Da una derashà di Rav Sacks
La Torah nella parashah di Tetzawwè dedica particolare enfasi al tema degli abiti dei kohanim (Shemot 28,2; 4): “Farai confezionare per Aron tuo fratello vestimenti sacri, segno di dignità e maagnificenza; Ed ecco gli abiti che essi prepareranno: un pettorale, un dorsale, un manto, una tunica trapunta, un turbante e una cintura”. In generale la tradizione ebraica suggerisce di non fidarsi delle apparenze. Per esempio nel primo libro di Shemuel (9,2) il re Shaul, pur essendo una spanna più alto di tutti gli altri, non mostra di avere una pari levatura morale. Piuttosto che guidare il popolo, lo seguiva.
Per questo H. lo rigettò, e disse al profeta Shemuel di ungere il figlio di Yshai. Shemuel andò, e rimase impressionato da Eliav, che come si suol dire aveva il fisique du role, e credeva che fosse lui il prescelto, ma H. disse a Shemuel (1Sam 16,7) di non basarsi sull’aspetto o sull’altezza, perché il Signore non considera quello che la gente osserva. La gente osserva l’aspetto esteriore, H. guarda al cuore. Le apparenze ingannano. Il termine ebraico che indica l’abbigliamento ha la stessa radice del tradimento (b-g-d). Nel libro di Bereshit l’inganno di Ya’aqov e quello dei fratelli nei confronti di Yosef viene portato avanti per mezzo degli abiti. Nel libro di Bereshit troviamo altri esempi di questa dinamica, ma nonostante ciò, gli abiti divengono elemento integrante del servizio sacerdotale nel Bet ha-miqdash. Perché è così? La risposta è in due parole che la Torah utilizza, kavod e tiferet, onore e bellezza. Il termine tiferet compare praticamente solo in questo contesto, kavod lo troviamo più spesso, ma sempre in relazione ad H. Che succede? Ci troviamo di fronte ad un cambiamento di paradigma? Quando parla del Bet ha-miqdash la Torah recupera la dimensione estetica, che non è considerata centrale nell’ebraismo.
Quando pensiamo ai grandi imperi dell’antichità, l’Egitto, Babilonia, la Grecia, Roma, non possiamo non pensare ai magnifici palazzi, agli ornamenti e agli abiti sontuosi delle loro corti. L’ebraismo non ama la pompa. L’adorazione di un D. invisibile porta a prediligere il suono all’immagine. Parole piuttosto che rappresentazioni. Tutto questo è vero, ma non nel Bet ha-miqdash. Perché? Rambam lo spiega nel Moreh nevuchim (III, 45): per esaltare il Tempio è necessario che chi vi presta servizio, i sacerdoti e i leviti, siano onorati, e pertanto distinti dagli altri. Per questo dovevano indossare splendidi abiti. La moltitudine infatti non stima gli individui per come sono veramente, ma per le loro apparenze, ed il tempio doveva essere tenuto nel massimo rispetto da tutti. La spiegazione del Rambam è chiara, ma non si può non notare un accenno di disprezzo nelle sue parole. Nella vita religiosa tutto questo non dovrebbe avere spazio, ma è così per via della massa. I più sono impressionati dalla magnificenza. Nel libro The body of faith Wishogrod attribuisce un peso importante alla dimensione estetica nell’ebraismo. Nella storia del mondo arte e culto sono stati sempre connessi, e l’ebraismo non si sottrae a questa regola. Moltissimi artefatti delle civiltà passate erano destinati ad un uso rituale e nella maggior parte dei casi erano i prodotti maggiormente elaborati ed esteticamente più significativi.
L’ebraismo postbiblico non ha lasciato contributi significativi nelle arte figurative. Gli artisti anzi tendono ad abbandonare la comunità ebraica. Rav Kook auspicava che la rinascita dello stato avrebbe portato ad una rifioritura dell’arte ebraica, perché la bellezza era parte integrante del servizio divino. Molti studi nel campo delle neuroscienze stanno mostrando sempre più chiaramente che l’essere umano non è una creatura razionale. Non che non siamo in grado di ragionare, ma la sola ragione non ci porta ad agire. Quello che ci muove è l’emozione, che raggiunge delle zone più profonde del nostro cervello. L’arte parla all’emozione. Ci tocca più in profondità delle parole. Per questo l’arte riesce ad esprimere una spiritualità che le parole non hanno. Nella nostra tradizione l’arte è messa al servizio della gloria di H. La gloria del Kohen è un riflesso della gloria divina. Per mezzo dell’arte l’uomo restituisce ad H. parte della bellezza distribuita nel creato. Questa è la grande differenza rispetto alla grecità, che credeva nella santità della bellezza. Per noi il discorso è rovesciato: c’è una hadrat qodesh, la bellezza della santità. La bellezza ispira amore, e dall’amore deriva la ‘avodah, il servizio del cuore.