.19
Lago si raccomandò di coinvolgere nel progetto l’ebraismo italiano e sefardita, il che non fu semplicissimo, dal momento che la comunità ebraica di Rodi non era ancora entrata a far parte del consorzio delle comunità ebraiche italiane, cosa che sarebbe avvenuta solo dopo il 1930, a seguito della legge che dette vita all’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Il Collegio Rabbinico di Rodi, fondato nonostante tutto nel gennaio del 1928, grazie anche a una visita decisiva a Rodi del gran rabbino di Alessandria David Prato, avrebbe rappresentato fino alla sua chiusura, dieci anni più tardi, l’unico progetto concreto delle aspirazioni fasciste di valorizzazione a scopi italiani della presenza ebraica e sionista nel Mediterraneo.
I rapporti tra l’Italia fascista e i sionisti cominciano tuttavia a prendere una nuova piega nel 1929, con la drammatica acutizzazione del contrasto in Palestina tra arabi ed ebrei. L’opinione pubblica italiana, soprattutto cattolica, cominciò a chiedere una revisione del Mandato, da affidare a una potenza che non avesse «impegni e legami col sionismo». Virginio Gayda, un autorevole giornalista filoregime, scrisse su «Gerarchia», la rivista del Duce:
«La Palestina è anche terra sacra per tutta la cristianità. Il suo regime naturale dovrebbe essere quello della internazionalizzazione con una partecipazione al suo governo dell’Italia e della Francia, oltre che dell’Inghilterra».20
In questo nuovo contesto, Mussolini cominciò sempre più ad attenersi a una linea di prudenza, senza sbilanciarsi troppo e in attesa che l’Inghilterra pagasse i prezzi della sua stessa politica. Ciononostante, l’atteggiamento italiano in occasione dei moti arabi del 1929 rafforzò paradossalmente la stima per Mussolini di alcuni circoli sionisti, e in particolare dei sionisti revisionisti, guidati da Zeev Jabotinsky, il quale peraltro, aveva studiato in Italia e parlava correntemente l’italiano. Personalmente, Jabotinsky si era messo in contatto con Mussolini ancora prima che salisse al potere e nel luglio del 1922 gli aveva scritto una lettera in cui gli dimostrava la precarietà della carta araba per proporgli, già allora, una collaborazione italo-ebraica, con la quale addirittura si sarebbe ristabilito l’uso della lingua italiana tra gli ebrei di tutto il Mediterraneo.21
Con l’inizio del nuovo decennio la posizione di Jabotinsky di aderenza, anche ideologica, all’Italia si venne sempre più accentuando, al punto che nel 1933 egli partecipò al diciottesimo congresso mondiale sionista in qualità di rappresentante dell’Italia. Insomma, se nel decennio precedente erano stati i fascisti a cercare spesso i sionisti per i loro obiettivi di politica estera, negli anni trenta sono più i sionisti a cercare Mussolini. In particolare i sionisti italiani – tra cui Lattes e Sacerdoti – corteggiarono Mussolini fino a fargli proporre a Weizmann di ospitare ad Abbazia (Oggi in Croazia, allora in Italia) il successivo congresso sionistico mondiale. In quel momento – spiega ancora De Febee – presentarsi come amico e protettore degliebrei serviva al Duce per almeno quattro buoni motivi:
«1) perché si rendeva conto che una drammatizzazione della condizione degli ebrei in Germania avrebbe introdotto nella già pesante situazione europea un ulteriore grave motivo di tensione; 2) perché riteneva che così facendo avrebbe spianato la strada a quel “direttorio” (poi “patto a quattro”) delle potenze europee sul quale egli fondava in quel momento gran parte della sua strategia politica; 3) perché così facendo distingueva nettamente la politica e l’immagine del fascismo da quella del nazionalsocialismo e ciò avrebbe, pensava, reso più facile e credibile il suo ruolo di “arbitro” della politica europea; 4) perché, infine, riteneva che mostrarsi amico e protettore degli ebrei tedeschi avrebbe giovato assai al suo personale prestigio nel mondo ebraico (la cui potenza politica ed economica egli considerava grandissima, certo superiore a quanto era in realtà) e, di riflesso, presso l’opinione pubblica dei paesi democratici e, insieme, avrebbe favorito molto la penetrazione italiana in Palestina e, più in generale, nel Mediterraneo».22
Mussolini diede anche adito ai sionisti di pensare che dopo l’ascesa al potere di Hitler sarebbe riuscito comunque a intervenire riservatamente su di lui per cercare di moderarne i furori razzistici. Al punto che molti autorevoli sionisti, abbagliati da questa prospettiva, non si accorsero che anche in Italia l’antisemitismo stesse riacquistando un certo vigore e gran parte della stampa sionista di Gerusalemme e Tel Aviv continuò a sotto- lineare solo l’atteggiamento filo-ebraico del governo di Roma.
In questo contesto piuttosto intrigato, tra il ’33 e il ’34 si svolse un’intensa attività politica in Italia da parte di Weizmann e di altri rappresentanti del movimento sionista, proprio nella speranza di contrastare Hitler.23 Il primo di una serie di incontri tra Weizmann e Mussolini ebbe luogo il 26 aprile del 1933. E benché il suo protocollo non sia stato conservato e Weizmann stesso non ne abbia parlato nei dettagli nelle sue memorie, sappiamo bene da altre fonti che il leader sionista chiese al Duce di intervenire presso il Führer per salvare almeno cinquantamila ebrei tedeschi, facendoli transitare dall’Italia. Mussolini, dal canto suo, non aveva rinunciato all’idea di porsi come mediatore tra Hitler e gli ebrei e aveva già fatto muovere Vittorio Cerniti, suo ambasciatore a Berlino, perché passasse a Hitler «in modo fermo ma cordiale» un messaggio contro il boicottaggio tedesco degli ebrei. Hitler aveva ricevuto Cerniti il 31 marzo ma, senza nascondere la sua irritazione, aveva respinto compieta- mente l’appello di Mussolini.24 Nonostante il fallimento della missione di Cerruti, Mussolini avrebbe visto Weizmann. I leader sionisti continuarono a credere che l’Italia sarebbe potuta essere d’aiuto, se non altro per il trasferimento dei profughi ebrei verso la Palestina, nonostante anche qui i problemi si stessero sempre più acutizzando con nuove rivolte arabe e nuove restrizioni all’immigrazione ebraica imposte dagli inglesi.
Per Mussolini, invece, che, oltre a essersi ormai convinto dei rischi che avrebbe incorso facendo nuovi passi su Hitler, vedeva sbriciolarsi giorno dopo giorno la propria strategia sul «patto a quattro» (Italia-Francia-Gran Bretagna-Germania), la carta sionista stava ormai acquistando un valore diverso, sempre più proiettato verso un maggiore dinamismo italiano nel cosiddetto Levante. Ciò nella presunzione che la Germania sarebbe stata fermata e che prima o poi l’Italia sarebbe anche riuscita a ottenere da Francia e Inghilterra delle contropartite per essere riuscita a tenere a freno Hitler.
Questo dinamismo è quello che alla fine fa scattare la conquista dell’Etiopia, ma anche quello che porta Mussolini a mettere contemporaneamente in atto la sua politica filo-araba, pur appoggiando la creazione di uno stato per gli ebrei su una parte del territorio e sostenendo il sionismo revisionista di Jabotinsky, in chiave anti-inglese. Secondo Renzo De Felice «il prosionismo di Mussolini del 1933-34 e in qualche misura ancora nei primi mesi del 1935, molto più che a porsi come mediatore tra ebrei e arabi e sostituire la propria egemonia a quella inglese in Palestina, mirava ad accrescere la tensione in Palestina e, quindi a creare ulteriori difficoltà all’Inghilterra in uno dei punti più nevralgie, de suo impero».
I successivi colloqui con Weizmann e Nahum Goldmann sono a questo proposito molto significativi, per capire le preoccupazioni delle due parti, ma anche perché, nonostante tutto, i leader sionisti considerarono fino all’ultimo Mussolini un amico e un potente capace di poterli aiutare, se non più a salvare gli ebrei tedeschi, se non altro ad appoggiare la nascita di due stati, ebraico e arabo, in Palestina.
Nel colloquio con il Duce il 17 febbraio del 1934 a Weizmann interessava chiaramente che l’Italia appoggiasse anche la liberta di immigrazione in Palestina in sede di Commissione Permanente dei Mandati (cosa che non avvenne…). Nell’incontro avvenuto tra Mussolini e Nahum Goldmann il 13 novembre, il leader sionista si prodigò invece per salvare settemila ebrei della Saar, prima dell’annessione alla Germania con il plebiscito e l’applicazione delle leggi naziste antiebraiche. Grazie all’intervento italiano, l’accordo sottoscritto a Roma il 13 dicembre successivo tra Francia e Germania contemplò esplicitamente il problema e un articolo dell’accordo stabilì per gli ebrei della Saar il diritto di lasciare liberamente, e con i propri beni, il loro territorio. Cosa che avvenne quando la regione passò alla Germania.
Così come Mussolini non era riuscito a convincere Hitler ad abbandonare la sua politica antisemita, in Palestina non riusciva a convincere gli arabi ad accettare l’idea di uno stato ebraico. Non è questa la sede per parlare dei rapporti tra l’Italia e il nazionalismo arabo degli anni trenta in Palestina – alcuni dei massimi esperti su questo tema, come il prof. Luigi Goglia e il dott. Nir Arielli, partecipano a questo convegno. Tuttavia è necessario ricordare che il governo fascista ebbe un forte coinvolgimento nei moti arabi del 1936-39 e che i contatti tra i funzionari italiani e Hajj Amin al-Husseini, colui che era allora il Gran Mufti di Gerusalemme e che guidò la lotta nazionalista araba, erano cominciati già nel 1933, per poi rafforzarsi sempre di più negli anni che seguirono.26 Il Mufti cercava allora appoggio contro gli inglesi e contro i sionisti che stavano costruendo il proprio insediamento in Palestina. L’assistenza dell’Italia alla rivolta araba in questa terra ha quindi assunto la forma dell’appoggio politico-diplomatico, della propaganda, dell’aiuto finanziario e perfino di tentativi di rifornimento di armi.
Negli stessi anni – può sembrare contraddittorio ma il collegamento tra i due fatti è la politica anti-britannica di Mussolini – il regime fascista aveva permesso ai sionisti revisionisti addirittura di aprire una loro scuola navale Beitar a Civitavecchia (attiva dal 1934) alla quale, fino alla sua chiusura nel 1938, si formarono decine di uomini che avrebbero costituito il primo nucleo della marina israeliana. Il significato per Mussolini era evidente: per il fascismo era fondamentale formare un gruppo di giovani che sarebbero potuti diventare altrettanti propagandisti dell’Italia e del fascismo nel mondo e specialmente in Palestina dove poi i sionisti revisionisti avevano dato prova di essere i più accaniti anti-inglesi. I rapporti tra gli agenti di Jabotinsky e il governo italiano, anche tramite il Consolato di Gerusalemme, furono costanti per quasi tutti gli anni trenta, tanto da suscitare diverse denunce da parte inglese.
La crisi provocata dal conflitto italo-etiopico nel 1936 ebbe notevoli ripercussioni sui rapporti tra Italia e sionismo. In quelle circostanze, infatti, il governo fascista da un lato cercò di creare sempre più difficoltà all’Inghilterra, dall’altro cercò di servirsi del sionismo per evitare le sanzioni e specialmente la loro applicazione da parte della Palestina, con la quale l’Italia aveva un forte interscambio commerciale. In questo senso Mussolini mandò diversi messaggi ai capi del sionismo «…perché non si gingillassero con la Gran Bretagna».28
Nello stesso quadro va letta l’intensa attività diplomatica italiana tra la fine del 1935 e i primi del 1936 attraverso i sionisti e i maggiori esponenti dell’ebraismo italiano. Pare che il primo ad aver avuto l’idea di inviare i sionisti italiani a Londra per scongiurare le sanzioni all’Italia sia stato il Console Generale di Gerusalemme Mariano De Angelis Come protagonisti della missione speciale a Londra, che si ripeté a Ginevra e a Parigi, furono scelti Dante Lattes e Angiolo Orvieto, i quali si appellarono ai capi del sionismo mondiale perché a loro volta facessero pressione sugli inglesi, facendo presente che le sanzioni avrebbero definitivamente buttato Mussolini nelle braccia di Hitler. Il fallimento della missione lascio parecchie persone a Roma con la bocca amara.
Con la seconda metà del 1936 e i primi mesi del ’37 i rapporti tra l’Italia fascista e il sionismo entrarono nella loro ultima fase. Il 9 giugno 1936 Mussolini nominò Ministro degli Esteri il genero Galeazzo Ciano e ciò ebbe subito ripercussioni sulla politica nei confronti del sionismo. Se Fulvio Suvich in qualità di sottosegretario aveva guidato gli Esteri con moderazione, e da triestino aveva sempre messo in guardia Mussolini contro la Germania, Ciano appoggiò un riavvicinamento italo-tedesco. I rapporti con i sionisti divennero per Palazzo Chigi – allora sede del Ministero degli Esteri – sempre più rischiosi da non valer la pena di essere portati avanti. L’episodio più significativo del nuovo clima fu 1’incontro Ciano-Goldmann, rimandato diverse volte e con risultati nulli. La carta sionista era ormai per i fascisti priva di valore. Le prime avvisaglie della fine del lungo, reciproco corteggiamento si erano avute già quando sulle colonne de «Il regime fascista» cominciarono ad apparire nell’autunno del ’36 i corsivi antisemiti a firma di Roberto Farinacci. Quello del 24 ottobre si intitolava Fascismo e internazionale ebraica.29
In quello stesso mese di ottobre del 1936 veniva inviato a Gerusalemme quale console generale Quinto Mazzolini, diplomatico di provata fede fascista, non ostile agli ebrei in quanto tali ma dichiaratamente contrario al sionismo e alle sue aspirazioni e realizzazioni in Palestina, in particolare. E contemporaneamente Mussolini dava il suo benestare all’avvio di aiuti cospicui, in armi e denaro, al movimento di ribellione arabo guidato dal Gran Mufti di Gerusalemme contro l’amministrazione britannica e la colonizzazione ebraica in Palestina. Alcuni mesi più tardi, nella primavera del 1937, durante la sua visita in Libia Mussolini brandì «la spada dell’islam» e se ne proclamò protettore nel Vicino Oriente, indicando così tangibilmente il nuovo corso della sua politica.
La pubblicazione del libro di Paolo Orano Gli ebrei in Italia alla fine del marzo 1937 e l’incessante campagna stampa antisemita che ne seguì mostrarono senza ombra di dubbio la nuova strada intrapresa dal regime, che condusse a un’alleanza sempre più stretta con Hitler e al varo della legislazione antiebraica nell’estate del 1938.30
Nell aprile dello stesso anno il sionista Goldmann aveva chiesto un colloquio con Ciano. Questa volta gli era stato direttamente negato.
NOTE
1 Cfr R. De Felice, Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961; M. Michaelis, Mussolini and the Jews: German-ltalian Relations and the Jewish Question in Italy, 1922- 1945, Oxford 1978.
2 R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente, Bologna 1988, p. 126.
3 F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla Grande Guerra alla Conciliazione, Bari 1966; S.I. Minerbi, Il Vaticano, la Terra Santa, il sionismo, Milano 1988; A. Gabellini, L’Italia e l’assetto della Palestina 1916-1924, Firenze 2000.
4 U. Nahon, Gli echi della Dichiarazione Balfour e la Dichiarazione Imperiali del maggio 1918, in «La Rassegna Mensile di Israel», voi. XXXIV, n. 6,1968, p. 341.
5 S. Della Seta, Gli ebrei del Mediterraneo nella strategia politica fascista sino al 1938: il caso di Rodi,in «Storia Contemporanea», n. 6, 1986, pp. 997-1032.
6 Si. Minerbi, L’Italie e la Palestine 1914-1920, Paris 1970.
7 S. Della Seta e D. Carpi, «Il movimento sionistico», in Storia d’Italia, Gli ebrei in Italia, Torino 1966, voi. Il, pp. 1321-1368.
8 R De Felice, Il fascismo e l’Oriente, op. cit., p. 129.
9 C. Weizman, Trial and Error, London 1984; N. Goldmann – D. Lattes – U. Nahon – G. Romano, Nel centenario della nascita di Teodoro Herzl, in «La Rassegna Mensile di Israel», 1961.
10 D. Carpi, Weizmann’s Politicai Activity in Italy from 1923 to 1934 (in ebraico), in «Zionism», voi. 2, 1971, pp. 169-207.
11 C. Weizman, Trial and Error, op. cit., p. 371.
12 R De Felice, Il fascismo e l’Oriente, op. cit., p. 131.
13 S. Della Seta – D. Carpi, «Il movimento sionistico», op. cit., p. 1323.
14 U. Nahon, La visita di Sokolov a Livorno nel 1927, in «Rassegna Mensile di Israel», voi. XXVTH, luglio-agosto 1972, pp. 147-166.
15 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961 e 1977, p. 190.
16 ASMAE, AP, Palestina, b. 1460 f. 1, lettera del 19 maggio 1927.
17 ASMAE, AP, Palestina, b. 1460 f. 1, lettera del 21 maggio 1927.
18 S. Della Seta, Gli ebrei del Mediterraneo nella strategia politica fascista, op. cit., p. 1009.
19 S. Della Seta, Gli ebrei del Mediterraneo nella strategia politica fascista, op. cit.
20 V. Gayda, Sangue in Palestina, in «Gerarchia», settembre 1929.
21 V.Z. Jabotinsky, Verso lo Stato, Firenze 1970, p. 27.
22 R De Felice, Il fascismo e l’Oriente, op. cit., p. 139.
23 Cfr D. Carpi, R De Felice, S.I. Minerbi, opp. citt.
24 D. Carpi, Weizmann’s Political Activity in Italy, op. cit.; e S.I. Minerbi, Gli ultimi due incontri Weizmann-Mussolini (1933-1934), in «Storia contemporanea», 1974, pp. 431-480.
25 R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente, op. cit., p. 149.
26 L. Goglia, Il Muftì e Mussolini: alcuni documenti italiani sui rapporti tra nazionalismo palestinese e fascismo negli anni trenta, in «Storia Contemporanea», n. 6,1986, pp. 1201-1254; N. Arielli, Italian Involvement in theArab Revolt in Palestine 1936-1939, in «British Journal of Middle Eastern Studies», voi. 35, n. 2, agosto 2008, pp. 187-204.
27 Italian Propaganda in Palestine, in «The Times», 12 ottobre 1935.
28 R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente, op. cit., pp. 168 e ss.
29 S. Della Seta – D. Carpi, «Il movimento sionistico», op. cit.
30 Cfr S. Zuccotti, The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival, New York 1987; L. Maggioni (a cura di), Dalle Leggi antiebraiche alla Shoah, Sette anni di storia italiana 1938-1945, Milano 2004; e B. Vespa – M. Pezzetti (a cura di), 1938 Leggi razziali: Una tragedia italiana, Roma 2009.
Italia – Israele: GLI ULTIMI CENTOCINQUANTA ANNI
Atti della Conferenza Gerusalemme 16-17 maggio 2011
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